Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Cessazione del rapporto di lavoro ed esclusione del socio di s.r.l. con liquidazione della quota a valori contabili (di Nicolò Pozzato)


La presente nota prende in esame la natura e le conseguenze operative che derivano dall’adozione di una clausola statutaria di s.r.l. che impone ai soci prestatori di lavoro di “offrire in acquisto pro quota agli altri soci” la propria partecipazione ad un prezzo pari al valore del patrimonio netto corrispondente. In particolare, dopo aver negato l’ammissibilità della figura del “recesso vincolato-obbligatorio” proposta dalla Corte d’Appello di Torino, ci si sofferma a considerare la compatibilità di tale clausola con il meccanismo e il regime dell’esclusione del socio, avendo particolare riguardo, fra l’altro, ai profili della giusta causa e della liquidazione.

Termination of employment and exclusion of a quotaholder in an Italian limited liability company with liquidation of the stake at book values

This paper examines the nature and the operational implications arising from the adoption of a clause in the bylaws of an Italian limited liability company requiring the employee quotaholders to “offer in purchase on a pro rata basis to the other quotaholders” their stake at a price equal to the book value. In particular, after denying the admissibility of a “mandatory withdrawal” proposed by the Court of Appeal of Turin, we focus on the compatibility of the application of the rules of quotaholder exclusion in relation to the objectives of the transaction carried out by the parties.

MASSIMA: La clausola statutaria con cui si conviene che il socio divenuto tale in virtù di un piano di incentivazione rivolto ai prestatori di lavoro deve offrire in acquisto pro quota agli altri soci la propria partecipazione ad un prezzo pari al valore del patrimonio netto corrispondente costituisce un’obbligazione di vendere la quota qualificabile quale obbligo di recesso (recesso vincolato-obbligatorio) che, pur distinguendosi dall’esclusione del socio in senso tecnico perché non vi è assunzione della delibera di esclusione assembleare ex art. 2287 c.c., è regolata mediante l’applicazione analogica degli artt. 2473-bis e 2473 c.c. PROVVEDIMENTO: RAGIONI DI FATTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione in appello ritualmente notificato i dott. S. Z., E. F., M. M. e C. S., già dirigenti della s.p.a. Banca Sistema e (in forza di un piano di incentivazione della stessa banca rivolto a dipendenti e amministratori) titolari di quote di minoranza della s.r.l. SGBS – Società di Gestione delle Partecipazioni in Banca Sistema (il cui socio di maggioranza è la s.r.l. Garbifin con socio unico G. G. che è anche amministratore unico di SGBS e amministratore delegato di Banca Sistema) che detiene un pacchetto azionario pari al 23,10% del capitale della Banca e, in virtu’ di un patto di sindacato, ne esercita il controllo unitamente ad alcuni istituiti di credito ai sensi dell’art. 2359 c.c., impugnano la sentenza del tribunale di Torino n.1488/20 pubblicata il 7.5.20 con la quale è stata respinta la loro domanda avente ad oggetto la declaratoria di nullità dell’art. 9, paragrafo 2 (già art. 9 par. 6) dello Statuto della s.r.l. SGBS (che prevede che qualora i soci di minoranza, persone fisiche, per qualsivoglia motivo, cessino l’attività lavorativa per le società controllate o collegate sono obbligati ad offrire in acquisto agli altri soci le loro quote al valore del patrimonio netto corrispondente e non al prezzo di mercato) ed è stato dichiarato il loro inadempimento all’ob­bligo nel medesimo previsto, statuendo, inoltre, il tribunale che la s.r.l. SGBS (la cui durata è prevista fino all’anno 2050) non può considerarsi contratta a tempo indeterminato e, di conseguenza, ai soci non compete il diritto di recesso ad nutum ai sensi dell’art. 2473, 2°c., c.c. Il tribunale di Torino, con l’impugnata sentenza, ha ritenuto che la clausola suddetta non fosse affetta da nullità. L’art. 9, secondo paragrafo dello Statuto della s.r.l. SGBS (identico contenuto aveva l’art. 9, paragrafo 6 prima dell’intervenuta modifica in corso del giudizio di primo grado che ha comportato la cessazione della materia del contendere su altri punti controversi) prevede che “nell’ipotesi in cui i soci persone fisiche detentori di una quota di [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Sull’inammissibilità di un “recesso vincolato” - 3. Il problematico inquadramento giuridico della fattispecie oggetto del giudizio: natura sociale della clausola - 3.1. L’inquadramento contrattuale: rigetto - 3.2. L’inquadramento societario: accoglimento. Automaticità o facoltatività dell’e­sclusione? - 3.3. Esclusione e giusta causa (cenni) - 3.4. La liquidazione della quota a valori contabili - 4. Considerazioni sulla partecipazione sociale “a tempo” dei beneficiari del piano di incentivazione. Note conclusive - NOTE


