1. Voto di lista ed elezione dei sindaci - 2. Una recente decisione della Cassazione - 3. Presentazione delle liste e art. 148 T.U.F. - 4. Presentazione delle liste e regolamento Consob sugli emittenti - 5. Presentazione delle liste e art. 4, d.l. n. 332/1994 - 6. Il voto di lista nell’ambito del procedimento deliberativo - 6.1. Il voto di lista come modalità di proposta di deliberazione - 6.2. Il voto di lista come modalità di votazione - 6.3. Il voto di lista come sistema elettorale e sue implicazioni in punto di proclamazione della deliberazione - 7. Voto di lista ed elezione del consiglio di amministrazione - 8. Voto di lista ed elezione del consiglio di sorveglianza - 9. Voto di lista ed elezione del consiglio di gestione - 10. Sulla opportunità della previsione che legittimi il consiglio di amministrazione a presentare liste di voto per il rinnovo delle cariche sociali - NOTE
Sol che lo statuto lo preveda, la tecnica del voto di lista può essere utilizzata per eleggere i sindaci di una società azionaria o di una società a responsabilità limitata che (obbligatoriamente o volontariamente) sia dotata dell’organo di controllo [[1]]. Se la società è quotata il ricorso al voto di lista è – dalla entrata in vigore del d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303 – obbligatorio; l’art. 148, 2° comma, T.U.F., nella versione modificata dall’art. 3, 14° comma, d.lgs. n. 303/2006, prevede infatti che: «La Consob stabilisce con regolamento modalità per l’elezione, con voto di lista, di un membro effettivo del collegio sindacale da parte dei soci di minoranza che non siano collegati, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti» (enfasi evidentemente aggiunta). Tuttavia, anche prima della modificazione dell’art. 148 recata dal ricordato decreto legislativo e a far data dall’entrata in vigore del T.U.F., nelle società quotate il voto di lista costituiva la principale (se non, in concreto, l’unica) modalità di elezione dei componenti il collegio sindacale, posto che si imponeva allo statuto di una società quotata di prevedere le clausole necessarie ad assicurare che un membro effettivo del collegio sindacale fosse eletto dalla minoranza e che il meccanismo del voto di lista – insieme a quello del voto cumulativo e del voto limitato – era la sola soluzione che la pratica statutaria conosceva [[2]].
Tanto premesso si tratta di stabilire se sia ammissibile che con previsione statutaria si disponga che liste di candidati all’ufficio di sindaco possano essere presentate anche dagli amministratori [[3]], oltre che, come è chiaro, dai soci. La Suprema Corte (con la recente decisione del 13 settembre 2007, n. 19160), seppure al solo fine di determinare la «soccombenza virtuale» e quindi la condanna delle spese di lite, risponde negativamente sulla base di questi due argomenti: (i) «un collegio controllante nominato anche dall’organo controllato» è una «anomalia»; (ii) una consimile previsione statutaria violerebbe l’art. 148 T.U.F. «in quanto comporterebbe il pericolo di una copertura dei posti disponibili da parte unicamente dei soggetti voluti dalla maggioranza e dall’organo rappresentativo (consiglio di amministrazione) e non assicurerebbe quindi la presenza di membri votati dalla minoranza». Tali affermazioni impongono, tuttavia, due precisazioni. In primo luogo: se è vero che un «collegio controllante» nominato (solo o anche) «dall’organo controllato» costituisce una indubbia «anomalia», non è vero che consentire la presentazione di liste da parte dell’organo amministrativo significa che il collegio sindacale sia anche da questo nominato, dal momento che la potestà di nomina rimarrebbe comunque tutta in capo all’assemblea dei soci. Un conto è la presentazione delle liste, altro conto è la nomina; come d’altronde dimostra la circostanza che la legittimazione all’esercizio di queste diverse prerogative non necessariamente coincide. E come vi sono, alla stregua del diritto positivo, soggetti legittimati a votare ma non a presentare le liste (i soci che non rappresentino una determinata aliquota di capitale sociale), vi potrebbero essere soggetti legittimati a presentare una lista, ma non a votarla. Questo potrebbe senz’altro essere il risultato di una previsione statutaria che, ad esempio, distinguesse diverse categorie di azioni attribuendo a tutte le categorie il diritto di voto nella nomina degli organi sociali, ma solo a una categoria il diritto a presentare liste o viceversa riconoscendo a tutti i soci il diritto alla presentazione delle liste ma solo a quelli di una categoria il diritto di votarle, oppure ancora disponendo che una categoria di [continua ..]
