1. Gli interrogativi di fondo - 3. L'istituto risente di alcune 'variabili' di sistema: azionariato diffuso od azionariato concentrato - 4. (Segue). Modello di governance monistico o tradizionale - 5. L'indipendenza può ricercarsi nell’area della 'non esecutività' - 6. Requisiti di indipendenza ed autonomia di pensiero - 7. I tre distinti modelli di requisiti di indipendenza previsti dal codice civile e dal t.u.f. - 8. Un esame critico di quei modelli: i requisiti replicano quelli previsti per soggetti con compiti esclusivi o principali di controllo - 9. (Segue). Tipologia ed estensione dei rapporti ostativi individuati dalle norme in rassegna - 10. (Segue). Spunti per un'interpretazione estensiva e 'relativizzante' dei rapporti personali e patrimoniali - 11. (Segue). L'esigenza di descrivere anche in positivo i requisiti di indipendenza - 12. Un equivoco di fondo e la duplice indagine da affrontare - 13. (Segue). Tentativo di individuazione dei compiti propri degli amministratori indipendenti - 14. (Segue). Disciplina del rapporto di amministrazione. Osservazioni iconoclaste sulle modalità di nomina di un amministratore - 15. (Segue). Il rilievo dei precedenti mandati - 17. La valutazione del comportamento tenuto dopo la nomina: il silenzio della legge e le contraddizioni del codice di autodisciplina - 18. Il compito di verificare l’indipendenza nei comportamenti tenuti dopo la nomina non può essere affidato al consiglio di amministrazione - 19. La possibile 'missione' dell’autonomia statutaria
Il tema degli amministratori indipendenti è emerso solo recentemente o, per meglio dire, solo recentemente si è posto all’attenzione della dottrina (mentre risulta praticamente sconosciuto alla giurisprudenza, che sui temi della governance societaria interviene quasi sempre in ritardo e con scarsa consapevolezza). Il tema in esame dunque, benché registri già le opinioni di alcuni autorevoli studiosi, appare tuttora, complessivamente, poco approfondito e, soprattutto, mostra i segni, a mio avviso abbastanza evidenti, di una frattura fra la realtà (le scelte ed i comportamenti del mondo degli affari) da un lato e la disciplina (perlopiù convenzionale) e gli orientamenti scientifici dall’altro: non c’è ancora un convincente dialogo ed anzi si può cogliere una certa incomunicabilità fra pratica e teoria perché le soluzioni della prima sono variegate ed oscillano in modo talvolta contraddittorio e le sistemazioni della seconda non godono ancora di una piena conoscenza del fenomeno. Cosa sono, insomma, gli amministratori indipendenti? Più radicalmente: è possibile ottenere per legge, a prescindere cioè dalla statura morale degli individui, amministratori indipendenti? Confesso di non avere ancora risposte sicure a questi interrogativi, che tuttavia appaiono stimolanti. Questi appunti, allora, tendono piuttosto ad esprimere alcune perplessità che non a tracciare compiute prese di posizione e, tanto meno, rassicuranti conclusioni.
L’esigenza di ricorrere ad amministratori indipendenti nasce e si consolida nel mondo anglosassone ed in particolare nordamericano, ma non credo che l’esperienza formatasi in quell’area possa offrire concreta utilità per la corretta applicazione ed interpretazione dell’istituto presso di noi. Di certo non è ripetibile la previsione, introdotta dal Serbanes-Oxley Act ed anche in quell’ordinamento non da tutti condivisa, di un board interamente composto da amministratori indipendenti, né offrono spunti validi le indagini empiriche ivi svolte circa il rapporto costi-benefici conseguente all’introduzione della figura in esame, attese le diversità del contesto nostro rispetto a quello di elezione di quelle indagini. Più in generale, con riferimento al tema degli amministratori indipendenti e premesso che lo stesso si riferisce sostanzialmente, anche presso di noi, alle società di grandi dimensioni, giocano due significative differenze normative ed ambientali fra l’esperienza anglosassone e quella italiana (e forse in generale dell’Europa continentale): il differente grado di diffusione azionaria ed il differente modello di governance. Sotto il primo aspetto, in particolare nel mondo nordamericano, l’amplissima diffusione azionaria e quindi la frammentazione delle compagini societarie, in uno al consolidato ruolo degli investitori istituzionali, ha consegnato il potere nelle grandi corporations al ceto dei managers, i tecnici provenienti dalle gerarchie interne, siedano o meno essi nel board. In quell’area, come hanno messo in luce notissime indagini alle quali si può tranquillamente rinviare, sono dunque i managers, grazie alle conoscenze acquisite ed al ruolo conquistato, ad elaborare concretamente le strategie imprenditoriali ed anche a formare, magari d’accordo con gli esponenti dei fondi, le liste dei candidati ad entrare nell’organo gestorio e di questi componenti “esterni” del board sono poi in grado di guidare le scelte, di consentire o meno la consapevole assunzione di responsabilità e di determinare sinanche il livello della remunerazione (che spesso risente, grazie ai meccanismi delle stock options, dell’andamento dei corsi azionari e dunque delle diverse politiche aziendali programmate e/o programmabili). Da noi, al contrario, e forse (torno a dire) nell’Europa continentale in genere, ad una [continua ..]