1. Il caso

La vicenda processuale in esame ha ad oggetto un’azione volta all’accertamento della nullità di una clausola statutaria di s.r.l. che assoggettava i soci dirigenti al­l’in­terno della medesima società o delle controllate all’obbligo di “offrire in acquisto pro quota agli altri soci” la propria partecipazione – ad un prezzo pari al valore del patrimonio netto corrispondente – in caso di cessazione, per qualsiasi causa, dell’attività lavorativa prestata [[1]]. In primo grado, il Tribunale respingeva le domande degli attori e riconduceva la clausola ad una fattispecie di esclusione del socio, asserendo la positiva sussistenza del requisito della giusta causa ex art. 2473-bis c.c. In questa sede, non è stata ritenuta ravvisabile la nullità della previsione che determinava il prezzo di cessione in base al valore del patrimonio netto e non a quello di mercato, stante la derogabilità in peius dei criteri di determinazione del valore della quota che emergerebbe da una lettura sistematica della disciplina dei tipi sociali capitalistici [[2]]. I soccombenti, già dirigenti della controllata e titolari di quote di minoranza della controllante in virtù di un apposito piano di incentivazione, proponevano quindi appello, contestando la liceità della menzionata previsione statutaria per una pluralità di motivi, tra i quali rilevano, ai nostri fini, l’assenza di una giusta causa di esclusione e l’asserita inderogabilità delle previsioni normative dettate in tema di valorizzazione della quota di partecipazione in sede di recesso e di esclusione. Investita della causa, la Corte di Appello conferma, seppur sulla base di una ricostruzione della fattispecie parzialmente difforme, la sentenza oggetto di gravame, dichiarando così inammissibile l’appello incidentale condizionato dal quale emergeva la preferenza dell’appellato a vedere qualificata la previsione in termini di “contratto di opzione condizionato” o quale “obbligo di trasferimento”. In particolare, l’inconfigurabilità di un’opzione condizionata alla cessazione dell’impiego dirigenziale deriverebbe dal tenore letterale della clausola, ove si fa riferimento all’obbligo di cessione e non a una posizione di soggezione degli attori (pretesi concedenti) ad un diritto potestativo della [continua ..]


2. Sull’inammissibilità di un “recesso vincolato”

Prima di soffermarsi sui nodi tematici relativi ai profili di disciplina, è opportuno premettere alcune brevi considerazioni sulla appena menzionata disagevole qualificazione della fattispecie operata dai giudici del gravame. La ricostruzione della previsione statutaria quale causa di scioglimento del rapporto sociale oscilla infatti tra gli istituti del recesso e dell’esclusione, sovrapponendoli, senza trovare una motivazione realmente appagante. La difficoltà di ricondurre de plano la clausola a un’ipotesi tipica di esclusione conduce così alla creazione di una categoria dai connotati ossimorici, la cui formulazione non sembrerebbe peraltro necessaria ai fini dell’inquadramento della fattispecie. Le fragilità di tale impostazione cominciano a manifestarsi sin dal piano strutturale: qualificare un’obbligazione di vendita della quota in termini di “recesso vincolato-obbligatorio”, infatti, comporta l’accostamento di situazioni giuridiche soggettive tra loro incompatibili. Non risulterebbe cioè possibile identificare il contenuto di tale posizione passiva nell’esercizio vincolato del diritto di recesso, posto che non è giuridicamente configurabile un diritto potestativo [[4]] da esercitarsi obbligatoriamente nell’altrui interesse [[5]]. Il diritto verrebbe così eliso in quanto privato della facoltà che ne rappresenta (necessariamente) il contenuto, residuando la sola componente del potere [[6]]. Operando in questo modo, ossia vincolando il potere di agire tipico del diritto potestativo al perseguimento di un interesse estraneo alla sfera giuridica di colui che lo esercita, si verrebbe ad innestare nella fattispecie un elemento di doverosità idoneo ad avvicinare la situazione soggettiva in esame alla potestà [[7]]. Ma un inquadramento della figura del recesso in termini di potere-dovere è incompatibile con la funzione che l’istituto è chiamato ad assolvere. Infatti, l’elemento presupposto rinvenibile nella pluralità di rationes alla base di tale congegno individuate dalla dottrina è situato proprio sul fronte della tutela degli interessi del titolare del potere formativo, liberamente chiamato a valutare l’oppor­tunità di reagire all’adozione di determinate decisioni sociali realizzando il valore reale della propria partecipazione [[8]]. In questo [continua ..]