Non è quindi sulla base degli argomenti proposti dalla Suprema Corte che si poteva escludere nel vigore della originaria versione del T.U.F. la legittimità della clausola statutaria che consentiva all’organo amministrativo di presentare una lista di candidati all’ufficio di sindaco. A nostro avviso, una consimile clausola sarebbe stata (e sarebbe) illegittima se e solo se non garantisse che nella proclamazione dei sindaci eletti uno sia comunque tratto dalla lista votata dalla minoranza azionaria. Qui, tuttavia, il ragionamento merita di divenire più analitico. Si ipotizzi, appunto, che l’atto costitutivo consenta di presentare liste tanto ai soci quanto agli amministratori. (i) In tale condizione, potrebbe anzitutto darsi il caso che, all’atto pratico, sia presentata una sola lista di candidati. Tutti i sindaci sarebbero tratti da quella; non vi sarebbero, quindi, uno o più sindaci espressione di una componente della compagine sociale («di minoranza») «contrapposta» ad un’altra («di maggioranza»); e tuttavia non vi sarebbe alcuna violazione del principio e della norma di legge; e infatti delle due l’una: o i soci «di minoranza» (che poi, a ben vedere, di minoranza non sarebbero nel caso di specie [[7]]) sono coloro che hanno presentato o contribuito a presentare l’unica lista oppure hanno manifestato l’intenzione di non volere candidare uno o più soggetti in contrapposizione a quelli presentati dagli amministratori o dal socio di controllo. (ii) In modo analogo dovrebbe ragionarsi, se nessuna lista per l’elezione del collegio sindacale fosse presentata: anche in questo caso, infatti, non vi sarebbe modo di ipotizzare la compressione o il sacrificio (e prima ancora l’esercizio) del Minderheitsrecht di cui all’art. 148 T.U.F. (iii) Potrebbe poi darsi l’ipotesi che siano presentate due liste: una da parte di soci e una da parte degli amministratori. In questo caso, se viene votata una sola lista, significa che, ancora una volta [[8]], non si crea una dialettica tra maggioranza e minoranza e tutti i soci eleggono i componenti della lista loro più gradita (l’ipotesi plausibile sarebbe ovviamente quella per cui a non raccogliere alcun consenso sarebbe la lista presentata dagli amministratori). Se, viceversa, i voti dei soci [continua ..]
Tutto ciò, come si disse, vale tanto con riguardo alla originaria formulazione dell’art. 148, 2° comma, T.U.F. quanto alle successive (e cioè a quella introdotta dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262, sulla «tutela del risparmio», e a quella ulteriormente modificata dal d.lgs. n. 303/2006 e attualmente vigente). Ed invero elementi tali da contribuire a smentire le raggiunte conclusioni non possono neppure desumersi dalla normativa di rango secondario emanata in attuazione del T.U.F. riformato dalla legge sul risparmio e dal decreto c.d. correttivo (ci si riferisce, come è chiaro, al regolamento Consob n. 11971 del 14 maggio 1999, concernente gli emittenti, nella sua più aggiornata versione). È vero che con quel regolamento si sia preveduto che «ciascun socio può presentare una lista per la nomina di componenti del collegio sindacale» e che «lo statuto può richiedere che il socio o i soci che presentano una lista siano titolari al momento della presentazione della stessa di una quota di partecipazione non superiore a quella determinata ai sensi dell’articolo 147-ter, comma 1 del Testo unico» (art. 144-sexies, 2° comma), ma ciò non sembra in alcun modo sufficiente a escludere che sulla base dell’autonomia statutaria una concorrente legittimazione alla presentazione di liste di candidati venga riconosciuta anche agli amministratori.
