Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell´attività ed autonomia statutaria. Un aggiornamento a seguito dell´art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con legge 14 settembre 2011, n. 148 (di Mario Libertini)


SOMMARIO:

1. I “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house” da parte di enti pubblici. - 2. L’iniziativa economica pubblica nel diritto europeo: l’art. 106 t.f.u.e. - 3. L’evoluzione del diritto italiano: dalla capacità generale alla capacità speciale degli enti pubblici in ordine all’esercizio di imprese. - 4. L’applicazione del principio di tutela della concorrenza alla materia degli appalti pubblici. - 5. Il problema dell’elusione dell’obbligo di procedure competitive: la nascita delle figure dell’“organismo di diritto pubblico” e dell’affidamento diretto a società di in house provid­ing. - 6. L’autoproduzione di beni o servizi da parte di enti pubblici: scelta autonoma o soluzione eccezionale di tipo sussidiario? - 7. Il nuovo articolo 4 del d.l. n. 138/2011, convertito con legge n. 148/2011. - 8. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di requisiti per l’affidamento diretto in house: “controllo analogo” e “destinazione prevalente”, dalla sentenza Teckal (1999) alla sentenza Acoset (2009). - 9. L’evoluzione del concetto di “controllo analogo”: quattro diverse accezioni nel diritto vivente. - 10. Il “controllo analogo” come potere dell’azionista di determinare l’indirizzo strategico della gestione. - 11. Gli strumenti giuridici: i diritti amministrativi del socio nella s.r.l., i patti parasociali nella s.p.a. Critica alla tesi dell’ammissibilità di organi atipici destinati ad attuare il “controllo analogo”. - 12. La “destinazione prevalente” dell’attività produttiva e le clausole statutarie che la garantiscono. - 13. La “destinazione prevalente” e la capacità di diritto privato delle società di autoproduzione. - NOTE


1. I “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house” da parte di enti pubblici.

Queste note sono rivolte all’esame delle regole, costruite dalla giurisprudenza europea con riferimento alle imprese di autoproduzione (c.d. in house providing) controllate da uno Stato o da altro ente pubblico. Si tratta, in altri termini, di un tentativo di ana­lisi de “i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta ‘in house’”, per usare l’espressione dell’art. 4, 13° comma, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con legge 14 settembre 2011, n. 148. La disposizione del richiamato art. 4 ha sostituito, com’è noto, l’art. 23-bis, 3° comma, d.l. n. 112/2008, conv. con legge n. 133/2008 e poi modificato con d.l. 135/09, conv. con legge n. 166/2009, che è stata abrogata dal referendum del 12-13 giugno scorso. La disposizione dell’art. 23-bis precisava che dovevano essere «comunque rispettati i principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano». Questa frase non è stata riprodotta nel nuovo art. 4, ma – avendo essa un valore solo ricognitivo dei requisiti sanciti dal diritto europeo – la mancata riproduzione della frase può considerarsi priva di rilievo normativo: i “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario” rimangono necessari per le gestioni in house.


2. L’iniziativa economica pubblica nel diritto europeo: l’art. 106 t.f.u.e.

Per inquadrare il problema, è opportuno premettere che, al momento della redazione del Trattato di Roma, la tradizione culturale in materia di imprese pubbliche vedeva due posizioni di principio fra loro contrastanti: a) una, più antica, era quella liberale classica, fondata sull’idea di netta separazione (non-concorrenza) fra pubblico e privato; su tali basi si poteva ammettere che i soggetti pubblici svolgessero attività produttive solo in funzione di autoproduzione di beni o servizi (lavori “in amministrazione diretta”), ovvero in quanto investiti di compiti di pubblico servizio (nel qual caso avrebbero potuto operare in proprio, anche mediante aziende autonome, oppure avvalersi di concessionari privati); in ogni caso, non si concepiva l’idea che l’ente pubblico producesse – direttamente o indirettamente – beni o servizi per i mercati, in concorrenza con i privati; l’im­presa pubblica poteva giustificarsi solo con compiti di supplenza (oggi si direbbe: di fornitura del servizio universale), in caso di insufficienza di quella privata1; b) la seconda, storicamente più recente (e prevalente alla metà del XX secolo) teorizzava, con varie sfumature di differenza, la superiorità del modello di “economia mista” sul modello liberale classico, e perciò giungeva ad affermare la parità giuridica fra iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata (tale impostazione – com’è noto – si trova riflessa anche nel testo dell’art. 41, 3° comma, Cost.); in questa prospettiva i soggetti pubblici apparivano legittimati – politicamente e giuridicamente – a costituire imprese di ogni genere e ad entrare nei mercati, con il programma di realizzare fini socialmente positivi, cioè di attuare programmi pubblici di sviluppo, ma anche – così spesso si diceva, allora – con funzioni riequilibratrici dei mercati, cioè di bilanciamento del potere di monopoli privati; in altri termini, con funzioni proconcorrenziali2. Gli autori dei Trattati europei, a parte queste divergenze ideologiche di fondo, si trovavano di fronte a mercati in cui operavano molte imprese pubbliche, e non potevano che muovere da questa constatazione. A distanza di mezzo secolo, le disposizioni di principio dettate in materia dal diritto europeo appaiono però lungimiranti: il legislatore [continua ..]