3. Il problematico inquadramento giuridico della fattispecie oggetto del giudizio: natura sociale della clausola

L’incerta qualificazione prospettata dai giudici del gravame costituisce una spia delle difficoltà di inquadramento di una clausola che, priva dei connotati della tipicità, parrebbe a prima vista – anche in ragione del richiamo alla dimensione obbligatoria del rapporto – maggiormente idonea ad essere inserita in un contratto parasociale piuttosto che nello statuto. E tuttavia, la consacrazione operata a livello di vincolo associativo non potrebbe essere disconosciuta sulla base del contenuto materiale della clausola, dovendo prevalere la collocazione formale che la pone in condizione di acquisire funzione organizzativa [[12]]. A dire il vero, neppure potrebbe negarsi che, anche volendo accogliere le tesi che postulano una riqualificazione in termini parasociali delle previsioni inidonee a regolare la fase esecutiva del contratto sociale in quanto attinenti a meri rapporti tra soci (uti singuli), l’attribuzione a tale clausola di una efficacia (puramente) inter partes non rappresenterebbe comunque un approdo pacifico [[13]]. Ad ogni modo, risolta positivamente la questione preliminare della natura (sociale) della previsione in parola, ai fini di una corretta impostazione del problema converrà procedere partitamente, valorizzando – per valutare la compatibilità con la disciplina dell’esclusione – dapprima l’elemento letterale in funzione dello scopo economico-pratico dell’operazione, proseguendo poi con i profili relativi alla giusta causa e, infine, con i criteri di liquidazione della partecipazione.


3.1. L’inquadramento contrattuale: rigetto

Come si accennava, la formulazione della disposizione statutaria non ne rende agevole una pronta qualificazione, in quanto non pare emergere una riconducibilità diretta a un istituto di diritto societario. L’indagine letterale, pertanto, si rivelerebbe sterile se non fosse previamente assistita dall’individuazione dell’intenzione delle parti alla luce della complessiva operazione economica realizzata. L’acquisizione dello status socii ha, nel caso in esame, valenza incentivante della prestazione gestoria e si caratterizza per la finitezza dell’orizzonte temporale di riferimento [[14]]: in costanza del rapporto di lavoro presso la controllata tale posizione in seno all’organizzazione potrà dirsi giustificata, rendendosi necessario, in caso contrario, il (potenziale) ripristino dell’omogeneità della compagine sociale [[15]]. Di primaria rilevanza diviene allora il mezzo con cui si attua tale intento, giacché non dovrebbe essere indifferente alle parti che il trasferimento della partecipazione sia mediato dall’assunzione di un’obbligazione ovvero che esso si attui senza che sia necessaria l’altrui cooperazione. A dire il vero, l’immediatezza nell’acquisto della partecipazione pro quota da parte degli altri soci pare costituire un profilo cedevole rispetto alla rilevanza del tema della sua valorizzazione (da eseguirsi in rapporto al valore del patrimonio netto corrispondente). La ragione su cui è fondata tale constatazione risiede nella tecnica redazionale della clausola statutaria, la cui atipicità sembra segnalare l’inten­zione di sottrarre la vicenda traslativa in esame all’interpretazione rigorosa che individua nel criterio di valorizzazione reale della partecipazione l’unica modalità ammissibile di liquidazione nei casi di exit “forzato” [[16]]. Tuttavia, come si avrà modo di vedere, un simile tentativo sembra destinato a rivelarsi vano, in ragione dell’acquisita natura sociale della pattuizione derivante dall’apposizione in sede statutaria. Un altro aspetto che potrebbe aver spinto la società a preferire la qualificazione in termini di contratto d’opzione condizionato [[17]] alla cessazione del rapporto di lavoro, seppur secondariamente rispetto ai profili relativi alla valorizzazione, sembrerebbe risiedere sul fronte della pronta (leggasi: [continua ..]


