CASSAZIONE CIVILE, I Sezione, 25 giugno 2014, n. 14471 – Vitrone, Presidente – Ragonesi, Relatore – Morè c. Mezzabarba
Azienda – Cessione – Concorrenza (Divieto di) – In genere – Art. 2557 c.c. – Carattere eccezionale – Esclusione – Conseguenze – Applicabilità in via analogica alle società
(Art. 2557 c.c.)
In tema di divieto di concorrenza, l’art. 2557 cod. civ. non ha natura eccezionale poiché non è diretto a derogare al principio di libera concorrenza, ma solo a disciplinare, nel modo più congruo, la portata degli effetti connaturali al rapporto contrattuale intercorso tra le parti, sicché ne è consentita l’estensione analogica all’ipotesi del cedente l’azienda che abbia poi intrapreso un’attività commerciale concorrente avvalendosi della partecipazione in una società per dissimulare la propria posizione. (1)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato 1’11.5.98 Roberto Mezzabarba conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo Remo More e la ditta “Mule idee” di Ivana More, esponendo: che con atto in data 7.3.1996 aveva acquistato da Remo More un esercizio commerciale sito in Giulianova Lido, al viale Orsini, per la rivendita di frutta e verdura; che, iniziata l’attività commerciale, aveva notato che, a partire dal marzo 1997, sullo stesso viale Orsini di Giulianova ed a poca distanza dall’esercizio commerciale da lui acquistato, aveva avuto inizio l’attività di un piccolo supermercato denominato “Margherita Conad”, gestito dalla ditta “Mule idee”, la cui titolare era la sorella del venditore; che all’interno del supermercato il reparto di prodotti ortofrutticoli era di fatto gestito da Remo More, il quale aveva associato il proprio nome a quello della ditta “Mule idee” provvedendo alla realizzazione anche di attività pubblicitaria. Ciò esposto, assumendo l’illiceità dell’attività concorrenziale di Remo More e del comportamento dell’impresa “Mule idee” ai sensi degli artt. 2557 e 2598 n. 3 c.c., chiedeva che fosse inibito ai convenuti l’esercizio dei comportamenti illeciti e che gli stessi fossero condannati al risarcimento dei danni da lui subiti. Avendo resistito alla domanda, all’esito del procedimento, con sentenza in data 24.6.2003, il Tribunale adito rigettava la domanda, condannando l’attore al pagamento delle spese di giudizio. Premesso che la norma di cui all’art. 2557 c.c. restava sottesa ad impedire che l’alienante con la nuova attività potesse mettere in pericolo la clientela dell’azienda ceduta, osservava il Giudicante che dalla svolta attività istruttoria non erano emersi sufficienti elementi di prova idonei a comprovare comportamenti configuranti l’attività concorrenziale vietata dalla legge. Riteneva in particolare che non era stata dimostrata un’attività di gestione e di direzione dell’azienda da parte di quest’ultimo nel nuovo esercizio commerciale, essendo risultato che il convenuto si limitava ad una collaborazione di fatto e senza poteri, di carattere solo materiale, nell’ambito dell’impresa gestita dalla sorella. Non potevano infatti integrare attività di gestione l’acquisto, il ritiro presso i fornitori o lo scarico dei prodotti ortofrutticoli, né il semplice consiglio che il More del tutto saltuariamente prodigava ai clienti nel reparto del supermercato attrezzato a self-service, essendo stato per contro confermato che il nuovo esercizio commerciale era gestito esclusivamente da Ivana More, quale titolare della sua ditta.
Riteneva peraltro il Tribunale del tutto irrilevante la circostanza dell’avvenuta costituzione di un’impresa familiare da parte dei 2 fratelli, in primo luogo perché dalla documentazione acquisita risultava che tale impresa aveva tutt’altro oggetto (vendita di abiti da sposa) rispetto al commercio dei prodotti ortofrutticoli, ed inoltre poiché nell’ambito della detta società il convenuto (titolare del solo 20% delle quote) non risultava rivestisse ruoli direttivi (come quelli di socio di maggioranza o di amministratore unico).