3. L’evoluzione del diritto italiano: dalla capacità generale alla capacità speciale degli enti pubblici in ordine all’esercizio di imprese.

Il diritto italiano è andato però oltre: sulla spinta liberalizzatrice del diritto europeo sembra aver realizzato, in anni recenti, una precisa inversione di tendenza, passando dal riconoscimento di una capacità generale degli enti pubblici alla costituzione di società e organismi imprenditoriali, all’opposto regime di capacità speciale. Questo processo è stato segnato soprattutto dall’art. 3, 27° comma, legge 24 dicembre 2007, n. 244, e dalle modificazioni successive (oggi la normativa è dettata nei commi da 27 a 32-ter dell’art. 3 citato) 5. Oggi la capacità degli enti pubblici di partecipare a società è limitata alle (i) “società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie attività istituzionali”; (ii) società che producono servizi di interesse economico generale; (iii) società “di committenza”, ai sensi della disciplina del codice dei contratti pubblici; (iv) società emittenti strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati. Le altre partecipazioni dovrebbero essere dismesse nei termini di legge. Questa norma è positivamente passata al vaglio della Corte costituzionale 6, che ha ritenuto: I) che la norma sia dettata a tutela della concorrenza (i.e. per evitare distorsioni della concorrenza, a favore di soggetti tendenzialmente privilegiati, quali possono essere le società in mano pubblica), e quindi costituisca legittima espressione della potestà legislativa statale; II) che la norma limiti in termini ragionevoli la libertà d’iniziativa economica degli enti pubblici, fondandosi sulla «distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione) ed attività di impresa di enti pubblici». Questa indicazione della Corte costituzionale – che riprende una ratio decidendi già espressa in una precedente decisione 7 – pone qualche dubbio in ordine al significato da attribuire all’espressione “attività amministrativa in forma privatistica”. Qualcuno potrebbe pensare che la Corte faccia riferimento alla delega di funzioni amministrative e quindi alla costituzione di società aventi come oggetto (nei limiti in [continua ..]


4. L’applicazione del principio di tutela della concorrenza alla materia degli appalti pubblici.

La rilevanza del fenomeno dell’autoproduzione di beni e servizi da parte di pubbliche amministrazioni tocca quindi i principi generali sulla libertà di iniziativa pubblica. La definizione precisa dei requisiti delle gestioni in house è però maturata, nel diritto europeo, in un contesto collaterale, che è quello della disciplina degli appalti pubblici. A tale proposito è ben noto che la spinta neoliberistica, maturata nell’ultimo decennio del secolo scorso, ha indotto le autorità europee a disciplinare – a fini di tutela della concorrenza – anche un profilo di rapporti fra azione pubblica e funzionamento dei mercati, che era rimasto estraneo al­l’impianto normativo dell’art. 90, e cioè quello dell’impatto concorrenziale dell’azione degli enti pubblici in qualità di committenti o di concedenti. La Comunità ha applicato dunque il principio di concorrenza anche al lato della domanda pubblica di beni e servizi, oltre che a quello dell’offerta. L’obiettivo primario è così divenuto quello di realizzare una concorrenza effettiva anche nel campo degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi. Tale obiettivo è stato ben presto esteso anche al campo delle concessioni (finora solo a livello di principi generali, ma è attualmente in discussione una direttiva in materia). È stato perciò imposto in termini generali – con modalità più rigorose di quanto fosse tradizionalmente previsto nei diritti nazionali – il dovere, per gli enti pubblici, di far precedere la scelta dei contraenti da procedure competitive. Questa scelta politico-legislativa nasce chiaramente dall’intento di “simulare il mercato”, in un campo in cui erano state storicamente prevalenti (nel bene e nel male) scelte allocative di natura politica. A mio avviso, questa “simulazione del mercato”, per come si realizza nella disciplina degli appalti pubblici, è assai imperfetta 9: spesso, nei ragionamenti che si fanno sul tema “appalti pubblici e concorrenza” si confonde “concorrenza” con “massima partecipazione alle gare”, assumendo inconsapevolmente l’idea che le amministrazioni pubbliche si rivolgano sempre a mercati in concorrenza perfetta, e dimenticando che la concorrenza reale è fatta, invece, di offerte [continua ..]