Sotto il secondo degli aspetti innanzi accennati, nel mondo anglosassone è consolidato il ricorso al modello monistico, ad un modello cioè che attribuisce compiti di controllo ad un (unico) organo dotato anche di compiti amministrativi, mentre da noi è storicamente consolidata la netta separazione fra la funzione di amministrazione e quella di controllo, affidate infatti a due organi distinti, composti da diversi soggetti. Nella nostra tradizione il controllo è non solo esterno, ma in posizione tendenzialmente conflittuale con l’amministrazione e quest’ultima si presentava, sino ad ora, come un monolite privo di diversificazioni interne. Nel modello monistico, consolidato nel mondo anglosassone, l’amministrazione comprende invece due aspetti, la gestione operativa, svolta dai managers di cui si è detto innanzi, ed il controllo, svolto da amministratori non esecutivi. Dunque in un caso l’esigenza di indipendenza di alcuni amministratori sorge quale conseguenza pressoché spontanea di un ruolo bivalente, non esecutivo, ma pur sempre amministrativo, nell’altro caso (il nostro) quell’esigenza sorge con l’emersione (più in fatto che in diritto) di un ruolo sinora sconosciuto e non ancora sufficientemente delineato, che da un lato non può essere di mero e “vero” controllo (spettando quest’ultimo ai componenti di un distinto organo) e dall’altro distingue operativamente chi lo ricopre dagli altri componenti dello stesso organo cui anch’egli appartiene. Sicché presso di noi è culturalmente difficile comprendere il significato di un ruolo che sia amministrativo, ma non esecutivo, che abbia finalità di verifica, ma non invada i compiti dell’organo istituzionalmente deputato alla funzione di controllo; ed è altresì e soprattutto difficile, a monte, reperire o formare, dall’oggi al domani, professionalità per così dire “anfibie”, cui poi richiedere il requisito dell’indipendenza. D’altra parte non è un mistero che proprio la radicata nostra convinzione circa la separazione fra amministrazione e controllo, in uno ovviamente ad aspetti più prosaici, stia ostacolando le prime applicazioni dei nuovi modelli di governance ora consentiti e stia, infatti, determinando una sorta di “sindacalizzazione” del comitato per il controllo della [continua ..]
Tenuto conto delle osservazioni svolte e del nostro “ambiente” normativo e culturale, l’identificazione degli amministratori indipendenti deve passare attraverso l’individuazione di uno spazio giuridico (ma in qualche modo anche “fisico”) in cui sia possibile collocare concettualmente (e nella realtà) questa figura di operatori. Bene, crederei che questo spazio possa trovarsi in quell’area di “non esecutività”, interna al consiglio di amministrazione, che (conosciuta da tempo nella prassi delle grandi ed anche medio grandi società per azioni) è ora una delle più interessanti (ed intelligenti) novità introdotte dalla riforma del 2003. Alcune premesse sono note: nelle società di grandi dimensioni, cui essenzialmente si riferisce il tema degli amministratori indipendenti, i consigli di amministrazione sono spesso pletorici per numerose (e non sempre meritevoli) ragioni ed in punto di fatto è pressocché inevitabile (ancorché spesso non formalizzata) una distinzione interna tra chi opera quotidianamente e chi (nella migliore delle ipotesi) “prende atto” periodicamente. L’art. 2381 c.c. ha il merito di aver puntualmente compreso tale prassi e di aver allora favorito l’instaurazione di un corretto dialogo fra gli organi delegati (ormai considerati quasi istituzionali) ed il plenum del consiglio. La formalizzazione e la procedimentalizzazione del rapporto deleganti – delegati, ora introdotte dalla legge, allora, non si risolvono solo, a valle, in una differenziata distribuzione delle eventuali responsabilità, ma comportano anche, a monte, una ben delineata ripartizione interna dei compiti (che l’autonomia statutaria può poi ulteriormente precisare), cui può senz’altro corrispondere, a mio avviso, una diversa “fisionomia” soggettiva dei membri deleganti e dei membri delegati. Non è azzardato, in conseguenza, presupporre che nel modello tipico di governance della grande società per azioni vi sia, all’interno del consiglio di amministrazione, una componente “non esecutiva” e che solo all’interno di questa componente si possa reperire un’effettiva situazione soggettiva di indipendenza. Nella realtà dei fatti, insomma, ora istituzionalizzata dalla legge, non tutti gli amministratori sono “esecutivi”; sono [continua ..]