Quanto all’utilizzo dii buste di plastica con la dicitura “More Remo” riteneva il Tribunale che neppure siffatto elemento fosse idoneo a connotare l’illecita attività concorrenziale, atteso che l’indirizzo ivi stampato (sito alla via Orsini n. 60 e non già all’indirizzo del supermercato alla via Orsini n. 122). Analoga opinione esprimeva in ordine alla distribuzione dei biglietti da visita, recanti nell’indirizzo il numero civico 60.
Per quanto riguarda la pubblicità radiofonica, dalla deposizione del titolare dell’emittente era risultato che quest’ultimo, di sua iniziativa e gratuitamente, aveva provveduto ad inserire il nominativo del More Remo senza che la ditta committente avesse approvato preventivamente il messaggio, sicché nessun atto di sviamento della clientela poteva imputarsi al convenuto, neppure sotto tale profilo. Inoltre, rilevava il Tribunale che dallo svolgimento dell’attività degli investigatori incaricati dall’attore non era possibile acquisire elementi di prova di segno favorevole alla sua tesi, dato il ridotto arco di tempo dell’osservazione, in base al quale poteva ritenersi accertata una presenza solo saltuaria del More nel reparto del supermercato. Infine, con riferimento alle risultanze della consulenza tecnica di ufficio riteneva il primo Giudice che comunque non poteva giudicarsi comprovato il danno lamentato dall’attore in conseguenza dell’asserita illecita concorrenza. Con atto di citazione notificato in data 23.3.2004 proponeva appello il Mezzabarba, il quale svolgeva motivi di censura a sostegno dell’impugnazione. Resistevano al gravame gli appellati, chiedendone il rigetto. La Corte d’appello dell’Aquila, in accoglimento dell’appello ed in riforma della impugnata sentenza, dichiarava Remo More responsabile della violazione del divieto di concorrenza ex art. 2557, co. 1, c.c., ed Ivana More, quest’ultima quale titolare della ditta “Mule Idee”, responsabile di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c., ai danni di Roberto Mezzabarba; condannava Remo e Ivana More al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, in favore di Roberto Mezzabarba, della somma di € 46.481, con accessori; condannava Remo e Ivana More al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Avverso la detta sentenza ricorre per cassazione Morè Remo sulla base di due motivi cui resiste con controricorso il Mezzabarba.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente contesta la sentenza impugnata deducendo che questa aveva erroneamente ritenuto sussistere atti di concorrenza sleale ex art. 2557 c.c. perché esso ricorrente, cedente di una azienda per il commercio di prodotti ortofrutticoli, era poi divenuto socio di minoranza di una società che commerciava in diverse tipologie merceologiche di cui solo una nella misura del 25% era costituita da prodotti ortofrutticoli. Deduce ulteriormente il ricorrente che l’art. 2557 c.c., in quanto norma eccezionale, non sarebbe suscettibile di interpretazione analogica come invece sostiene essere avvenuto nel caso di specie.
(Omissis).
Il primo motivo è infondato. Va disattesa la tesi difensiva secondo cui l’art. 2557 c.c. avrebbe natura eccezionale con esclusione, quindi, della sua applicazione in via analogica. La giurisprudenza di questa Corte ha affermato il principio contrario ribadendo che la disposizione contenuta nell’art. 2557 c.c., la quale stabilisce che chi aliena l’azienda deve astenersi, per un periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta, appropriandosi nuovamente dell’avviamento, non ha il carattere dell’eccezionalità in quanto con essa il legislatore non ha posto una norma derogativa del principio di libera concorrenza, ma ha inteso disciplinare nel modo più congruo la portata di quegli effetti connaturali al rapporto contrattuale posto in essere dalle parti (Cass. 27505/08; Cass. 9682/00; Cass. 549/97; Cass. 1643/98).
È stato pertanto affermato che non è esclusa l’estensione analogica del citato art. 2557 c.c. all’ipotesi di cessione di quote di partecipazione in una società di capitali, ove il giudice del merito, con un’indagine che tenga conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso concreto, accerti che tale cessione abbia realizzato un “caso simile” all’alienazione d’azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda (Cass. 27505/08; Cass. 9682/00; Cass. 549/97; Cass. 1643/98). Tale principio di portata generale è applicabile tanto sotto il profilo della titolarità apparente dell’azienda in effetti ceduta che sotto quello in cui il venditore inizi a svolgere una attività commerciale concorrente avvalendosi di schermi societari per dissimulare la propria posizione.