3.2. L’inquadramento societario: accoglimento. Automaticità o facoltatività dell’e­sclusione?

La valorizzazione, sul piano sociale, dell’interesse pratico perseguito dalle parti rappresenterebbe così la ragione per la quale sono state ritenute applicabili le norme in materia di esclusione del socio. Tuttavia, lo sforzo motivazionale dei giudici del gravame [[21]] pare sottendere il disagio di operare una qualificazione che comporta l’applicazione di una disciplina, quella dell’esclusione, in potenza non interamente confacente all’interesse delle parti. Il riferimento corre non soltanto al tema dei criteri di determinazione del valore della quota, ma anche alle dinamiche procedimentali proprie dell’istituto, che è opportuno prendere previamente in esame. La premessa è la seguente: se nella clausola statutaria (e, come emerge più chiaramente, dall’art. 12, lett. a) del piano di incentivazione) [[22]] è contemplata la possibilità di una permanenza del cessato dirigente all’interno della compagine sociale, non altrettanto agevolmente un simile esito potrebbe essere raggiunto nel caso di applicazione delle norme in materia di esclusione, così come richiamate nella sentenza. Posta l’incoercibilità del diritto di recesso, la prospettata applicazione analogica della disciplina ex art. 2473-bis c.c. in assenza dell’assunzione di una apposita delibera [[23]] sembrerebbe delineare i tratti di un’esclusione automatica per la pura perdita della qualità di prestatore di lavoro [[24]]. Se così fosse, si porrebbe il problema dell’ammissibilità della caducazione del procedimento di esclusione nell’i­potesi di mancato acquisto della quota da parte dei soci [[25]]. Infatti, stante l’im­possibilità di ricorrere a una riduzione del capitale sociale, l’eventuale assenza di riserve disponibili con cui procedere al rimborso della partecipazione condurrebbe direttamente – secondo parte della dottrina – all’estremo esito procedimentale di cui all’art. 2473, comma 4, c.c.: lo scioglimento della società [[26]]. In altre parole, se si ritiene ravvisabile che la Corte stia – di fatto [[27]] – riconducendo la disposizione statutaria a un caso di esclusione automatica del socio, vi è da chiedersi se l’integrazione della giusta causa debba inevitabilmente condurre all’o­biettivo estromissivo (prevalenza [continua ..]


3.3. Esclusione e giusta causa (cenni)

Se si accede alla prospettata ipotesi qualificatoria, non potendo ragionevolmente negarsi la sussistenza del requisito della specificità [[32]], converrà quindi verificare la presenza della giusta causa, contestata dagli appellanti. In proposito, che una vicenda soggettiva, come tale riguardante la persona del socio, possa assurgere a giusta causa di esclusione non è affermazione di cui è lecito dubitare [[33]]. Si tratta, piuttosto, di valutare se sia meritevole di tutela la previsione di una causa che attenga sì a una qualità del socio, la quale si presenti tuttavia debolmente connessa con il vincolo sociale, riguardando infatti un rapporto (autonomo) con un altro ente la cui interruzione non parrebbe oggettivamente ostacolare l’esercizio dell’attività sociale. Un’indagine in merito all’intensità di tale connessione non potrebbe però essere compiutamente condotta senza che si abbia in considerazione l’eventuale presenza di regolamenti contrattuali lato sensu “collegati” [[34]]. Nel caso in esame, infatti, la vicenda acquisitiva della partecipazione non può essere disconosciuta, in quanto, pur collocandosi nell’alveo di un rapporto “collaterale” tra controllata e prestatori di lavoro, è idonea a gettare luce sulla complessiva operazione negoziale realizzata dalle parti. In quest’ottica, se la sottoscrizione del piano di incentivazione ha rappresentato la ragione giustificativa dell’ingresso del dirigente nella compagine della controllante, pare ammissibile che lo statuto predisponga un rimedio a presidio del mantenimento di tale omogeneità di classe [[35]]. La giusta causa sarebbe allora ravvisabile, non tanto in senso soggettivo, per la pura valutazione operata dai soci, bensì oggettivamente, attenendo al rapporto sociale, seppur in via mediata dal piano di incentivazione [[36]]. Di più agevole risoluzione sembrerebbe la questione relativa al profilo della giusta causa c.d. in concreto. Nel caso in esame, infatti, se si ravvisasse una fattispecie di esclusione automatica l’operatività della previsione sarebbe imposta dalla cessazione del rapporto di lavoro; ma anche nel caso di facoltatività dell’estromissione, la natura della causa statutariamente dedotta, impedendo che residui discrezionalità nell’accertamento del [continua ..]