La dottrina che si è occupata del tema qui in esame talvolta parla di amministratori indipendenti, talaltra di amministratori autonomi. Non vorrei perdermi in querelle terminologiche, ma non credo che le due qualificazioni siano (linguisticamente e giuridicamente) identiche e riterrei perciò utile, al fine di leggere poi criticamente i requisiti previsti in proposito dalla legge, stabilire quale delle due suddette qualificazioni sia quella più convincente. A rigore, il termine “indipendenza” comporta un riferimento di ordine prevalentemente oggettivo: una situazione riscontrabile nella realtà fenomenica e caratterizzata dall’assenza di vincoli, positivamente identificabili, che in qualche modo leghino un individuo ad uno o più altri. Al contrario, il termine “autonomia” contiene un riferimento di ordine prevalentemente soggettivo, in qualche misura psicologico: la capacità, cioè, di quel determinato individuo di formarsi liberamente il proprio giudizio, di assumere liberamente le proprie scelte, senza subire deviazioni o distorsioni del processo psicologico dovute a fattori esterni. Naturalmente, si potrebbe discutere a lungo e forse all’infinito su cosa sia in quest’ambito concettuale esterno: per assumere un’approssimazione (che mi sembra) accettabile ai fini che qui interessano, direi che è tale tutto ciò che esuli dalla cultura di quell’individuo in quel momento e che incida sulla volontà di questi, alterandone il corso rispetto a come, altrimenti, si sarebbe spontaneamente indirizzata. Bene. Premesso questo approccio (ed auspicandone la condivisione), vogliamo amministratori indipendenti, oggettivamente sciolti da vincoli o perlomeno da vincoli di una certa intensità, o vogliamo amministratori autonomi, capaci cioè di assumere decisioni senza subire influssi esterni, si materializzino o meno, in quel momento, vincoli di un tipo o di un altro? Occorre probabilmente un’altra premessa, occorre cioè relativizzare o, se si vuole, “umanizzare” il discorso: nessuno, tanto meno i componenti del board delle società azionarie, può vivere sotto una campana di vetro, immancabilmente lontano da ogni contagio mondano e gli eremiti, se pure riescano davvero a raggiungere piena autonomia di pensiero, non sarebbero tuttavia validi managers: voglio dire che dobbiamo assumere come termini [continua ..]
Lo ius positum italiano offre tre nozioni societarie di indipendenza o, forse meglio, adotta tre distinti (ma fra di loro non molto dissimili) modelli circa i requisiti soggettivi richiesti affinché un amministratore (o un consigliere di sorveglianza) possa dirsi indipendente. a) Il primo modello è quello contenuto nell’art. 2399 c.c. (dettato in tema di ineleggibilità e decadenza dei sindaci), richiamato dall’art. 2409-septiesdecies, 2° comma, c.c. e (tramite il richiamo di quest’ultima norma) dall’art. 147-ter, 4° comma, seconda parte, t.u.f. per i componenti del consiglio di amministrazione delle società (rispettivamente non quotate e quotate in un mercato regolamentato) che adottino il sistema monistico. Si può precisare che l’art. 2409-septiesdecies, 2° comma, con riferimento alle società non quotate, limita la prescrizione di indipendenza ad almeno un terzo dei componenti dell’organo amministrativo e fa salvi gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento, sempreché lo statuto contenga un esplicito rinvio in proposito; e che, con riferimento alle società quotate, il 4° comma dell’art. 147-ter, nella sua parte finale, mantiene fermo il disposto dell’art. 2409-septiesdecies (e quindi la limitazione e l’ulteriore previsione appena ricordate), mentre il terzo comma della stessa norma, che parla del membro consiliare espresso dalla minoranza, rinvia in proposito ai requisiti di indipendenza previsti dall’art. 148, 3° comma, t.u.f. b) Il secondo modello è appunto quello espresso dall’art. 148, 3° comma, t.u.f. (dettato in tema di ineleggibilità e decadenza dei sindaci nelle società quotate), richiamato dall’art. 147-ter, 4° comma, prima parte, per almeno un componente del consiglio di amministrazione (almeno due, invece, se il consiglio è composto da più di sette membri) delle società quotate che adottino il sistema tradizionale, nonché dall’art. 147-quater t.u.f. per almeno un componente del consiglio di gestione (se composto da più di quattro membri) delle società (sempre quotate) che adottino il sistema dualistico. Si può precisare che anche queste ultime norme fanno salvi, se lo statuto li prevede, “gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento …”. Sia nell’art. [continua ..]