Un ulteriore elemento di conforto nella soluzione raggiunta può semmai trarsi dalla legislazione speciale in materia di società con partecipazioni pubbliche. Come è noto, l’art. 4 del d.l. 31 maggio 1994, n. 332 (convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 1994, n. 474) dispone che gli statuti delle società bancarie, assicurative o operanti nei settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia e degli altri pubblici servizi, che siano direttamente o indirettamente controllate dallo Stato o da enti pubblici territoriali o economici e per le quali sia previsto un limite di possesso azionario, prevedano l’elezione degli amministratori con la tecnica del voto di lista secondo una particolare procedura dettata nel secondo, terzo, quarto e quinto periodo dell’articolo [[12]]. In particolare il menzionato quarto periodo dispone che «le liste potranno essere presentate dagli amministratori uscenti o dai soci che rappresentino almeno l’1 per cento delle azioni …» (enfasi aggiunta). L’ultimo periodo del citato art. 4 dispone poi: «Le procedure di cui al presente articolo si applicano anche all’elezione del collegio sindacale, di cui un rappresentante è riservato alle liste di minoranza». Ne discende che per espressa volontà del legislatore la procedura prevista per la elezione del consiglio di amministrazione, di cui ci sembra fare parte anche il momento della presentazione delle liste con le correlative regole sulla legittimazione alla presentazione, si applica anche alla elezione del collegio sindacale [[13]]. Con la ulteriore conseguenza che nel caso delle società di cui all’art. 4, d.l. n. 332/1994 la legittimazione alla presentazione delle liste tanto di amministratori quanto di sindaci dovrebbe essere per il consiglio uscente non una semplice possibilità ma addirittura una necessità [[14]].
Questo per quel che concerne la presentazione di liste per la elezione del collegio sindacale. Prima di passare a dire del voto di lista per la nomina dei consiglieri di amministrazione, di sorveglianza e di gestione [[15]], è tuttavia opportuno tentare qualche più generale puntualizzazione in merito al procedimento di nomina dei componenti gli organi sociali, in particolare quando si utilizzi la tecnica del «voto di lista»: molte delle discussioni e, se ci è consentito, degli equivoci sorti al riguardo ci sembrano infatti dovuti a una non precisa ricostruzione della struttura di questo specifico fenomeno deliberativo. Muoviamo da ciò che è ormai pacifico: la deliberazione di nomina delle cariche sociali è, al pari di ogni altra deliberazione, un procedimento in senso tecnico [[16]] e le sue fasi essenziali sono quelle della proposta, della votazione della proposta e, previo scrutinio dei voti, della proclamazione degli eletti. Regole di fonte legale e di fonte statutaria possono variamente concorrere a disciplinare le fasi del procedimento e il risultato della relativa deliberazione, proprio quando il suo oggetto sia la nomina di cariche sociali.