3.4. La liquidazione della quota a valori contabili

L’argomentazione adottata dalla Corte per giustificare l’ammissibilità della deroga in senso peggiorativo dei criteri di calcolo della quota di liquidazione non persuade. L’incedere sillogistico impiegato nel respingimento del quarto motivo d’appello, infatti, sembra viziato, a monte, da un’interpretazione del comma 4 del­l’art. 2437-ter c.c. – dettato in materia di recesso nelle s.p.a. – che rintraccia nell’indicazione degli «elementi dell’attivo e del passivo del bilancio che possono essere rettificati» una norma che autorizza la liquidazione della partecipazione a valori inferiori a quelli reali. Dalla constatazione della maggiore elasticità della disciplina del tipo s.r.l. viene quindi ricavato che il criterio del valore di mercato di cui all’art. 2473 c.c. potrà essere oggetto di deroga in peius, almeno con riferimento alle cause convenzionali di recesso. Se a ciò si aggiunge il rinvio operato dal­l’art. 2473-bis c.c. all’art. 2473 c.c., ecco che tale deroga diverrebbe ammissibile anche nei casi di esclusione statutariamente contemplati. In realtà, il comma 4 dell’art. 2437-ter c.c. non può essere inteso nel senso di operare un generale disconoscimento del criterio di valorizzazione reale della partecipazione che informa la disciplina del recesso nella s.p.a. [[38]]. Infatti, l’indi­cazione di singoli elementi che possono essere oggetto di rettifica non potrebbe tradursi in un aggravamento delle modalità di esercizio del diritto [[39]]: altro è la specificazione delle metodologie di calcolo del recesso, altro l’adozione di criteri penalizzanti [[40]]. In tale contesto argomentativo, è criticabile anche il tentativo di dare conforto alla tesi formulata estendendo, sic et simpliciter, all’esclusione l’impostazione dottrinale che si dimostra favorevole alla deroga in peius dei criteri di calcolo del valore della partecipazione con riferimento al recesso convenzionale. In effetti, una simile conclusione potrebbe trovare giustificazione ove le fattispecie del recesso e dell’esclusione fossero funzionalmente coincidenti. Tuttavia, l’es­senziale diversità che le connota (anche) sotto il profilo degli interessi tutelati impedisce di importare in via immediata le soluzioni interpretative sviluppatesi in tema di recesso nella [continua ..]


4. Considerazioni sulla partecipazione sociale “a tempo” dei beneficiari del piano di incentivazione. Note conclusive

La valorizzazione della ragione acquisitiva delle quote sociali operata dalla Corte offre l’occasione di soffermarsi brevemente, in sede conclusiva, sulla tipologia di “circuito partecipativo” cui è dato accesso ai prestatori di lavoro della controllata. Invero, la precarietà nella titolarità della partecipazione non è legata a caratteristiche strutturali della quota, ossia l’assoggettamento a un regime di transitorietà che sia proprio della categoria [[47]] emessa, bensì a situazioni che, almeno dal punto di vista della tecnica redazionale della clausola statutaria, parrebbero (solo apparentemente) esplicarsi sotto un profilo puramente obbligatorio [[48]]. Sebbene il rapporto di coincidenza tra status socii e prosecuzione del rapporto di lavoro con la controllata difetti, formalmente, del carattere della necessarietà (l’e­stromissione è rimessa alla decisione degli altri soci della controllante), non sembra revocabile in dubbio che l’operazione, così come strutturata, abbia quale esito naturale il mantenimento di tale relazione: di fatto, la precarietà è da intendersi più propriamente come temporaneità della partecipazione al capitale della controllante. Se le cose stanno così, allora è lecito chiedersi se vi siano tecniche che consentano di vedere realizzato il medesimo risultato pratico, sottraendosi al contempo alle difficoltà che sorgono dalla previsione di fattispecie atipiche di estromissione del socio, tanto a livello strutturale, quanto a livello di disciplina applicabile (anche) in punto di criteri di determinazione del valore di liquidazione della partecipazione. Uno spunto in tale direzione è fornito da alcuni orientamenti notarili che ammettono l’introduzione di azioni e quote sociali “a tempo” o “sotto condizione” [[49]], adducendo la mancanza di divieti di diritto positivo all’emissione di partecipazioni “a carattere strutturalmente temporaneo”. Tuttavia, l’ipotesi in parola risulterebbe pienamente appagante solo per quanto riguarda le conseguenze in punto di disciplina liquidatoria. È stato infatti affermato che i criteri di calcolo della valorizzazione della partecipazione sono liberamente determinabili, non essendo rinvenibili le esigenze di tutela del socio connaturate alle ipotesi del recesso, [continua ..]


NOTE