Messi per ora da parte alcuni temi confinanti, per così dire, e magari anche connessi, ma ciò nondimeno distinti da quello qui in esame, vale a dire quelli relativi ai requisiti di indipendenza dell’“amministratore di minoranza”, al cumulo degli incarichi (ed all’eventuale, conseguente incompatibilità), nonché ai requisiti di onorabilità e professionalità, la rassegna svolta evidenzia alcuni aspetti che è opportuno (criticamente) sottolineare. Il primo aspetto, a mio giudizio per alcuni versi piuttosto sorprendente, è che tutti i modelli adottati dalla legge in tema di requisiti di indipendenza replicano puntualmente gli analoghi requisiti previsti per i componenti di organi societari cui è attribuita esclusivamente (i sindaci, cui si riferiscono l’art. 2399 c.c. e l’art. 148 t.u.f., rispettivamente per le società non quotate e quotate) o principalmente (i membri del consiglio di sorveglianza, fermo tuttavia quel che si è notato sub lett. c del precedente paragrafo) una funzione di controllo (cfr. l’art. 2403 c.c. per i sindaci, l’art. 2409-terdecies, 1° comma, lett. c, e, f, c.c. per i consiglieri di sorveglianza). Gioca qui, evidentemente, quella “incomunicabilità”, innanzi richiamata, fra gli ordinamenti in cui nasce la figura degli amministratori indipendenti ed il nostro, nonché la difficile “metabolizzazione”, cui pure si è fatto cenno, in Italia, dei sistemi di governance alternativi ora introdotti. E si determina così, a mio avviso, un equivoco di fondo. Gli amministratori indipendenti, infatti, sono in primo luogo amministratori, sicché i loro compiti non sono (né in via principale, né tanto meno in via esclusiva) compiti di controllo, ma appunto di amministrazione. Richiamare per essi i requisiti previsti per soggetti che, al contrario, hanno compiti esclusivi o principali di controllo o, per meglio dire, costruire l’indipendenza di “amministratori” sul canovaccio dell’indipendenza prevista per i “controllori”, significa introdurre (ulteriori) elementi di confusione nel sistema. Sembra invero di cogliere una rinunzia a priori allo sforzo (indubbiamente difficile, ma necessario) di ricostruire i lineamenti di una figura endosocietaria nuova, quantomeno nella sua autonoma teorizzazione e nello specifico [continua ..]
Un secondo aspetto su cui soffermarsi è l’analoga struttura di tutte le norme (di legge) che fissano i requisiti di indipendenza degli amministratori. Dei tre modelli innanzi ricordati, il più rigoroso è quello previsto dall’art. 148, 3° comma, t.u.f., il meno rigoroso è quello dettato dall’art. 2409-duodecies, 10° comma, c.c. La lett. a delle norme in esame rinvia alle «condizioni previste dall’articolo 2382 c.c.» che, tuttavia, descrive eventi che minano poco o punto l’indipendenza, quanto piuttosto la capacità di un soggetto a ricoprire l’ufficio di amministratore di una società di capitali o l’assoluta inopportunità di attribuirgli tale compito. La lett. b dell’art. 2399, 1° comma, c.c. e dell’art. 148, 3° comma, t.u.f., sono identiche, descrivono legami di natura personale e rinviano testualmente al «coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società», nonché agli stessi soggetti riferiti agli amministratori della controllante, delle controllate o delle società “sorelle” (sottoposte a comune controllo) della società del cui amministratore indipendente si tratta. Al contrario, la lett. b dell’art. 2409-duodecies, 10° comma, si limita ad indicare “i componenti del consiglio di gestione”. La norma, come si è detto, è immediatamente riferita alle cause di ineleggibilità e decadenza dei consiglieri di sorveglianza ed in quest’ambito è logico e corretto vietare di nominare consigliere di sorveglianza chi è consigliere di gestione (nella stessa società). Tuttavia, qualora si ritenga che essa esprima altresì (come le altre analoghe) i requisiti di indipendenza dei consiglieri di sorveglianza (per i quali altrimenti, nelle società non quotate, il sistema non predicherebbe l’indipendenza), il testo della norma si rivelerebbe probabilmente lacunoso: sarebbe stato opportuno estendere in proposito il riferimento, sulla falsariga delle norme poc’anzi ricordate, anche al coniuge, ai parenti ed agli affini entro il quarto grado dei componenti del consiglio di gestione della stessa società (e forse anche della controllante, delle controllate e delle “sorelle”). Ma tant’è, né sembra che vi sia spazio per un [continua ..]
