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1. La fattispecie. - 2. Il problema. - 3. La 'riferibilità' - 4. La volontà unitaria. - 5. L’interesse comune. - 6. Limitazioni ulteriori. - Nota bibliografica
Una vicenda giurisprudenziale non molto lontana nel tempo dà modo di cogliere un aspetto problematico del fenomeno dei gruppi imprenditoriali diverso dai profili regolati nel codice civile dopo la riforma del 2003, che sono, essenzialmente, la tutela dei soci di minoranza e la tutela dei creditori delle società sottoposte ad altrui direzione e coordinamento. Questa volta la norma si trova davanti all’esigenza di evitare che la libertà di organizzare un’iniziativa economica frammentandola fra più società, e quindi la facoltà di moltiplicare gli enti giuridici cui si imputa un’impresa, consenta ai privati di eludere norme di ordine pubblico, e comunque norme poste per realizzare istanze prevalenti rispetto agli interessi organizzativi e imprenditoriali soddisfatti con lo strumento del gruppo. Nella fattispecie sulla quale si sono pronunciate le Sez. Un. della Corte di Cassazione il rappresentante legale di tre società appartenenti allo stesso gruppo industriale conferisce ad un professionista l’incarico di studiare la strategia giuridica da seguire per far sì che in un momento particolarmente critico il socio di comando conservi il controllo delle società del gruppo. I rapporti fra il consulente e le società del gruppo sono intensi e frequenti, e ciò spiega perché, quando affida l’incarico professionale all’avvocato, il presidente dei tre c.d.a. non spende il nome di una, di due o di ciascuna delle tre società per le quali egli ha contemporaneamente il potere di agire. Di lì a breve l’autorità di vigilanza chiede a due società del gruppo di rendere note al pubblico alcune informazioni, ed in particolare di comunicare al mercato se esse abbiano allo studio iniziative volte a conservare il controllo di una società industriale. Le società emettono, dunque, un comunicato, che è predisposto, oltre che da un terzo esponente, dal presidente delle tre società e dal consulente di cui si è già detto, nella sua veste di amministratore di una delle due società, ma, ancor di più, di nuovo, quale consulente delle società alle quali la Consob ha rivolto il suo ordine. Le due società ingiunte omettono di inserire nel comunicato la notizia relativa all’attività di studio svolta dal professionista, e nei giudizi successivi, nei [continua ..]
A chi vi riflette può sembrare che la clausola di “appartenenza al gruppo”, desumibile da questo capo della sentenza, rischi di divenire un’arma fin troppo appuntita nelle mani degli interpreti, che avrebbero modo di riferire ad un ente situazioni giuridiche conseguenti a comportamenti di un altro ente, se appartenente allo stesso gruppo. Vi è il pericolo che in tal modo si frustri il gruppo, inteso come strumento di imputazione dell’attività giuridica di cui la legge consente che i privati facciano uso, onde vi è da chiedersi quando una siffatta operazione interpretativa sia corretta sul piano interpretativo e davvero opportuna in una prospettiva di politica del diritto. La decisione va esaminata sotto due profili: in primo luogo, occorre spiegare come si perviene al risultato di imputare ad una società l’obbligo di dare notizia di un’attività che è stata compiuta da un’altra società. E, in secondo luogo, è necessario stabilire quando abbattere le barriere fra i soggetti del gruppo, e quindi quando far prevalere la realtà della unità del gruppo sulla forma delle distinzioni soggettive.
Il primo problema non sarebbe nemmeno sorto se il giudice del merito e poi il giudice di legittimità avessero scelto una impostazione tradizionale e cioè se si fossero posti sul piano della rappresentanza, e, impegnandosi nella interpretazione del contratto di prestazione d’opera, avessero accertato in nome di quale o di quali delle tre società di cui aveva la rappresentanza si dovesse ritenere che il presidente avesse agito, pur non spendendone espressamente il nome. Ed è possibile che allora il ricorrente avrebbe avuto buon gioco nel sostenere che il mandato professionale era stato commissionato proprio dalla terza società, quella che pose effettivamente in essere la strategia elaborata dal consulente per mantenere il controllo del gruppo in capo al socio di comando, che era poi l’unica delle tre società che non fu chiamata ad emettere alcun comunicato. In effetti i giudici della S.C. non seguono questa via anche perché, come si è detto, in un primo momento era pacifico fra le parti che l’incarico professionale era stato conferito dal gruppo e nell’interesse del gruppo. È questo il motivo per cui le Sez. Un. deplorano che ora il ricorrente eccepisca che la prima consulenza (quella mirata a difendere il controllo) fu svolta per incarico di una società diversa dalla società per la quale fu eseguita la seconda consulenza (la consulenza avente ad oggetto la redazione del comunicato). Ma, una volta che il giudice del merito non ha seguito questa via, non può farlo nemmeno la cassazione, la quale è quindi costretta a foggiare lo strumento concettuale della “riferibilità”, e a sostenere che, a prescindere dalla rappresentanza, il primo mandato professionale, e quindi lo studio nel quale esso si concluse, era “riferibile” a tutte le società del gruppo, a prescindere dalla individuazione della società che effettivamente stipulò il contratto. Per ottenere questo risultato la corte postula che, ai fini dell’accertamento dell’illecito amministrativo di manipolazione del mercato, quando una persona fisica opera all’interno del gruppo, non sarebbe rilevante l’esistenza di un rapporto di servizio con uno specifico ente, ma sarebbe sufficiente “un collegamento oggettivo fra la violazione e la persona fisica”. Cioè, par di capire, per giudicare della [continua ..]