5. Il problema dell’elusione dell’obbligo di procedure competitive: la nascita delle figure dell’“organismo di diritto pubblico” e dell’affidamento diretto a società di in house provid­ing.

Mettendo ora da parte questi problemi di politica legislativa, si deve sottolineare che il diritto europeo, una volta stabilito il principio generale dell’obbligo di gara per le commesse pubbliche, si è posto il problema di combattere l’elusione del principio stesso. Da qui, in primo luogo, la costruzione della nozione di “organismo di diritto pubblico”, intesa ad evitare che privatizzazioni puramente formali consentissero ancora, agli enti pubblici, di assegnare commesse senza gara, avvalendosi di società private da essi pienamente controllate 12. Contemporaneamente, però, si è posto nel diritto comunitario il problema della compatibilità con i principi di concorrenza del fenomeno dell’autoproduzione di beni e servizi da parte di pubbliche amministrazioni. La risposta è stata, in linea di principio, positiva: l’autonomia organizzativa delle pubbliche amministrazioni non è stata incisa dal diritto europeo; d’altra parte, il fenomeno dell’autoproduzione, in sé considerato, può avere qualche valenza positiva, sia sul piano della valorizzazione del patrimonio tecnico pubblico, sia anche sul piano della partecipazione dei cittadini. Ecco dunque che il fenomeno della “privatizzazione formale”, cioè della società formalmente privata e lucrativa, ma interamente controllata da un soggetto pubblico e destinata a suoi fini, emerso attraverso la figura dello “organismo di diritto pubblico” (con effetti, in quel caso, limitativi dell’autonomia degli enti pubblici), riemerge sotto altro profilo, stavolta come strumento idoneo a realizzare, in forme giuridiche diverse dalle tradizionali produzioni “in economia” (e, in particolare, “in amministrazione diretta”), il fenomeno dell’autoproduzione di beni e servizi. Su questa base la giurisprudenza comunitaria costruisce la figura della società in mano pubblica destinata ad attività di in house providing, riconoscendo la legittimità dell’affidamento di­retto di compiti di autoproduzione a società aventi questa specifica funzione. Com’è noto, la fattispecie viene costruita sulla base di due elementi: (i) l’esistenza, da parte dell’ente pubblico socio, di un “controllo sulla società analogo a quello che esso esercita sui propri uffici”; (ii) la [continua ..]


6. L’autoproduzione di beni o servizi da parte di enti pubblici: scelta autonoma o soluzione eccezionale di tipo sussidiario?