I legami di natura personale, che la legge individua per poi vietarne l’esistenza, sono quelli basati sui rapporti di coniugio, parentela ed affinità entro il quarto grado (quest’ultimo riferibile sicuramente, nonostante l’incerto dato letterale, sia all’affinità che alla parentela). Quelli di natura patrimoniale, salvo il più ristretto tenore (sul quale mi sono poc’anzi soffermato) dell’art. 2409-duodecies, 10° comma, lett. c, sono indicati in modo tanto ampio da poter comprendere ogni tipo di rapporto di lavoro (subordinato, parasubordinato, autonomo, intellettuale) o commerciale (agenti, mediatori, fornitori ed anche clienti); e sono poi riferiti (nel senso che non devono legare l’amministratore della cui indipendenza si tratta) ad un microcosmo di persone che, specie nel modello più rigoroso (art. 148 t.u.f.) e se si immagina la realtà di un gruppo di società di medie dimensioni, rischia di divenire vastissimo, in continua evoluzione e sostanzialmente incontrollabile (se non a patto di vanificare la disposizione o di rendere paralizzante la ricerca del candidato). Proprio per questo, cioè per ridurre l’ampiezza dei legami esclusi e facilitare la nomina dell’indipendente, tutti e tre i modelli, come si è visto, aggiungono, dopo l’elencazione dei rapporti di natura patrimoniale da evitare, un inciso idoneo a delimitare i confini del divieto e, direi, a relativizzare il precetto: i rapporti di natura patrimoniale che la norma individua, intercorrenti fra l’amministratore la cui indipendenza è sub iudice ed il microcosmo di persone fisiche e giuridiche che le norme di volta in volta richiamano, non sono vietati sempre e comunque, ma solo se “ne compromettano l’indipendenza”. Il punto merita allora qualche riflessione. Innanzi tutto, benché quell’inciso “relativizzante” sia testualmente riferito, in tutte le norme considerate, ai rapporti patrimoniali, riterrei che sia applicabile e che, anzi, debba a maggior ragione applicarsi altresì ai rapporti di natura personale. Una volta ritenuto che un certo tipo di rapporto non sia di per se – sulla base cioè di un giudizio astratto, aprioristico ed immutabile – pregiudizievole (ai fini dell’esistenza o meno dell’autonomia del soggetto che lo intrattiene), ma sia meritevole di una valutazione in [continua ..]
In margine all’esame dei criteri di indipendenza è opportuna una osservazione che li riguarda tutti e che forse denota la ancora scarsa maturazione (se non la scarsa convinzione) dei precetti di legge in ordine al tema qui in esame. Tutte le norme passate in rassegna, infatti, si risolvono in un elenco di negatività, di ciò che un amministratore, per potersi qualificare indipendente, non deve essere o non deve essere stato, ma nulla dicono in positivo su ciò che quel soggetto deve essere. La scelta legislativa suscita forti perplessità. Premesso che ci si riferisce, come poi si tornerà a dire, a soggetti che hanno comunque il compito di esercitare l’impresa societaria, i requisiti “negativi” indicano la probabilità, più o meno elevata, che determinati fattori esterni non compromettano l’autonomia di pensiero del candidato amministratore, ma non dicono se poi questi abbia le capacità idonee ad esercitare in effettiva autonomia il proprio giudizio o se, invece, sia comunque in condizioni (personali o patrimoniali) tali da esporlo o da spingerlo a ricercare l’influenza di altre persone più competenti e più autorevoli (sotto l’aspetto del ruolo endosocietario, delle conoscenze aziendali, della specifica cultura tecnica). Insomma, riterrei che, anche in questo campo, una reale indipendenza sia indissolubilmente legata, prima ancora che all’inesistenza dei “legami” su cui le norme si attardano con maggior o minor dettaglio, al possesso di tre requisiti “positivi”, uno che sfugge al potere della legge (ma non al discernimento di chi nomina o elegge o coopta un amministratore), e cioè l’intelligenza, gli altri sui quali, viceversa, la legge potrebbe dire la sua e cioè la professionalità e l’autosufficienza economica. Quanto all’intelligenza, fermo quel che si è appena accennato, mi limiterei a notare che componente importante di essa è pur sempre la cultura e che allora, per questo aspetto, il discorso confluisce in quello sulla professionalità. Quanto alla professionalità, basti in questa sede averne segnalato la rilevanza ai fini della valutazione dell’indipendenza. Non è il caso, viceversa, di affrontare ex professo questo ulteriore tema, se non per proporre due brevi osservazioni: a) la professionalità di chi [continua ..]
