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1. Premessa - 2. Ammissibilità degli apporti fuori capitale in natura - 3. Il sovrapprezzo come paradigma degli apporti fuori capitale. Ciononostante, inapplicabilità analogica (e, in ogni caso, irrilevanza per il caso in esame) della relativa normativa. Le possibili tipologie di apporti spontanei - 4. La normativa in materia di relazione giurata. Inapplicabilità per analogia al caso degli apporti fuori capitale - - 5. Il dato testuale fornito dall’art. 2346, ultimo comma - 6. Il problema del successivo aumento del capitale. Il tema della riserva “targata” - 7. Apporti spontanei in natura e s.r.l. - 8. Ulteriori argomentazioni, “di vertice”, a sostegno della tesi più liberale - NOTE
La figura dell’apporto fuori capitale in natura è piuttosto negletta nella nostra letteratura, probabilmente perché corrisponde ad una fattispecie non intensamente praticata sul mercato. Lo studio della suddetta figura può essere tuttavia l’occasione per formulare qualche considerazione forse non inutile in ordine ai temi, in discussione da ormai molti anni, della effettività del capitale sociale, del fenomeno che va sotto il nome di sottocapitalizzazione (formale e/o materiale) delle società di capitali, nonché del ruolo che al capitale dev’essere assegnato nell’ambito del complessivo patrimonio aziendale. Muovendomi in quest’ambito tematico, dopo avere brevemente affrontato il preliminare problema dell’ammissibilità degli apporti dei soci in natura 1, mi concentrerò sul tema specifico della necessità – o meno – che gli apporti stessi siano corredati da una perizia di stima: elemento cui tradizionalmente viene attribuita, anche se non in via esclusiva, una funzione di tutela del patrimonio sociale (rectius: del capitale e del patrimonio). Peraltro, in via ancora prioritaria, corre obbligo di precisare che il saggio si sviluppa “a valle” della classica (e mai del tutto sopita) discussione circa la natura giuridica dei versamenti fuori capitale che, specie nelle società di minori dimensioni, i soci sono soliti operare a favore della società 2. Più specificamente, mi occuperò soltanto di quei versamenti che senza possibilità di discussione rappresentano, in capo alla società che li riceve, poste di patrimonio, o quanto meno, in negativo, che non comportino per la società alcun obbligo di restituzione; trascurando invece gli autentici finanziamenti dei soci, per i quali pure è stata prospettata la eventualità che si sostanzino in beni in natura 3.
La circostanza che il legislatore del codice non si occupi della fattispecie che intendo esaminare non sorprende, posto che non esiste nemmeno una normativa civilistica in materia di apporti fuori capitali in generale. Per meglio dire, questa normativa era del tutto assente prima dell’introduzione, con la riforma del 2003, dell’ultimo comma dell’art. 2346, il quale – per la verità in totale assenza di un’opzione esplicita in punto di causa giuridica sottesa all’operazione 4 – prevede l’apporto, da parte di soci o di soggetti terzi, “anche di opera o servizi”. Con il che il legislatore riconosce, sia pure in via implicita ed espressamente collegando la prestazione dell’apporto all’emissione degli strumenti finanziari, e dunque in una logica in certa misura settoriale, la legittimità di apporti (anche) in natura non destinati a rappresentare una quota del capitale sociale dell’ente ricevente 5. Prima della riforma, invece, la legittimità di detti apporti veniva derivata da una norma appartenente all’ordinamento tributario: l’art. 55, 4° comma del Testo unico delle imposte dirette, escludendo dal novero delle sopravvenienze attive «i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale … dai propri soci …», costituiva “un forte e sicuro indice circa la loro legittimità anche sul piano civilistico” 6. A questa considerazione, sostanzialmente condivisibile, può aggiungersi che, mentre il citato art. 55 si occupava soltanto dei versamenti nelle società commerciali di persone, essendo poi richiamato dalla norma sulle sopravvenienze nelle società di capitali, l’attuale art. 88, 4° comma, del Testo unico si riferisce espressamente, tra l’altro, alle società di capitali 7. Circa la legittimità degli apporti non costituiti da denaro non dovrebbero quindi sorgere dubbi, ancorché – come mette in rilievo un autore 8 – sia, piuttosto, lecito formulare delle perplessità in merito alla funzionalità di una siffatta tipologia di apporti, dal momento che la natura stessa del bene, diverso dal denaro, che il socio apporta rende senza dubbio meno agile un’operazione che invece dovrebbe appunto, almeno in linea di principio, essere caratterizzata [continua ..]