Prima di passare all’esame delle decisioni giurisprudenziali comunitarie, mi sembra opportuno aprire una seconda parentesi (oltre a quella a cui è stato prima dedicato il § 3), per segnalare che sul punto cruciale, relativo alla collocazione del fenomeno dell’autoproduzione pubblica nel quadro generale dei principi della disciplina delle attività economiche, le indicazioni del diritto europeo appaiono un po’ sfocate. Non è infatti chiaro se la scelta di un ente pubblico a favore dell’autoproduzione debba ritenersi legittima in linea di principio, come espressione di autonomia dell’ente stesso 13 – alla stessa stregua del “diritto di autoproduzione” riconosciuto dall’art. 9, l. 287/1990, ai privati 14 – o se sia da am­mettere solo come scelta residuale, in caso di comprovata impossibilità o inadeguatezza di una scelta di outsourcing a favore di imprese private. Le indicazioni della giurisprudenza comunitaria sembrerebbero nel primo senso. Infatti, la giurisprudenza, nel costruire (v. i §§ seguenti) i requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, con riferimento agli affidamenti in house, non aggiunge anche – come requisito di legittimità – quello della “indispensabilità” del ricorso a tale affidamento, rispetto a soluzioni alternative (requisito ben noto, sotto altri profili, nel diritto europeo della concorrenza: v. art. 101, § 3, T.F.U.E.). Sembrerebbe, dunque, che la scelta dell’autopro­duzione da parte dell’ente pubblico sia intesa come espressione dell’autonomia organizzativa dell’ente e possa ritenersi legittima tutte le volte in cui vi sia una ragionevole motivazione, che potrebbe riguardare tanto la valorizzazione di capitale umano e know-how già presenti nel­l’or­ganizzazione stessa, quanto la volontà dell’ente di guidare in modo diretto e completo la gestione del ramo di attività interessata. In altri termini, la scelta dell’autoproduzione pubblica sembrerebbe godere di una presunzione di legittimità, che potrebbe venir meno solo in caso di palese (o comunque prevedibile) inefficienza della scelta medesima, sotto il profilo dei costi o sotto quello della qualità del servizio (o ambedue). In sostanza, le indicazioni provenienti [continua ..]


7. Il nuovo articolo 4 del d.l. n. 138/2011, convertito con legge n. 148/2011.

L’abroga­zione referendaria dell’art. 23-bis, avvenuta all’insegna di una (superficiale, ad avviso di chi scrive e di molti osservatori) esaltazione delle gestioni pubbliche in quanto tali (oltre che di una diffusa ignoranza sulla reale portata dell’ora abrogato art. 23-bis) ha creato un vuoto di normazione statale diretta, ma non ha certo inciso sui principi comunitari, sopra richiamati, che sarebbero rimasti i soli principi atti a governare la materia (e forse non sarebbe stato tanto male), se il legislatore non avesse ritenuto opportuno intervenire subito, per sostituire un nuovo assetto normativo interno all’ormai abrogato art. 23-bis. Il nuovo assetto normativo doveva, per forza di cose, avere qualche differenza sostanziale rispetto al precedente, per evitare l’elusione dell’esito referendario; e così è stato. Il nuovo art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con legge 14 settembre 2011, n. 148, detta una complessa normativa, articolata su tre piani: una normativa generale, incentrata sui principi di liberalizzazione e di tutela della concorrenza, e due normative speciali (rispetti­vamente al 13° comma e ss. e 34° comma), atte a garantire spazi (piuttosto ampi) di sopravvivenza alle gestioni pubbliche dirette. A fini di orientamento, riassumiamo brevemente la nuova disciplina generale, dettata dal­l’art. 4: a) gli enti locali («nel rispetto del principio di concorrenza, etc.») devono anzitutto deliberare, a seguito di una verifica di mercato (con procedura adeguatamente pubblicizzata e con delibera finale analiticamente motivata), se i servizi pubblici locali devono essere liberalizzati (soluzione preferita dal legislatore) o devono essere gestiti in esclusiva (1°-5° comma); per la verità il legislatore si è dimenticato dell’ipotesi, intuitivamente tutt’altro che rara, in cui una liberalizzazione piena non sia possibile, ma sia possibile l’ingresso nel mercato di un numero limitato di operatori che offrono il servizio; anche questo caso – a mio avviso – dev’essere equiparato all’attribuzione di “diritti esclusivi”, dal momento che comunque l’esito della verifica di mercato porta a confermare la necessità di barriere amministrative all’ingresso, per cui non è concepibile un regime di libera concorrenza piena; b) in caso di attribuzione di diritti di [continua ..]


8. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di requisiti per l’affidamento diretto in house: “controllo analogo” e “destinazione prevalente”, dalla sentenza Teckal (1999) alla sentenza Acoset (2009).