Probabilmente, alla radice di una descrizione tutta “in negativo” dei requisiti di indipendenza vi è lo stesso equivoco di fondo che ha spinto il legislatore, come si è visto, a ricalcare in tema di amministratori indipendenti i modelli già adottati per l’ineleggibilità e la decadenza dei sindaci (e dei consiglieri di sorveglianza): quello, cioè, di aver sostanzialmente rinunziato ad identificare la fisionomia ed il ruolo endosocietari di questi soggetti. Più radicalmente, a mio avviso, il nostro tradizionale approccio al tema della governance societaria, cui pure si è fatto cenno, è di ostacolo a superare la rigida dicotomia amministrazione – controllo e perciò determina una certa confusione, una volta accolta, forse un po’ precipitosamente, per alcuni amministratori una qualifica (l’indipendenza) che pareva sino ad ora propria del “controllore”: i compiti di questi “nuovi” soggetti, forse inconsapevolmente ritenuti ibridi, non sono svelati, perciò neppure sono positivamente individuati i loro specifici requisiti e sono invece richiamati i requisiti (negativi) previsti per chi controlla. A mio avviso, allora, occorre affrontare una duplice, tutt’altro che agevole indagine: a) tentare di individuare, sia pure in prima approssimazione, i compiti dell’amministratore indipendente (e dunque il “perché” di questa figura); b) affrontare una sorta di viaggio nella realtà, per comprendere attraverso quali percorsi, in concreto, nel mondo degli affari, un qualcuno diviene amministratore di una società per azioni. È ovvio che ad entrambi i punti potranno qui dedicarsi solo alcune prime riflessioni, auspicabilmente funzionali al discorso che si va conducendo.
Il primo punto, vale a dire l’individuazione dei compiti degli amministratori indipendenti, richiede da un lato la ricostruzione della dialettica interna al consiglio di amministrazione, come emerge ora lucidamente dall’art. 2381 c.c., e dall’altra la comparazione fra i compiti degli amministratori e dei sindaci. La sintesi di tutto ciò mi pare possa così esprimersi: qualcuno gestisce (gli amministratori delegati); qualcuno valuta (gli amministratori deleganti); qualcuno vigila (i sindaci). Naturalmente, occorre non rimanere soggiogati dalla magia delle parole e dunque decifrare il quadro. L’esegesi dell’art. 2381 ed il confronto fra i suoi precetti consente di dire che nel gestire confluisce il “generale andamento della gestione”, cioè il compimento degli atti e delle “operazioni” di vertice in cui si risolve l’esercizio dell’impresa, la cura (cioè la predisposizione ed il progressivo adattamento) dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, l’elaborazione dei piani strategici, industriali, contabili: azioni concrete, dunque, cui sono immediatamente collegate modifiche nella realtà fenomenica e/o giuridica; il valutare, viceversa, si risolve in un’attività, meramente interna, di giudizio critico su ciò che altri (i colleghi di consiglio titolari di deleghe) hanno fatto, curato, elaborato. Il confronto fra questi dati e le previsioni dell’art. 2403 c.c., conduce poi a dire che il vigilare (affidato ai sindaci) si risolve nella comparazione fra tutto ciò che gli amministratori hanno fatto e le norme di legge e di statuto di volta in volta coinvolte (le norme di legge sono anche quelle non societarie, mentre l’osservanza dei precetti di corretta amministrazione, pure richiamata dall’art. 2403 c.c., può ritenersi compresa nel generale dovere di diligenza che appunto le norme societarie pongono inderogabilmente a carico degli amministratori). Se poi si tiene conto del fatto che, a mente dell’art. 2380-bis, 1° comma, a (tutti e solo) gli amministratori compete il dovere di esercitare l’impresa, si può ulteriormente precisare che la valutazione ora rimessa agli amministratori non delegati è di certo estranea all’area della vigilanza (perlomeno per come intesa dall’art. 2403 c.c. e non a caso espunta dal testo riformato dell’art. 2392 [continua ..]