La risposta alla domanda appena formulata può prendere le mosse da una constatazione piuttosto ovvia: nel nostro ordinamento societario un controllo “esterno” sul valore dei beni apportati in società è esplicitamente e direttamente previsto soltanto con riferimento a quella quota del patrimonio netto che è rappresentata dal capitale sociale. Quest’ultimo, quale misura monetaria dei conferimenti, deve necessariamente avere la caratteristica dell’effettività, tradizionalmente intesa come “rappresentazione ellittica del concetto che direttamente si vuole esprimere, e che è appunto quello di ‘integrità del patrimonio’: per quella parte (generalmente indicata in termini di capitale reale), deve aggiungersi, corrispondente al valore del capitale (reale)” 10. Il brano riportato accorpa in realtà due elementi che a rigore dovrebbero essere tenuti distinti e al cui rispetto concorrono distinte prescrizioni di legge: per quanto riguarda l’effettività del capitale sociale, questa è presidiata dall’obbligo del versamento iniziale (sia pure, di norma, soltanto parziale) dei conferimenti in denaro, nonché, in modo forse più pregnante, dalla regola del 3° comma dell’art. 2342, che prescrive l’immediata liberazione delle azioni corrispondenti ai versamenti in natura 11. L’integrità del capitale reale è invece, secondo l’opinione tradizionale, presidiata dalle regole relative alla stima dei conferimenti diversi dal denaro. Ciò posto, va però aggiunto che il meccanismo dell’art. 2343 è in realtà tale da “coprire”, garantendone l’integrità, anche il sovrapprezzo, e dunque un “valore” ulteriore rispetto al capitale. Con il che è lecito affermare che, sia pure in via indiretta, il legislatore prevede che anche un apporto non rappresentato in bilancio quale capitale reale sia fatto oggetto di una valutazione di stima. E ciò anche se occorre ricordare che la norma da ultimo citata si limita ad affermare che l’esperto designato dal tribunale deve attestare che il valore del bene conferito è tale, quanto meno, da “coprire” il valore di emissione delle azioni emesse (inteso come sommatoria tra valore nominale e sovrapprezzo). Il che, da un lato, significa che non è in [continua ..]
Venendo dunque al problema centrale, quello della necessità della stima degli apporti spontanei dei soci da parte di un soggetto esterno, va per cominciare notato che se si tratta – com’è normale – di versamenti di somme di denaro, nulla quaestio: la riserva appostata dagli amministratori sarà di importo esattamente pari al versamento effettuato. Ma quando il socio apporti un bene in natura o un credito, allora si pone senza dubbio un problema di valutazione, in quanto la posta da inserire all’attivo e la corrispondente riserva di patrimonio netto devono necessariamente essere riflesse in un numero. Ora, in linea generale si deve osservare che l’iscrizione delle riserve, e più in generale le appostazioni in bilancio, sono compito degli amministratori, i quali, nel caso della riserva sovrapprezzo, sono per così dire indirizzati dalla relazione di stima redatta ai sensi dell’art. 2343. Ciò detto, si tratta in sostanza di domandarsi se l’attività degli amministratori, che si risolve in effetti in una valutazione, debba essere preceduta da una stima compiuta da un soggetto indipendente. In assenza di qualsivoglia riferimento legislativo, il tema è quello di verificare se la prestazione spontanea, da parte dei soci, di apporti diversi dal denaro comporti la necessità di tutelare interessi che non possano essere presidiati in modo soddisfacente dall’intervento degli amministratori. A questo riguardo, è utile tornare sulle ipotesi legislative nelle quali, in ambito societario, viene espressamente richiesta la stima “esterna” nell’ambito di una operazione che coinvolga la società. Come si è in precedenza notato, infatti, l’intervento del soggetto esterno non copre soltanto l’ipotesi del conferimento (che è in certa misura antitetica rispetto agli apporti fuori capitale), bensì anche quella, certamente non omogenea, dell’acquisto da parte della società di beni, nei primi due anni dalla costituzione, da alcuni soggetti che, in ragione della posizione rivestita, vengono dalla legge considerati in grado di influenzare, in modo più o meno decisivo, le scelte dei rappresentanti dell’ente. La norma dell’art. 2343-bis, com’è noto sottoposta a critiche serrate sin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento soprattutto in ragione [continua ..]