Veniamo adesso alla rassegna critica delle decisioni giurisprudenziali comunitarie in materia di affidamenti diretti a scopo di autoproduzione. 8.1. Com’è noto, l’indicazione di principio, relativa alle società di providing in house, viene espressa chiaramente, per la prima volta, nella celebre sentenza CGCE, 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal, in cui la Corte sancisce che non vi è appalto, soggetto alla relativa direttiva (e quindi non vi è obbligo di gara) «nel caso in cui ... l’ente pubblico eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano». È abbastanza chiaro che i giudici hanno avuto in mente ipotesi di privatizzazione formale di aziende pubbliche e di consorzi produttivi fra enti pubblici, cioè di strutture produttive che erano soggette a vincoli gerarchici o comunque di indirizzo, all’interno delle organizzazioni pubbliche di appartenenza, pur godendo di un ampio spazio di autonomia gestionale nell’esercizio dell’atti­vità produttiva. La doppia formula – del “controllo analogo” e della “attività prevalente” – è destinata a duraturo successo, ma non è definita in modo analitico nella sentenza Teckal, sicché finisce per essere recepita con sfumature diverse, negli ordinamenti dei vari Stati membri. Da qui la lunga serie di interventi successivi della Corte di Giustizia (20 finora, salvo errore, di cui ben 10 occasionati da vicende italiane). 8.2. Con la sentenza CGCE, 11.01.2005, C-26/03, Stadt Halle, la Corte sancisce che il “controllo analogo” è qualcosa di più del controllo societario tipico (cioè della “influenza dominante” che un socio può esercitare sulla società): da qui l’incompatibilità della figura del “controllo analogo” con la presenza di un socio privato nella società di cui si tratta (nel caso Stadt Halle l’azionista di minoranza deteneva una partecipazione pari al 25% del capitale). La presenza di un socio di minoranza non impedisce certo il controllo societario individuale; ma – nel ragionamento della Corte – non consente di esplicare quella pienezza di poteri che l’ente [continua ..]


9. L’evoluzione del concetto di “controllo analogo”: quattro diverse accezioni nel diritto vivente.

Al termine di questo excursus giurisprudenziale si deve prendere atto – mi sembra – che, nel diritto vivente, il requisito del “controllo analogo” si è ormai evoluto, fino ad assumere quattro possibili significati, relativi a fattispecie diverse. Ciascuna di esse pone però ancora all’interprete alcuni problemi di precisazione dei relativi requisiti, che qui di seguito si cercherà di segnalare. A) La prima figura è quella del controllo individuale da parte di un ente pubblico sulla società affidataria. In ordine a questa figura, la giurisprudenza comunitaria ci dice che il controllo individuale dev’essere totalitario e deve essere caratterizzato da un quid pluris, rispetto al normale controllo societario; si aggiunge (v. in particolare la sentenza SeTCo) che tale situazione è – in linea di principio – compatibile con le forme giuridiche della società di capitali e che la validità degli strumenti giuridici utilizzati per realizzare una situazione di “controllo analogo” dev’essere valutata alla stregua del diritto nazionale. Il punto ancora da definire è in che cosa esattamente consista quel quid pluris richiesto, rispetto al normale controllo societario. B) La seconda figura è quella del controllo congiunto da parte di più enti pubblici sul soggetto affidatario (che potrebbe essere un consorzio, una società o altra struttura organizzativa). Anche in questo caso la giurisprudenza richiede che la proprietà pubblica – anche se plurima e non individuale – sia esclusiva: non sono ammessi, dunque, soci privati25. Per questa figura la giurisprudenza ha precisato che il controllo plurimo è “analogo” se attribuisce a ciascun socio una influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti. Il punto ancora de definire è se “per influenza determinante” si intenda la possibilità di esercitare un vero e proprio potere di veto, e si intenda semplicemente la possibilità di partecipare, con propri esponenti, agli organi interni alla società, investiti del potere decisionale sulle materie richiamate. C) La terza figura è quella dell’affidamento diretto a società mista. Qui la giurisprudenza richiede che il socio industriale sia stato scelto mediante procedura ad evidenza pubblica, rispettosa dei principi [continua ..]