Il secondo punto poc’anzi individuato riguarda l’indagine sul se ed in che misura le modalità di nomina degli amministratori, per come concretamente avvengono, siano funzionali od almeno coerenti con la ricerca di soggetti realmente indipendenti (prima e dopo la nomina stessa). Bene. Come accade, nella vita reale, che qualcuno diviene consigliere di amministrazione di una società per azioni? Naturalmente, non interessano qui, posto che l’obiettivo è puntato su soggetti (che si auspica siano) indipendenti, i percorsi “protetti” che, come si è posto in luce innanzi, sono riservati al od ai soci di controllo (od ai componenti delle relative famiglie) ed ai managers tanto forti all’interno della struttura aziendale da imporre al socio di controllo o, in altre esperienze, agli investitori istituzionali (ed in un certo senso al mercato) la loro presenza nel board. L’attenzione va invece concentrata su chi, sino ad un certo momento estraneo rispetto ad una società, ne divenga poi membro del consiglio di amministrazione (le cose non mutano sostanzialmente per gli ex dipendenti privi del potere contrattuale dei grandi managers di cui si è detto). Certo, sui libri di scuola (e sul codice) è detto che questo signore viene eletto dall’assemblea (o, più raramente e comunque provvisoriamente, cooptato dallo stesso consiglio di amministrazione), ma questo è, sul versante della vita reale, un punto di arrivo, non di partenza. La nomina assembleare è, per cosi dire, la superficie del mare: bello a vedersi, certo, ma occorre immergersi per studiare la ricchissima e multiforme varietà di creature viventi che lo popolano. Ora, la nomina assembleare di un consigliere di amministrazione è immancabilmente preceduta, sia pure non sempre in modo uniforme, da una sorta di negoziato e qualche volta da un vero e proprio negozio, distinto e parallelo rispetto a quello che si conclude con l’accettazione formale (art. 2383, 4° comma, c.c.) della predetta nomina. Non credo sia mai avvenuto che una persona sia stata nominata all’“improvviso” componente dell’organo di gestione di una società (e, se invece è accaduto, quella persona avrà di sicuro prudentemente declinato l’inatteso ufficio). Qualcuno – il socio “padrone”, il potente manager, qualche emissario [continua ..]
Proprio le considerazioni appena svolte sul permanente attentato all’indipendenza che deriva dalle stesse modalità di “reclutamento” (ed, a maggior ragione, di conferma) dell’amministratore suggeriscono di sdoppiare l’esame della disciplina del rapporto in due sottotemi. Prima infatti di verificare se le norme che disciplinano gli amministratori di s.p.a. corroborino la scelta di coloro che vogliono davvero adottare comportamenti indipendenti, conviene domandarsi se e quando l’esser già stato precedentemente amministratore di quella società incida a posteriori sull’indipendenza. In altri termini, premesso che “gli amministratori sono liberamente rieleggibili” (art. 2383, 3° comma, c.c.) senza limitazioni (e che nella prassi le rielezioni sono frequentissime) bisogna domandarsi dopo quanti mandati (ciascuno dei quali è normalmente triennale: art. 2383, 2° comma, c.c.) l’indipendenza, in ipotesi originariamente presente, venga meno. Ho volutamente limitato il discorso al quantum, perché sull’an non avrei dubbi: dopo un certo periodo di tempo, appunto da valutare, inevitabilmente ci si sente (nella migliore delle ipotesi) componenti di una squadra ed il bagaglio del passato comune dissipa, magari inconsapevolmente, l’iniziale e “salutare” diffidenza e mina le capacità di critica. È bene notare subito che, il più o meno lungo elenco dei “non è” o “non è stato” in cui si risolvono, come si è visto, le norme in tema di indipendenza degli amministratori non comprende in modo esplicito i precedenti mandati di amministratore che quel soggetto abbia ricoperto nella società di cui si tratta, né i precedenti mandati ricoperti in società del gruppo cui la prima appartenga (benché sia prassi nota, talvolta addirittura plaudita, anche quella della nomina dei medesimi soggetti nel consiglio di amministrazione della capogruppo e di alcune controllate o solo di alcune controllate). Né a conclusioni diverse può giungersi in via esegetica. Il tenore testuale delle norme ed, appunto, la troppo evidente e costante prassi, portano ad escludere che un punto tanto rilevante possa essere per così dire nascosto nel generico riferimento ai rapporti di “lavoro” od anche di “lavoro autonomo o subordinato” od ancora di [continua ..]