Sono poi inammissibili le ulteriori censure contenute nel primo motivo di ricorso in base alle quali il ricorrente sostiene che il fatto di essere divenuto socio di minoranza di una impresa familiare che commerciava in diverse tipologie merceologiche, di cui solo una nella misura del 25% era costituita da prodotti ortofrutticoli costituenti l’oggetto dell’azienda da lui ceduta, escludeva la violazione dell’art. 2557 c.c. Questa Corte ha a più riprese affermato che il divieto sancito dall’art. 2557 c.c. riveste carattere di relatività: nel senso che, pur nel limite temporale da essa previsto (cinque anni), e pur nell’ambito dell’identica attività mercantile, l’operatività del divieto rimane subordinata a un giudizio d’idoneità (della nuova impresa a sviare la clientela di quella ceduta), che va apprezzato caso per caso dal giudice con riguardo all’ubicazione (della nuova impresa) e ad ogni altra circostanza influente, e che non può, per sua stessa natura, non assumere carattere discrezionale (Cass. 2225/75; Cass. 549/97; Cass. 1643/98; Cass. 27505/08; Cass. 9682/00).
Nel caso di specie, la Corte d’appello con argomentazione adeguata ed esaustiva ha accertato che il Morè pochi mesi dopo la cessione dell’azienda al Mezzabarba era entrato con una quota minoritaria del 20% nella impresa familiare, la cui quota di maggioranza (51%) era detenuta dalla sorella e di cui faceva parte anche la moglie del ricorrente ed il nipote, che gestiva minimercati alimentari sulla medesima strada dell’azienda ceduta ed a poca distanza da essa. La Corte d’appello ha accertato poi sulla base degli elementi acquisiti in giudizio, che il Morè ha di fatto gestito in proprio il settore ortofrutticolo del supermercato ove era giornalmente presente provvedendo agli acquisti dei prodotti, all’allestimento dello stand, a sottoscrivere le bolle ed a consigliare i clienti. Inoltre il nome del ricorrente veniva pubblicizzato radiofonicamente ed era impresso sulle buste di plastica usate per contenere i prodotti ortofrutticoli ove era riportato anche l’indirizzo dell’esercizio ceduto al resistente. Trattasi di valutazione in fatto che siccome adeguatamente motivata sotto il profilo logico-giuridico non si presta a sindacato in sede di legittimità. Le censure che il ricorrente muove a siffatta motivazione tendono in realtà a prospettare una diversa interpretazione delle risultanze processuali investendo in tal modo il merito della decisione.
(Omissis)
Il ricorso va in conclusione respinto. Il ricorrente va di conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio (Omissis).
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Con la sentenza in commento la Cassazione ha per la prima volta ritenuto applicabile in via analogica il divieto di concorrenza di cui all’art. 2557 c.c. all’ipotesi in cui colui che ceda l’azienda inizi successivamente a svolgere un’attività commerciale in concorrenza non in qualità di imprenditore individuale ma «avvalendosi di schemi societari per dissimulare la propria posizione di concorrente». In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto violato il divieto di cui all’art. 2557 c.c. da parte di un soggetto il quale, dopo aver ceduto un esercizio commerciale per la vendita di frutta e verdura, successivamente era entrato a far parte, insieme ad altri familiari e con una quota del 20%, di una società che gestiva minimercati alimentari – il cui ambito merceologico era rappresentato per il 25% da frutta e verdura – sulla medesima strada dell’azienda ceduta, gestendo personalmente il reparto ortofrutticolo e pubblicizzando il proprio nome su una radio locale e sulle buste della spesa.