10. Il “controllo analogo” come potere dell’azionista di determinare l’indirizzo strategico della gestione.

Qui di seguito cercherò di indicare le soluzioni che mi sembrano più attendibili, in relazioni ai punti lasciati aperti nel paragrafo precedente. Anzitutto, per ciò che riguarda il controllo individuale, una volta acquisito che il semplice controllo azionario totalitario è necessario 27, ma non sufficiente 28 a configurare il controllo “analogo”, il quid pluris, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria, può ricostruirsi nel senso che l’ente pubblico azionista deve mantenere una influenza dominante sulla direzione strategica della società; non occorre invece anche un controllo diretto sul day to day man­age­ment 29. Occorre, tuttavia, che i poteri di controllo sulla gestione comprendano anche la facoltà di vigilare e incidere direttamente sul rispetto, da parte della società in house, delle norme del patto di stabilità interna, in materia di limiti alle spese per personale e consulenze (art. 4, 14° comma, d.l. n. 138/2011) 30. Questa soluzione appare razionale, ai fini dell’efficienza delle società di autoproduzione. L’efficienza sarà tanto meglio raggiunta quanto più sarà valorizzata la capacità tecnica e professionale dei manager designati dal soggetto pubblico; del resto, anche il successo delle vecchie aziende municipalizzate, quando effettivamente conseguito nell’esperienza storica, dipendeva dalla valorizzazione di tecnici interni, a cui l’ente pubblico riconosceva un’elevata autonomia gestionale. A questa conclusione – per cui il “controllo analogo” non è altro che controllo diretto della gestione strategica da parte dell’ente pubblico azionista – può giungersi mediante un confronto sistematico con la giurisprudenza in materia di controllo congiunto: per quest’ultima ipotesi, è ritenuta sufficiente la situazione di “influenza determinante” sulla gestione strategica e questa ipotesi, in materia di controllo congiunto, non può certo implicare un potere pervasivo, tale da consentire all’azionista la diretta determinazione di tutte le scelte amministrative. Non si vede allora perché una soluzione analoga non debba valere anche per il controllo individuale (peraltro, indicazioni testuali sul riferimento del controllo alla gestione strategica si ritrovano anche in sentenze in materia di [continua ..]


11. Gli strumenti giuridici: i diritti amministrativi del socio nella s.r.l., i patti parasociali nella s.p.a. Critica alla tesi dell’ammissibilità di organi atipici destinati ad attuare il “controllo analogo”.

Ciò posto, ci si deve chiedere se e quali strumenti, alla stregua del diritto societario italiano comune – senza ipotizzare, al momento, deroghe ad esso – consentano di raggiungere il risultato del “controllo analogo”, così come richiesto dalla giurisprudenza europea. Un primo problema, di più facile soluzione, riguarda il profilo della necessità del divieto di presenza di soci privati. Clausole di questo tenore sono oggi ammissibili anche nello statuto di una s.p.a. (arg. ex art. 2355-bis c.c.). Per la verità, l’esistenza di una clausola statutaria formale – richiesta dalla nostra giurisprudenza amministrativa 38 – non parrebbe necessaria, né sufficiente, alla stregua dei criteri sostanzialistici, normalmente seguiti nell’interpretazione delle norme del diritto europeo della concorrenza: infatti, per diritto societario, una clausola statutaria può sempre essere modificata, mentre un patto parasociale o un programma pluriennale di gestione possono avere una solidità applicativa superiore a quella di una norma statutaria. Ciò che conta – per la legittimità della scelta di autoproduzione – dovrebbe essere dunque che non vi sia alcun effettivo programma di privatizzazione della società in questione, ed anzi che la volontà effettiva degli enti soci sia nel senso del mantenimento della proprietà interamente pubblica. Ciò non toglie che la clausola statutaria, fornendo un suggello formale a tale scelta, rappresenti la manifestazione normale dell’esistenza di tale volontà. Più complesso è il problema dell’attribuzione agli enti soci del potere effettivo di determinare la gestione, almeno – come si è detto – a livello strategico 39. Va da sé che strumenti idonei a tal fine sono facilmente costruibili se si sceglie come tipo societario, anziché quello della s.p.a., quello della s.r.l. 40, in cui la legge consente che l’atto costitutivo attribuisca al socio particolari diritti amministrativi (art. 2468, 3° comma, c.c.) 41. La stessa soluzione non può però adottarsi per la s.p.a. Infatti, anche se – come si è detto in precedenza – il controllo analogo richiede – nella sua configurazione minima – solo un’in­fluenza determinante del socio pubblico sulle [continua ..]