5. Il dato testuale fornito dall’art. 2346, ultimo comma Come si è osservato all’inizio del saggio, mentre per lungo tempo gli apporti fuori capitale hanno trovato legittimazione soltanto, e in via indiretta, nella legislazione fiscale, facendosi carico la prassi di delinearne i confini, con la riforma del 2003 essi sono stati in qualche misura legittimati anche a livello di disciplina societaria, attraverso l’introduzione della figura degli strumenti finanziari partecipativi di cui all’ultimo comma dell’art. 2346: norma che in effetti designa esplicitamente come “apporto” la prestazione che il socio o il terzo opera nei confronti della società, sottoscrivendo gli strumenti finanziari previsti dalla norma stessa. Anche trattando, brevemente, di questi strumenti deve essere premesso che – in presenza di una disciplina che, come anticipato nel § 2, si presenta come del tutto anodina (pure) sotto il profilo dell’individuazione della causa giuridica dell’emissione – non interessano in questa sede le fattispecie nelle quali sia previsto un diritto del sottoscrittore al rimborso/restituzione di quanto ha apportato in società. Né interessano, va aggiunto, le ulteriori ipotesi in cui l’apporto, per il quale pure non sia previsto alcun diritto di restituzione in capo al sottoscrittore, sia costituito dal denaro 51, da un lato, e da beni comunque non capitalizzabili (essenzialmente, ma non soltanto, prestazioni d’opera o di servizi, secondo l’espressione della norma in discorso), dall’altro lato. Si tratta, invero, di ipotesi nelle quali, sia pure per motivi diversi, non emergono problemi di valutazione del bene/utilità economica apportato 52. La nostra problematica, dunque, è attuale soltanto nell’ipotesi in cui il rilascio degli strumenti finanziari partecipativi si verifichi in corrispettivo di apporti di beni in natura o di crediti a fronte dei quali il valore dell’apporto, iscritto nell’attivo, trovi contropartita in una riserva di patrimonio netto 53. Senza che rilevi, a questi fini, la specifica individuazione della tipologia del rapporto giuridico sottostante: rapporto dai più ricondotto – com’è noto – alla figura del contratto di associazione in partecipazione. Ebbene, il dato normativo derivabile dalla (scarna) disciplina di questa specifica [continua ..]