Anzitutto con riguardo alla fase della proposta: essa in astratto può avvenire o in occasione della riunione assembleare o in via previa. La tecnica del voto di lista, almeno per come intesa dal legislatore, presuppone anzitutto la posizione di una regola per la quale la proposta avviene al di fuori, e cioè prima della riunione assembleare. È pur vero che si parla anche di «voto di lista» per descrivere una modalità di voto con la quale i soci sono chiamati a votare facendo uso di schede prestampate distribuite a cura dell’ufficio di presidenza in assemblea e recanti una lista di nomi di possibili candidati, ma nulla in quel caso vieta di cancellare i nominativi presenti nella «lista» della scheda prestampata o di aggiungerne altri [[17]]. Viceversa il voto di lista voluto dalla legge impone il ricorso a liste «bloccate» [[18]], non successivamente alterabili e soprattutto, per quel che più conta, non successivamente sostituibili con altre candidature. In altre parole, la previsione del voto di lista – potremmo dire in senso stretto – comporta la previsione di un termine per la conclusione della fase di proposta delle candidature, spirato il quale le candidature (per di più intese come complesso unitario di nomi) non sono più modificabili; solo qualora non venga ritualmente e tempestivamente presentata alcuna lista, i soggetti legittimati potranno «liberamente» proporre in assemblea i nominativi da votarsi e cioè nella stessa adunanza avanzare le candidature [[19]]. Ne discende che quella del voto di lista è anzitutto una particolare tecnica di presentazione della proposta di deliberazione, e ne discende pure che, ove essa non sia stata nel concreto sfruttata, rivive la regola generale: il che potrebbe ulteriormente suggerire di impostare la soluzione del nostro specifico problema chiedendosi se, in generale, il potere di proporre l’oggetto di una deliberazione sia sempre anche di competenza dell’organo amministrativo o, perlomeno, se lo sia quando si abbia a che fare con deliberazioni relative alle cariche sociali; e, anche in questa prospettiva, la risposta ci sembrerebbe dover essere positiva dal momento che, se in assemblea dovessero mancare proposte di voto da parte dei soci, sarebbe di certo funzione degli amministratori [continua ..]
Il voto di lista comporta poi una particolarità modalità di voto e, quindi, caratterizza la disciplina della fase di votazione del procedimento deliberativo. Anzi, tanto la caratterizza che una attenta dottrina ha voluto impostare il voto di lista proprio sulla constatazione (per noi esattissima, ma comunque, come si viene dicendo, parziale) per la quale il «voto di lista» non è un sistema elettorale ma, appunto, una modalità di voto [[23]] [[24]]. Sotto questo riguardo non si tratta solo di constatare che il voto può essere espresso per il tramite di schede prestampate recanti una serie di nomi [[25]], ma si deve anche ribadire come una volta che le liste siano presentate ogni socio non potrà che votare una lista per come predisposta. Non si tratta di una regola banale, perché attraverso essa si incide sull’oggetto della deliberazione: nel senso che si dispone (seppure implicitamente) che la deliberazione sia necessariamente sulla nomina dell’intero organo sociale e non sui suoi singoli componenti; si decide, in altre parole, di ricorrere a una unica deliberazione, strutturandola quindi come atto unitario, e non a tante deliberazioni quanti sono i componenti dell’organo da eleggersi, cosa pure astrattamente possibile [[26]]. La unica deliberazione apre poi la strada alla previsione di sistemi elettorali non schiettamente maggioritari, dal momento che solo attraverso la contemporanea elezione di tutto il collegio (o comunque di una pluralità di candidati [[27]], può garantirsi uno o più posti a candidati tratti da liste, appunto, «di minoranza» [[28]]. Anche per questa ragione il voto di lista è – e non da oggi – visto come un sintomo della natura (anche) compositoria del collegio che attraverso tale modalità si elegga [[29]].
La circostanza che il ricorso alla tecnica del voto di lista incida – come si è appena detto – sulla stessa struttura (necessariamente unitaria) della deliberazione di nomina, consente di prevedere che al sistema di candidatura e di votazione tipico del voto di lista si accompagni anche (almeno normalmente e comunque nelle previsioni legislative del voto di lista: anzitutto art. 148, 2° comma, T.U.F. e poi anche il combinato disposto dei commi 1° e 3° dell’art. 147-ter T.U.F.) la previsione di un particolare «sistema elettorale», cioè l’adozione di una regola (da specificarsi statutariamente) che assicuri la possibilità a minoranze azionarie di eleggere un componente dell’organo collegiale. Così, e proprio in ossequio alle appena ricordate disposizioni legislative, nelle società quotate la previsione (statutaria) del voto di lista deve essere collegata alla previsione di sistemi elettorali non retti dal principio maggioritario «puro», cioè di sistemi che garantiscano che gli eletti possano essere tratti da più di una lista (ossia non solo da quella «di maggioranza», ma anche da una o più delle eventuali liste «di minoranza») [[30]]. Tale previsione di sistemi elettorali non schiettamente maggioritari riguarda, a ben vedere proprio, la fase conclusiva del procedimento deliberativo e cioè quella della proclamazione degli eletti, dal momento che impone a chi compete tale funzione (e quindi al presidente dell’assemblea) di coordinare il mero dato numerico rinveniente dallo scrutinio dei voti (ricevuti dalle, in ipotesi, varie liste) con la regola elettorale, la quale, si noti bene, non sarà necessariamente solo quella che dispone come dividere i posti da coprire tra le liste che hanno ricevuto voti e di come selezionare i singoli nominativi dalle varie liste che debbono esprimere eletti [[31]], ma anche e soprattutto di stabilire quali liste, ai fini del rispetto della stessa regola elettorale, siano effettivamente «di minoranza» e cioè siano prive di quei collegamenti con chi abbia proposto o votato la lista «di maggioranza» previsti dalla legge (e dai suoi regolamenti attuativi) [[32]]. Il punto è importante perché costituisce a nostro avviso la migliore conferma teorica della soluzione fornita alla specifica questione che ha [continua ..]