12. La “destinazione prevalente” dell’attività produttiva e le clausole statutarie che la garantiscono.

Il secondo requisito delle società di providing in house, cioè quello della “destinazione prevalente” dell’attività produttiva all’ente, o agli enti soci, è stato meno approfondito, dalla giurisprudenza comunitaria, rispetto a quello del “controllo analogo”. Questo requisito non è limitato alla considerazione dell’oggetto statutario, che pur deve essere coerente con l’indicazione del diritto europeo, e non può legittimamente essere aperto alla realizzazione di attività disparate, diverse dalla specifica missione affidata alla società in house 56. Il requisito deve dunque estendersi anche all’attività effettivamente svolta dalla società di autoproduzione. Il punto più interessante, in proposito, è costituito dal fatto che la giurisprudenza comunitaria, fin dall’origine, non ha mai richiesto la destinazione “esclusiva” della produzione all’ente di appartenenza, come pure sarebbe sembrato coerente con la finalità dell’autoproduzione. Questa circostanza potrebbe far pensare che il requisito della prevalenza sia una sorta di regola de minimis, cioè il riconoscimento di un margine di tolleranza puramente quantitativo, che consentirebbe all’impresa di autoproduzione di esercitare normalmente i suoi affidamenti diretti, facendo pure qualche incursione nei mercati esterni, purché limitata a casi sporadici, peraltro non meglio identificati. Questa interpretazione non mi sembra accettabile: le regole de minimis hanno senso se servono ad evitare il sovraccarico di lavoro di qualche organo amministrativo, che deve curare determinati interessi, ma non anche in una situazione del genere, in cui si pone il problema di garantire che le società di autoproduzione si limitino a svolgere la loro missione curando al meglio la missione affidata dall’ente di appartenenza e non si dedichino piuttosto a fare una concorrenza differenziale alle imprese private, sfruttando la situazione di privilegio derivante loro dalla fruizione di un mercato captive. Inoltre, una regola de minimis può funzionare solo se una fonte normativa specifichi i confini, necessariamente convenzionali e pragmatici, della regola stessa. Una fonte normativa di questo tipo manca, nella materia in esame. Non resta dunque che pensare che il limite della “prevalenza” debba [continua ..]


13. La “destinazione prevalente” e la capacità di diritto privato delle società di autoproduzione.

Anche per questo profilo il diritto italiano è andato, per qualche aspetto, oltre le indicazioni del diritto europeo 57. In effetti, il controllo sul rispetto del vincolo della “attività prevalente”, così come sancito nel diritto europeo, non è certo facile. Perciò appare legittimo che una norma di diritto nazionale – come quella dell’art. 13 del nostro d.l. n. 223/2006, conv. con legge n. 246/2006 – ponga dei divieti di vendita a terzi e di partecipazione alle gare, a carico delle società in house. Questo limite è giustificato da ragioni di tutela della concorrenza 58 e ciò induce a pensare che le relative norme non possano essere qualificate come eccezionali e di stretta interpretazione, come invece ritiene l’orientamento forse prevalente nella giurisprudenza amministrativa italiana 59. Quest’ultimo filone giurisprudenziale interpreta la disposizione in esame alla luce di un supposto principio di piena libertà d’iniziativa economica degli enti pubblici. In questo senso, esso appare orientato in direzione opposta a quella dell’abrogato art. 23-bis, d.l. n. 112/2008, ma anche dell’attuale art. 4, d.l. n. 138/2011, che sembrano voler confinare a situazioni pur sempre eccezionali la stessa facoltà di autoproduzione di beni e servizi da parte di enti pubblici (v. supra, §§ 6 e 7). Appare, inoltre, in contrasto con l’indicazione proveniente dall’art. 3, 27° comma e ss., legge n. 244/2007 (v. supra, § 3). Da questo assunto, già discutibile in linea di principio per le ragioni accennate, questa giurisprudenza deduce due conseguenze discutibili anche sul piano dell’interpretazione letterale: (i) la prima è quella per cui la disciplina in questione non si applicherebbe alle società solo indirettamente partecipate dall’ente pubblico; (ii) la seconda è quella per cui il divieto si applicherebbe solo «allorquando l’attività che le società sono chiamate a svolgere sia rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società per svolgere funzioni di supporto di tali amministrazioni pubbliche secondo l’ordina­mento amministrativo». In realtà, ambedue le conclusioni sopra riassunte sono il risultato di una interpretazione restrittiva, anziché letterale, del testo [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2012