Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Un caso patologico: amministratore prestanome, furto di identità e inesistenza della deliberazione assembleare (di Francesco Cuccu)


La sentenza del Tribunale di Milano si è occupata di una vicenda alquanto singolare, nella quale addirittura, secondo ben poco ortodosse dinamiche societarie, e con ben due furti di identità, si è assistito a una seduta assembleare tenuta in assenza dell’unico socio. La sentenza offre dunque l’occasione per riflettere sul­l’inesistenza delle delibere assembleari di una società, un tema che anima un dibattito risalente e in verità mai sopito. Sebbene infatti fosse sembrato a molti che con la riforma del diritto societario del 2003 fosse stato eliminato ogni spazio di operatività dell’inesistenza, una riflessione più approfondita porta a ritenere logicamente ineliminabile la sua esistenza.

A pathological case: nominee director, identity theft and nonexistence of the shareholders’ resolution

The judgment of the Milan Court dealt with a rather peculiar case in which, according to highly unorthodox corporate dynamics and involving two identity thefts, a company meeting was held in the absence of the sole shareholder. The judgment thus provides an opportunity to reflect on the nonexistence of the resolutions adopted by a company meeting, a topic that has fuelled a long-standing and never-dying debate. Although it seemed to many that the 2003 corporate law reform had eliminated any room for the concept of nonexistence, a more in-depth analysis logically leads to the conclusion that it is not eliminable.

MASSIMA: È inesistente la delibera dell’assemblea di una s.r.l. assunta in assenza del socio unico. In mancanza dello stesso accordo delle parti, in quanto all’oscuro di tutto e vittime di furto di identità, deve ritenersi inesistente l’atto di trasferimento di quote di una s.r.l. PROVVEDIMENTO: (Omissis). RAGIONI DI FATTO DELLA DECISIONE La presente motivazione viene redatta in conformità al criterio di sinteticità che deve caratterizzare gli atti e i provvedimenti del giudice depositati telematicamente ai sensi dell’art. 16 bis comma 9-octies D.L. 179/2012 convertito in L. 221/2012, come modificato dall’art. 19 comma 1 lett a), n. 2-ter) D.L. 27 giugno 2015 n. 83 conv in L. 132/2015. J.B. con atto di citazione notificato il 3.12.2019 e il 23.12.2019 ha convenuto in giudizio, per la prima udienza del 16.04.2020, il Fallimento della società T. s.r.l. e Y.L. proponendo azione di nullità o inesistenza: i) della delibera dell’assemblea dei soci di T. s.r.l. del 20 luglio 2017 con cui veniva nominata amministratrice unica della società in sostituzione di Y.L.; e ii) dell’atto 28 luglio 2017 di acquisto dell’85% delle quote di T. s.r.l. apparentemente concluso con la cedente Y.L., atti entrambi pubblicati al Registro delle Imprese, assumendo che non vi aveva mai partecipato ed erano stati realizzati in seguito al furto di identità compiuto a suo danno, non avendo mai acquistato le quote di T. s.r.l. dalla Y.L., persona che non conosceva, né mai partecipato ad alcuna assemblea della società e tantomeno assunto alcuna carica sociale. L’attrice in citazione ha esposto: di aver appreso di essere socia e amministratrice di T. s.r.l. nel corso di un processo di opposizione a decreto ingiuntivo (richiesto da C.I. s.r.l. contro l’associazione G.E. ETC) promosso dinanzi al Tribunale di Brescia nel quale era stata coinvolta come destinataria della notifica del decreto ingiuntivo opposto sul presupposto, falso, e che con l’opposizione ha dovuto contestare, di essere consigliere dell’associazione G.E. ETC; di aver presentato denuncia-que­rela alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano; di aver fatto presente anche nell’ambito del procedimento pre-fallimentare verso T. s.r.l. e poi al nominato curatore di non esser mai stata socia e di non aver mai assunto la carica di amministratrice della società; di aver altresì introdotto ricorso d’ur­genza ex art 700 c.p.c. per ottenere la iscrizione al Registro delle imprese della dedotta falsità degli atti relativi alla T. s.r.l. e che il ricorso era stato accolto quanto all’atto di cessione della partecipazioni sociale, mentre era stato rigettato per difetto del requisito della residualità quanto alla nullità della delibera della assemblea dei soci del 20 luglio 2017, per far valere la quale [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Il risalente dibattito - 3. La riforma del 2003. Qualcosa è cambiato? - 4. Alcune osservazioni conclusive (con riferimento al caso di specie) - NOTE