Come si è osservato all’inizio del saggio, mentre per lungo tempo gli apporti fuori capitale hanno trovato legittimazione soltanto, e in via indiretta, nella legislazione fiscale, facendosi carico la prassi di delinearne i confini, con la riforma del 2003 essi sono stati in qualche misura legittimati anche a livello di disciplina societaria, attraverso l’introduzione della figura degli strumenti finanziari partecipativi di cui all’ultimo comma dell’art. 2346: norma che in effetti designa esplicitamente come “apporto” la prestazione che il socio o il terzo opera nei confronti della società, sottoscrivendo gli strumenti finanziari previsti dalla norma stessa. Anche trattando, brevemente, di questi strumenti deve essere premesso che – in presenza di una disciplina che, come anticipato nel § 2, si presenta come del tutto anodina (pure) sotto il profilo dell’individuazione della causa giuridica dell’emissione – non interessano in questa sede le fattispecie nelle quali sia previsto un diritto del sottoscrittore al rimborso/restituzione di quanto ha apportato in società. Né interessano, va aggiunto, le ulteriori ipotesi in cui l’apporto, per il quale pure non sia previsto alcun diritto di restituzione in capo al sottoscrittore, sia costituito dal denaro 51, da un lato, e da beni comunque non capitalizzabili (essenzialmente, ma non soltanto, prestazioni d’opera o di servizi, secondo l’espressione della norma in discorso), dall’altro lato. Si tratta, invero, di ipotesi nelle quali, sia pure per motivi diversi, non emergono problemi di valutazione del bene/utilità economica apportato 52. La nostra problematica, dunque, è attuale soltanto nell’ipotesi in cui il rilascio degli strumenti finanziari partecipativi si verifichi in corrispettivo di apporti di beni in natura o di crediti a fronte dei quali il valore dell’apporto, iscritto nell’attivo, trovi contropartita in una riserva di patrimonio netto 53. Senza che rilevi, a questi fini, la specifica individuazione della tipologia del rapporto giuridico sottostante: rapporto dai più ricondotto – com’è noto – alla figura del contratto di associazione in partecipazione. Ebbene, il dato normativo derivabile dalla (scarna) disciplina di questa specifica categoria di apporti – ove la specificità non sta, [continua ..]
Tornando poi al discorso più generale (quello che si potrebbe definire dei conferimenti atipici, ma con apporto tipico), sulla scorta delle precedenti considerazioni può ritenersi ormai pacifico che le soluzioni normative nelle quali il legislatore societario richiede la stima di un bene destinato al patrimonio sociale non sono applicabili analogicamente al caso degli apporti in natura. È inoltre chiaro che, nell’unica fattispecie legislativamente regolata di apporto da parte dei soci, non viene richiesta una stima esterna del bene apportato. Può, infine, considerarsi del tutto ragionevole che, almeno nel momento in cui l’apporto viene appostato nel bilancio della società ricevente, la valutazione degli amministratori sia sufficiente a tutelare gli interessi in gioco. A questo punto, peraltro, è opportuno dar conto più partitamente delle obiezioni che a siffatta soluzione sono state (comprensibilmente, sotto un certo angolo visuale) avanzate dagli interpreti. Obiezioni che, probabilmente non a caso, riguardano soprattutto il caso in cui la società che ha ricevuto gli apporti ritenga, in prosieguo di tempo, di aumentare il proprio capitale con utilizzo della riserva appostata a fronte dell’apporto. In effetti, a prescindere dalle ipotesi – che come si è visto meritano un discorso a sé – in cui, essendo i versamenti dei soci specificamente e sin dall’inizio collegati ad un’operazione di aumento del capitale, la società iscriverà al passivo un debito e non una riserva di patrimonio netto, tra le modalità fisiologiche di utilizzo della riserva costituita a fronte degli apporti in natura o in crediti vi è l’aumento del capitale 59. E questa evenienza potrebbe reintrodurre, da una prospettiva parzialmente diversa, almeno sotto il profilo temporale, il discorso relativo alla necessità della valutazione esterna, essendosi tra l’altro paventato dagli interpreti il rischio della elusione della normativa dell’art. 2343: se l’apporto non è stato valutato ab origine in modo congruo, l’assenza di valutazione (anche) nel momento dell’aumento del capitale si colorerebbe di elusività. Sotto quest’ultimo angolo visuale, peraltro, va anzitutto notato che il suddetto rischio viene per lo più declinato da chi ne tratta parlando [continua ..]