Tanto detto con riguardo alla elezione del collegio sindacale, può ancora aggiungersi che a conclusioni analoghe si deve pervenire in materia di elezione del consiglio di amministrazione (in base all’art. 147-ter T.U.F.) [[37]]. Non sembra, infatti, significativa la circostanza che l’art. 147-ter non preveda espressamente la possibilità che a presentare la lista sia il consiglio di amministrazione, mentre, come si è appena ricordato, l’art. 4, d.l. n. 332/1994 lo impone [[38]]. Il fatto che nel secondo caso il legislatore abbia in ogni caso voluto consentire agli amministratori di presentare liste di candidati alle cariche sociali, non significa né può significare che nel primo caso si sia voluto precludere alla autonomia statutaria di raggiungere il medesimo risultato.
Le considerazioni svolte a proposito del collegio sindacale (e del consiglio di amministrazione) non valgono invece per la elezione del consiglio di sorveglianza. Benché ad esso si applichi la disposizione del 2° comma dell’art. 148 T.U.F., in virtù del richiamo fattone dal comma 4-bis del medesimo art. 148, non è possibile pensare che lo statuto consenta al consiglio di gestione di presentare liste per la elezione dei componenti il consiglio di sorveglianza. Qui infatti versiamo in una condizione completamente diversa: il consiglio di sorveglianza ha tra le sue competenze (inderogabili) quella di scegliere i componenti del consiglio di gestione (artt. 2409-novies, 3° comma, e 2409-terdecies, 1° comma, lett. a, c.c.); si deve quindi evitare e non pare ammissibile che coloro che sono chiamati a eleggere i gestori possano essere designati da costoro. Potrebbe al più pensarsi che il consiglio di sorveglianza uscente possa proporre una lista di candidati per la nomina del nuovo consiglio di sorveglianza. Ma si tratterebbe di una situazione per molti versi analoga a quella che si creerebbe se si consentisse al collegio sindacale di presentare una lista di candidati sindaci; soluzione la cui legittimità non avremmo soverchi dubbi a escludere anzitutto alla luce della esclusiva funzione di controllo dell’organo sindacale. Né ci sembrano sufficienti a dissipare tali dubbi le pure innegabili differenze che esistono tra consiglio di sorveglianza e collegio sindacale, e cioè non trattarsi nel primo caso di un organo esclusivamente di controllo e anzi potersi disporre all’interno del consiglio di sorveglianza di un apposito comitato nomine.