1. Il caso

La vicenda oggetto del provvedimento in epigrafe aveva quale protagonista Y.L. che, per effetto delle pressioni esercitate dai suoi datori di lavoro, si era trovata ad assumere ruoli che andavano da quello di amministratrice a quello di socia in varie società ed enti, tra i quali anche la T. s.r.l., della quale era appunto socia unica e amministratrice. Più precisamente, le parole del provvedimento lasciano intendere che solo in alcuni casi Y.L. aveva consapevolmente espresso il proprio assenso ad assumere tali ruoli, mentre in altri pare che ciò fosse avvenuto firmando delle carte i cui contenuti non capiva, e che non le venivano spiegati malgrado le ripetute richieste in tal senso. In sintesi, Y.L. aveva assunto il ruolo di prestanome per attività dirette e condotte da altri. Così è evidentemente stato anche per la T. s.r.l., nella vicenda i cui fondamentali elementi possono stringatamente essere così presentati. Nel luglio del 2017, i datori di lavoro di Y.L., nell’assecondare il desiderio della medesima di cessare da ogni carica societaria, predisposero e iscrissero nel registro delle imprese un falso verbale di assemblea della T. s.r.l. per effetto del quale la carica di amministratore passava da Y.L. a J.B. Si deve ancora ricordare che Y.L. non partecipò all’assemblea oggetto di questo verbale, e che J.B. non solo era all’oscu­ro di tutto, ma per giunta vittima del furto della propria identità. Proprio J.B. – nell’ambito di un diverso procedimento giudiziario – venne casualmente a conoscenza di essere stata a sua insaputa nominata amministratrice di una società della quale inoltre, stando alle risultanze del registro delle imprese, risultava essere socia, sebbene non avesse mai acquistato nessuna partecipazione. In ragione di ciò, J.B., denunciando (e chiedendo la pronuncia del)l’inesistenza della delibera assembleare del 20 luglio 2017 (a seguito della quale risultava nominata amministratrice della T. s.r.l.), e dell’atto di cessione di quote datato 28 luglio 2017 (per effetto del quale era divenuta socia di maggioranza della medesima), citò in giudizio Y.L. unitamente al fallimento della T. s.r.l. Il tribunale di Milano, sulla base dell’assenza di Y.L. alla seduta assembleare in questione, ha dichiarato l’inesistenza della deliberazione in quella sede adottata. Analoga decisione è stata [continua ..]


2. Il risalente dibattito

Quello dell’inesistenza è un tema dall’applicazione fortemente controversa e da tempo al centro del dibattito dottrinale; dibattito [[1]] che in tempi relativamente recenti ha ripreso vigore. Come osservato da attenta dottrina, all’origine della categoria giuridica dell’i­nesistenza delle delibere di un’assemblea di società sta, innanzitutto, la rigidità della disciplina in materia di invalidità delle delibere assembleari di società che, come è noto, prevedeva e tuttora prevede un breve termine di decadenza per l’esercizio dell’impugnazione. L’inoppugnabilità della delibera cui porta il decorso di questo termine può generare e spesso ha generato negli interpreti, in special modo nei casi di vizi particolarmente gravi, un forte senso di ingiustizia, per superare il quale i giudici hanno fatto e fanno ricorso alla categoria dell’inesistenza [[2]]. Questa infatti, non soggiacendo a termini decadenziali, può essere fatta valere in ogni momento, e dunque il ricorso a essa consente di porre nel nulla delibere che altrimenti diverrebbero stabili malgrado i gravi vizi in esse riscontrabili. Ma quando ciò è possibile? Come è a tutti noto, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale [[3]] formatosi nella vigenza della disciplina pre-riforma del 2003, si può parlare di inesistenza della deliberazione assembleare quando lo scostamento della realtà dal modello legale risulta così marcato da non consentire di ricondurre l’atto alla stessa categoria di “deliberazione assembleare”. Più in dettaglio, l’inesistenza è la conseguenza della mancanza di uno degli elementi o di uno dei requisiti procedimentali indispensabili per la formazione di una delibera imputabile alla società [[4]]; mancanza che determina una fattispecie apparente che, per inadeguatezza strutturale o funzionale, non può essere qualificata come “delibera assembleare” [[5]]. Per un generalissimo inquadramento delle posizioni sul tema si può ricordare che, da un lato la giurisprudenza pratica, con l’intento di superare le rigidità della disciplina delle cause di invalidità delle deliberazioni assembleari [[6]], tendeva a dilatare il concetto di inesistenza; dall’altro lato, invece, la giurisprudenza teorica era [continua ..]