Bisogna affrontare un ultimo punto, pure attinente alla disciplina del rapporto: quello del se e come verificare che il comportamento tenuto dall’amministratore sia coerente con la qualifica di indipendente a lui attribuita. In verità, mi sembra che quella qualifica, indicata (agli azionisti, agli altri finanziatori sociali, agli stakeholders o, più in generale, al mercato) e qualche volta enfatizzata al momento della nomina, debba essere intesa come una sorta di impegno o di promessa: questa persona possiede determinati requisiti e (soprattutto) si comporterà in modo indipendente, eserciterà liberamente (nel senso innanzi precisato) la propria autonoma capacità di valutazione critica a proposito degli atti del suo ufficio ed in particolare a proposito degli atti dei colleghi “esecutivi”. In questo senso, allora, come pure ho tentato di dire in precedenza, i requisiti di indipendenza stabiliti dalla legge o dai codici di autodisciplina, a prescindere dal loro troppo frequente atteggiarsi in negativo e comunque dal giudizio che sugli stessi si può esprimere, non sono (non possono essere) l’attestazione del conseguimento del risultato atteso, ma solo un indice della probabilità (più o meno elevata) del suo conseguimento. È dunque non solo opportuno, ma direi indispensabile, se si vuol dare corpo all’indipendenza, una verifica successiva alla nomina e si tratta allora di domandarsi se e quale disciplina sia in proposito reperibile, se ed in che misura appaia soddisfacente. Purtroppo, in estrema sintesi, la risposta è molto facile in ordine ad entrambi i quesiti: non c’è alcuna disciplina del punto in esame nella legge (né nei regolamenti che del tema potrebbero occuparsi); c’è invece un accenno di disciplina nel codice di autodisciplina di Borsa Italiana, tuttavia troppo laconica e sicuramente insufficiente. Il codice prevede (3.C.4.) che, successivamente alla nomina, «almeno una volta all’anno, il consiglio di amministrazione valuta, sulla base delle informazioni fornite dall’interessato o comunque a disposizione dell’emittente, le relazioni che potrebbero essere o apparire tali da compromettere l’autonomia di giudizio» dell’amministratore qualificatosi indipendente. È dunque qualcosa in più dell’assordante silenzio della legge (per tale intendendosi il [continua ..]
Forse la risposta è in un’altra circostanza un po’ sconcertante, quella per cui l’autore di questa delicata valutazione sull’indipendenza dell’amministratore già in carica è il consiglio di amministrazione, vale a dire l’organo, il collegio nel cui ambito i comportamenti indipendenti avrebbero dovuto dipanarsi con il loro strascico di giudizi favorevoli o, più probabilmente, sfavorevoli (la scelta è condivisa dalle disposizioni in tema di governance delle banche emanate da Banca d’Italia). Non sembra (anche) questa risposta adeguata alla delicatezza ed all’importanza dell’accertamento (qui medio tempore) dell’indipendenza e si fatica a trattenere il sospetto che quella delicatezza e quella importanza non siano condivise e che in realtà si pensi non tanto alla sostanza di questa qualifica, ma ad una formale legittimazione della sua comunicazione al mercato, per giovarsene sul piano dell’immagine da trasmettere, non importa se e quanto tale immagine sia poi coerente con la sottostante sostanza delle cose. Basti notare che è nel consiglio di amministrazione, infatti, che l’indipendenza si esercita o meno, è lì che il comportamento dell’amministratore si misura in concreto con i “poteri forti” (gli autorevoli managers, quando l’azionato è diffuso, i fedelissimi del “padrone” o direttamente questi, quanto l’azionariato è concentrato), quei poteri dinanzi ai quali acquista senso concreto l’indipendenza: perché un’opinione autonoma può essere accolta come fastidiosa, diversamente da quella compiacente, l’una e l’altra indipendentemente dall’intrinseca fondatezza e dall’onestà intellettuale di chi la manifesta. Riconosco che il tema della valutazione medio tempore dell’indipendenza è molto difficile, sul piano tecnico come su quello dell’opportunità delle soluzioni astrattamente possibili, ma il meccanismo prescelto dal codice di autodisciplina non appare condivisibile per diverse ragioni: perché non prende di mira direttamente i comportamenti tenuti dall’amministratore; perché non impegna la società alla ricerca di informazioni su eventuali relazioni ostacolanti; perché rimette il giudizio proprio al plenum di quei soggetti [continua ..]