Più difficile è stabilire se per la elezione del consiglio di gestione sia legittima la previsione statutaria del ricorso al voto di lista [[39]]. Se così fosse, sarebbe comunque certo che a presentare e votare le liste non potrebbero che essere i componenti del consiglio di sorveglianza. Si diceva, dunque, delle difficoltà che ci sembrano essenzialmente di due ordini. La prima deriverebbe dalla circostanza che mentre i soci nell’eleggere gli amministratori esercitano un loro diritto, che quindi come tale può esplicarsi nel modo più libero, i consiglieri di sorveglianza che nominano i consiglieri di gestione non esercitano un diritto ma svolgono una funzione (se vuolsi, esercitano un potere in senso stretto) e, quindi, non perseguono un loro interesse, ma devono perseguire l’interesse per il quale sono preposti all’ufficio [[40]]. Tale non appare, tuttavia, una difficoltà insormontabile e, invero, si deve tenere presente che anche nell’adempimento del loro dovere i consiglieri di sorveglianza possono, proprio in quanto a loro volta espressione di diverse componenti della compagine sociale, perseguire interessi in concreto non coincidenti [[41]] e quindi legittimamente (cioè discrezionalmente e non arbitrariamente) interpretare l’interesse sociale attraverso scelte difformi nella nomina dei gestori, scelte che allora la tecnica del voto di lista potrebbe rendere effettive. Resta ovviamente inteso, come già detto in premessa, che alla formazione delle liste dovrebbe non solo formalmente ma anche sostanzialmente rimanere estranea la compagine sociale, essendo anche la fase della proposta nel procedimento di nomina dei consiglieri di gestione di esclusiva competenza dei consiglieri di sorveglianza [[42]]. La seconda ragione di dubbio [[43]] consiste in ciò: che il consiglio di gestione mal si presta a diventare un organo di composizione di interessi diversi, risultato che a ben vedere tutti i sistemi elettorali proporzionali (o maggioritari corretti) di un organo collegiale (tra i quali anzitutto quello fondato sulla tecnica del voto di lista) mirano a ottenere. Il consiglio di gestione dovrebbe essere – almeno per come istintivamente noi lo percepiamo – un ufficio formato da pochi componenti esecutivi impegnati essenzialmente nella gestione [continua ..]
Il discorso che era partito da osservazioni di stretto diritto è arrivato, accennando alle possibili tecniche di elezione del consiglio di gestione, a considerazioni, per così dire, di corporate governance. Su questo piano si tratta ancora di chiedersi se vi siano ragioni di opportunità per prevedere statutariamente che l’organo amministrativo presenti liste di candidati per il rinnovo del consiglio di amministrazione stesso o per il rinnovo del collegio sindacale. A noi sembra che tali ragioni vi possano essere, sia per quanto attiene alla nomina del consiglio di amministrazione sia per quel che concerne il collegio sindacale; e questo almeno quando sia abbia a che fare con una società con azioni quotate. Con riguardo a tali società, il legislatore ha ritenuto necessario intervenire per incidere sulla composizione degli organi di amministrazione e di controllo e, in particolare, per imporre la previsione di regole di rango statutario che rendessero possibile la elezione di consiglieri di amministrazione e di sorveglianza, nonché di sindaci anche da parte di componenti della compagine sociale diverse dal socio o dai soci di maggioranza o di controllo. Molti hanno discusso e criticato una simile impostazione e scelta di politica legislativa; ma nessuno ha dubitato che esattamente questo fosse il principio emergente dalle disposizioni degli artt. 147-ter ss. T.U.F. (così come introdotte dalla legge n. 262/2005). Non è qui necessario riprendere quel dibattito, essendo sufficiente ai fini del nostro ragionamento constatare quale sia lo spirito della legge [[45]]. Tale essendo allora la finalità della legge, a noi sembra che non possa comunque dirsi inopportuno ogni mezzo che il raggiungimento di tale finalità agevoli; e la clausola statutaria che, in aggiunta alla legittimazione dei soci, preveda quella del consiglio di amministrazione uscente alla presentazione di liste per il rinnovo delle cariche sociali è senza meno uno strumento che rende più probabile (e quindi più facile) la elezione di un organo del quale siano componenti anche soggetti espressione delle minoranze azionarie. Aggiungo che risulta un dato di comune esperienza quello per cui in linea di principio i tradizionali investitori istituzionali stranieri (fondi pensione, fondi comuni di investimento, ecc.; ma un discorso diverso dovrebbe essere fatto per i fondi c.d. [continua ..]