3. La riforma del 2003. Qualcosa è cambiato?

In tale direzione, ovvero verso la rigida tipizzazione dei casi di invalidità si è mosso il legislatore 2003, il quale ha cercato di chiudere ogni spazio di operatività dell’inesistenza [[9]]. Questo è l’obiettivo espressamente affermato nella Relazione al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ove invero si legge che l’individuazione legislativa delle ipotesi di invalidità «corrisponde a una sorta di riserva di legge […] volta ad escludere ipotesi di invalidità atipiche, come l’inesistenza delle deliberazioni assembleari, della quale si è in giurisprudenza alquanto abusato» [[10]]. L’intento di eliminare dal nostro ordinamento le figure di invalidità atipiche è stato perseguito regolando esplicitamente alcuni dei casi in passato qualificati come ipotesi di delibere inesistenti e riconducendoli nell’alveo della nullità o dell’annullabilità. In effetti erano non pochi i vizi delle delibere qualificate dalla giurisprudenza come ipotesi di inesistenza. A essa venivano ricondotte le delibere nei casi di: omessa convocazione [[11]]; mancata adunanza dei soci [[12]]; svolgimento dell’as­sem­blea in luogo diverso da quello indicato nell’avviso di convocazione [[13]]; mancata votazione o approvazione di delibera grazie al voto determinante di persone prive del diritto di voto [[14]]; deliberazione presa da un organo completamente sfornito di potere deliberante [[15]]; mancata verbalizzazione [[16]]; violazione delle maggioranze stabilite dalla legge o dall’atto costitutivo [[17]]; assemblea convocata da un singolo amministratore [[18]]; assemblea convocata da un c.d.a. irregolarmente convocato [[19]]. L’attuale disciplina delle invalidità stabilisce invece che si abbia annullabilità nei casi di: determinante partecipazione all’assemblea di persone non legittimate (art. 2377, comma 5, n. 1, c.c.); errato conteggio di voti o conteggio di voto invalidi che siano stati determinanti per il raggiungimento della maggioranza (art. 2377, comma 5, n. 2, c.c.); incompletezza o inesattezza del verbale (art. 2377, comma 5, n. 3, c.c.). La disciplina vigente prevede inoltre la nullità per i casi di mancanza della convocazione e o del verbale (art. 2379, comma 1, c.c.). Di rilievo per le presenti considerazioni sono inoltre le [continua ..]


4. Alcune osservazioni conclusive (con riferimento al caso di specie)

Calando nel caso di specie le considerazioni fin qui svolte, non si può che aderire alla decisione del tribunale di Milano. Anche non accogliendo le posizioni più inclini a riconoscere uno spazio di operatività all’inesistenza di una delibera assembleare, a questa sembra invero dover ricondurre il caso di specie. In esso non è infatti mancata solo la convocazione, ma anche la costituzione dell’assemblea, e la maggioranza indicata nel verbale era stata raggiunta non già semplicemente col concorso di soggetti non legittimati, ma unicamente col voto di estranei alla società [[36]]. In altre parole, mancando la stessa materialità della riunione assembleare, o quanto meno di una riunione assembleare riferibile alla T. s.r.l., il verbale in parola appariva addirittura riconducibile all’ipotesi più grave di inesistenza, quella appunto materiale, unica ipotesi di inesistenza pacificamente ammessa oggi da tutta la dottrina [[37]]. In definitiva, nella vicenda non era individuabile neppure un simulacro di deliberazione, poiché di questa non erano riscontrabili neanche i caratteri minimi. Da condividere è altresì la decisione relativa alla cessione delle quote societarie. Sul punto giova innanzitutto ricordare che sulla base della disciplina dettata agli artt. 2469 e 2470 c.c. si deve distinguere una prima dimensione intersoggettiva di circolazione, con la quale si trasferisce il diritto sulla quota e le relative posizioni soggettive, e una seconda dimensione organizzativa, ovvero di riconoscimento della vicenda circolatoria da parte della società e conseguente piena possibilità di svolgimento del rapporto sociale [[38]]. La seconda dimensione è, con evidenza, in rapporto di dipendenza logico-cronologica dalla prima, che è poi quella sulla quale poggia la decisione del tribunale di Milano. Concentrando dunque l’attenzione su questa prima dimensione, si devono fissare quali punti iniziali del ragionamento la regola secondo cui per il contratto di trasferimento della partecipazione sociale non è prevista alcuna forma particolare [[39]], da un lato, e l’operatività per essa del principio consensualistico di cui all’art. 1376 c.c. [[40]], dall’altro. Dunque, perché si possa configurare l’atto di trasferimento è sufficiente la conclusione (in qualsiasi forma, anche [continua ..]


NOTE