Si è in precedenza concluso, pur con qualche inevitabile cautela, che gli apporti di beni in natura (o di crediti) forniti da parte dei soci non necessitano di essere corredati da una relazione di stima redatta da un soggetto indipendente, e ciò neppure nel caso in cui, in prosieguo di tempo, la società decida di utilizzare la riserva, iscritta al passivo a fronte degli apporti stessi, per aumentare il capitale sociale. Il sistema della s.p.a. prevede infatti che – al di là delle fattispecie regolate dagli artt. 2343 e 2343-bis, in merito alle quali pure gli amministratori svolgono un ruolo di notevole rilevanza 86 – la correttezza delle valutazioni dei beni che entrano a far parte del patrimonio sociale 87 sia garantita dagli amministratori stessi. E questo sistema pare fisiologicamente in grado di soddisfare le esigenze dei soci e dei terzi. Tutto ciò premesso, si tratta ora di verificare se le medesime conclusioni meritino di essere accolte anche con riferimento alla s.r.l., ambiente nel quale la prassi degli apporti dei soci sembra tra l’altro molto più frequente 88. Non prima, però, dall’avere sgombrato il campo da un possibile equivoco di fondo, che potrebbe essere generato dall’opinione, espressa in dottrina 89, secondo cui la decisione del legislatore di introdurre l’art. 2467 nella disciplina della s.r.l. starebbe a significare che, in quel modello, l’intervento del socio a sostegno della società potrebbe avvenire soltanto a titolo di conferimento, oppure a titolo di mutuo (sia pure postergato). In effetti, se una siffatta tesi fosse corretta, per la s.r.l. il problema cui sono dedicate queste pagine non potrebbe neppure sorgere. Al riguardo, però, si accoglie senza remore l’opinione di chi ha dimostrato che una regola del numerus clausus con riferimento alle metodologie di finanziamento delle società di capitali (s.r.l. compresa) non è ricavabile dal sistema; essendo, al contrario, senz’altro meritevoli di tutela gli interessi perseguiti per il tramite della prassi, non regolata (se non in parte), degli apporti fuori capitale 90; in definitiva, “non esiste … un principio nel nostro ordinamento che imponga al socio di intervenire finanziariamente a sostegno della propria società secondo forme negoziali tipiche”. Data dunque per scontata la [continua ..]
La tesi qui accolta in merito agli apporti in natura può, a mio avviso, trovare conferma anche sulla scorta di ulteriori considerazioni, di portata ancora più generale. In primo luogo, una anche rapida ricognizione della normativa convince con facilità del fatto che, anche nell’ambito della s.p.a., il principio di effettività del capitale, come più sopra evidenziato, non viene sempre rispettato, nemmeno al momento della costituzione della società: basti pensare, ad esempio, alla tolleranza del quinto, al di sotto della quale percentuale non è necessaria la revisione degli amministratori in merito alla stima prodotta dall’esperto 114; il che comporta che, in realtà, è ben possibile che la società nasca già con un capitale sociale nominale più elevato rispetto al valore del patrimonio, in quanto espressione di beni sopravvalutati dalla stima; e, in caso di capitale al minimo edittale (o vicino al minimo), addirittura che la società nasca con un patrimonio effettivo inferiore alla misura minima del capitale. L’esempio ora ricordato sembrerebbe dunque dar conto della circostanza che già nella disciplina originaria del codice civile non si attribuisse una rilevanza essenziale alla perfetta corrispondenza tra la misura formale del capitale e il patrimonio effettivo dell’impresa 115. E, più in generale, quanto esposto nelle precedenti pagine parrebbe segnalare come l’istituto del capitale sociale abbia progressivamente perso il proprio iniziale vigore, conservando sostanzialmente soltanto la propria funzione organizzativa, oltre che, in modo più modesto, una funzione genericamente produttivistica. Significativa in tal senso sembrerebbe anche l’evoluzione dell’atteggiamento interpretativo nei confronti del fenomeno della compensazione di un credito del socio con il debito da sottoscrizione del capitale; al riguardo, se con riferimento al credito connesso ad un finanziamento la compensazione non provoca alcun problema valutativo, diverso è il caso in cui il credito del socio derivi da una precedente vendita di beni alla società (ovviamente al di fuori della casistica degli “acquisti pericolosi”). Ebbene, dopo un lungo periodo in cui questo genere di operazioni è stato fulminato a priori in termini di elusione della normativa in materia di valutazione dei [continua ..]