Secondo il 1° comma dell’art. 2557 c.c. «chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta». La ratio di questa disposizione è di impedire che l’alienante, approfittando del fatto di essere con tutta probabilità ormai conosciuto dalla clientela, possa sottrarre all’acquirente l’avviamento [1] appena cedutogli (anzi, potrebbe dirsi, a “porre nel nulla” la cessione dell’avviamento – perché la clientela, rimanendo per lo più legata alla persona del venditore, non viene in realtà mai trasferita all’acquirente – o perlomeno a “comprometterla seriamente”) [2], acquisendo così un ingiusto vantaggio concorrenziale [3]. Il 2° comma dell’art. 2557 c.c. – affermando che «il patto di astenersi dalla concorrenza in limiti più ampi di quelli previsti dal comma precedente è valido, purché non impedisca ogni attività professionale dell’alienante» e non ecceda la durata di cinque anni dal trasferimento – si pone in rapporto di specialità non rispetto al 1° comma dello stesso art. 2557 c.c. (che pone un obbligo e non disciplina un patto) ma rispetto all’art. 2596 c.c. (patto di non concorrenza) [4], perché detta delle regole relative ad un particolare patto di non concorrenza (quello concluso fra l’acquirente di un’azienda e il suo alienante), stabilendo che tale patto possa prevedere limitazioni della libertà individuale di concorrenza più ampie (il limite temporale di cinque anni è lo stesso [5], ma non si fa riferimento ad una zona o ad una attività, richiedendosi soltanto che non venga impedita “ogni attività professionale dell’alienante” [6]; inoltre il patto non deve necessariamente essere provato per iscritto) rispetto a quelle tollerate e ammesse dall’art. 2596 c.c. L’art. 2557 c.c. deve altresì considerarsi come una esemplificazione del principio di correttezza professionale di cui all’art. 2598 c.c. (a sua volta espressione del principio di buona fede, correttezza, [continua ..]
È controverso se, come nel caso sottoposto alla Cassazione nella sentenza in commento, l’art. 2557 c.c. possa trovare applicazione in via analogica, così ad esempio in caso non di alienazione di azienda, ma di cessione di quote o azioni di una società. Le conseguenze di questa scelta interpretativa sono rilevanti: nel caso in cui infatti si ritenga che l’art. 2557 c.c. non sia suscettibile di estensione in via analogica, nell’ipotesi di cessione di quote o azioni di una società (anche se per ipotesi si trattasse del 99% del pacchetto azionario) non farebbe capo al cedente alcun obbligo ex lege di astensione dalla concorrenza, e, in caso di stipulazione di un patto di non concorrenza tra alienante e acquirente, questo sarebbe sottoposto ai limiti (meno rigidi, come si è visto, rispetto a quelli previsti dal 2° comma dell’art. 2557 c.c.) di cui all’art. 2596 c.c. (che è norma generale in materia [11]). Viceversa, qualora si ritenga che tale disciplina sia applicabile in via analogica, essa potrebbe valere anche in caso di cessione di quote e ad essa potrebbe farsi riferimento tutte le volte in cui si realizzi un risultato equivalente ad una cessione di azienda, e pertanto anche nell’ipotesi di cessione di una quota rilevante (tale cioè da determinare un trasferimento del centro decisionale delle scelte strategiche dell’azienda) o azioni di una società, come è stato deciso in passato, oppure per il socio recedente, oppure ancora, come nell’ipotesi della sentenza in commento, quando colui che ceda l’azienda inizi a svolgere un’attività commerciale in concorrenza non in qualità di imprenditore individuale ma in qualità di socio, o ancora nell’ipotesi della restituzione di un’azienda concessa precedentemente in affitto [12]. La giurisprudenza fino agli anni ottanta considerava l’art. 2557 c.c. norma eccezionale rispetto all’art. 2596 c.c.: pertanto – pur regolando l’ipotesi simile dell’alienazione di azienda – non poteva trovare applicazione in via analogica al caso di cessione di quote o azioni di società, e ciò quand’anche la società fosse composta da due soci ed uno di essi avesse venduto le proprie quote all’altro [13]. Successivamente la giurisprudenza ha subito un [continua ..]
Il problema oggetto della sentenza permette di svolgere una ulteriore riflessione, consistente nell’evidenziare come, nella prospettiva del diritto della concorrenza, la soluzione favorevole all’applicabilità in via analogica della disciplina dell’art. 2557 c.c. è del tutto coerente con i principi che ispirano tale branca del diritto, rivolta a regolare il mercato e dunque necessariamente orientata a prendere in considerazione, dal punto di vista giuridico, la sostanza delle operazioni economiche. Ciò perché se è vero che l’atto di disposizione di quote o azioni di una società non ha formalmente per oggetto l’azienda, e se è pure vero che l’essere socio di una società non corrisponde ad essere imprenditore individuale, è altrettanto vero che il diritto della concorrenza – regolando rapporti economici tra soggetti che si muovono su un mercato – prende in considerazione l’effetto concreto che la cessione comporta, ovverosia il sostanziale trasferimento di un’azienda da un soggetto ad un altro. In altre parole, al fine dell’accertamento della sussistenza del divieto di concorrenza dell’alienante che deriva ex lege da un trasferimento di azienda, non interessa la costruzione giuridica mediante la quale sia stato effettuato questo trasferimento; rileva invece il risultato dell’effettivo passaggio di disponibilità dei beni aziendali [22]. Questa prospettiva è in effetti quella propria della giurisprudenza antitrust [23] che, proprio sulla base della premessa che ciò che interessa è la sostanza del risultato economico [24], ad esempio considera i gruppi di società come fossero un’unica impresa e assimila agli accordi formali i c.d. “gentlemen’s agreements” [25]. Proprio però perché, in tale prospettiva, occorre guardare alla sostanza dell’operazione economica posta in essere dalle parti, perché possa ritenersi possibile l’applicazione in via analogica dell’art. 2557 c.c. ci si deve comunque trovare di fronte ad un trasferimento di azienda effettivo, non essendo invece sufficiente la mera perdita della qualità di socio, perché altrimenti non avrebbe senso dettare una disposizione, come quella dell’art. 2301 c.c., che prevede un divieto di [continua ..]
Deve ritenersi che l’art. 2557 c.c. sia suscettibile di essere applicato in via analogica, tutte le volte in cui sia possibile rinvenire la medesima ratio, circostanza peraltro che deve essere valutata con particolare attenzione, in ragione dei molteplici significati che può assumere la cessione d’impresa. Il problema infatti non è solo e non è tanto quello di verificare se effettivamente – come può ad esempio accadere nel caso della cessione di quote di una società o di recesso del socio di maggioranza – vi sia stato sostanzialmente un trasferimento dell’azienda, ma anche e soprattutto controllare se ricorra la stessa ratio ispiratrice della norma, ossia il pericolo che l’acquirente possa agevolmente e senza particolari meriti imprenditoriali tornare in possesso della clientela ceduta con l’azienda. Quando tale pericolo non vi sia, come ad esempio nell’ipotesi di cessione di quote di società dotata di un marchio che disponga di una forte attrattiva per la clientela, non sembra possa procedersi all’applicazione dell’art. 2557 c.c. in via analogica, perché obbligare il cedente a non fare concorrenza alla società ceduta significherebbe impedirgli irragionevolmente di esplicare la propria libertà di iniziativa economica. Questa conclusione sembra confortata dall’assenza di una norma analoga all’art. 2557 c.c. in altri importanti ordinamenti giuridici (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Spagna, Germania), ove, partendo dalla constatazione che non si possa a priori stabilire le fattispecie in cui il trasferimento di azienda necessiti realmente di un divieto di concorrenza per impedire al cedente di riappropriarsi della clientela ceduta, si è infatti preferito non dettare una norma – sia pure dispositiva – che obbligasse il cedente, in ogni caso di trasferimento di azienda, ad astenersi dal fare concorrenza al cessionario ma si è lasciato all’autonomia delle parti, mediante la possibilità di concludere un apposito patto in tal senso, il compito di individuare le ipotesi in cui occorre limitare la concorrenza. Il bisogno di stipulare un apposito patto attribuisce inoltre alle parti una maggiore consapevolezza circa il sacrificio compiuto dal cedente nell’astenersi dal compiere atti di concorrenza, consapevolezza che viene [continua ..]