Peraltro, non vi è ragione di credere che la S.C. intenda “riferire” ad ogni società del gruppo ogni situazione giuridica di ogni altra società, e che quindi voglia sistematicamente unificare le figure soggettive interne al gruppo e i rispettivi patrimoni. È plausibile, invece, che tale operazione sia riservata a fattispecie particolari. I criteri che la corte sembra indicare per delimitare tali fattispecie sono la volontà unitaria e l’interesse comune alle società del gruppo. La sentenza parla di volontà unitaria in riferimento al fatto che all’interno del gruppo vi è un accentramento del potere decisionale, e lo desume essenzialmente dal fatto che le tre società sono presiedute dalla stessa persona fisica. Avviene quindi che talune decisioni (nel nostro caso, il conferimento del mandato di studio e la redazione del comunicato al pubblico) siano assunte non tanto dalla capogruppo e poi imposte alle società controllate (come, in fondo, presuppone la disciplina del codice), quanto invece da una persona fisica nella quale si cumulano più investiture organiche. Per questa ragione e in questo senso appare formalistico alla corte distinguere di volta in volta sotto quale “cappello” la medesima persona fisica ha preso una decisione, e, viceversa, pare necessario riconoscere che i procedimenti decisionali delle società si sovrappongono e coincidono in una “unitarietà di intenti”. La Corte non ravvisa propriamente una coincidenza delle società, come se vi fosse una sorta di “fusione parziale” delle società, né intende imputare al “decisore reale” una volontà formalmente ascrivibile ad un altro ente, superando il velo della distinzione soggettiva. E nemmeno configura un nuovo soggetto, il gruppo, che “incorpora” (in tutto o in parte) le società che ne fanno parte, dando luogo ad un patrimonio ulteriore. Procede, piuttosto, ad imputare contemporaneamente a più soggetti taluni atti. Vi è un fenomeno di “imputazione plurima”, che scaturisce dal carattere unitario della volontà.
Ma perché si abbia questa “contitolarità” sembra essere richiesta anche l’esistenza di un interesse del gruppo, o di un interesse collettivo, che dir si voglia, nel senso che ciascuna delle società sia direttamene e singolarmente interessata al compimento dell’atto, e non nel senso che si configuri un interesse superiore a quello di ciascuna società, o che l’interesse di società capogruppo prevalga su quello delle società controllate. Pertanto l’unificazione delle società e dei loro patrimoni avverrebbe soltanto in relazione agli atti decisi “orizzontalmente” nel gruppo e limitatamente alle iniziative che toccano un interesse che fa capo a ciascuna società del gruppo. In questi casi opererebbe la clausola di “appartenenza al gruppo”, con la conseguente contitolarità degli atti.
Se ci si pone in questa linea interpretativa può essere opportuno adottare una lettura restrittiva della decisione, per giungere ad una applicazione limitata della clausola in discorso. Penserei quindi che l’interprete possa procedere all’imputazione plurima soltanto quando, in una ottica economica o, per usare il linguaggio dell’art. 2497 c.c., soltanto quando la “corretta gestione societaria e imprenditoriale” non richiede che l’atto sia compiuto da una società a preferenza di un’altra, ma soltanto quando l’atto può essere compiuto indifferentemente da ciascuna società, perché non afferisce all’impresa di una, più che all’impresa di un’altra società, o perché afferisce indistintamente a ciascuna impresa. Inoltre, l’imputazione plurima appare giustificata quando l’interesse tutelato dalla norma che rischia di essere disapplicata per mezzo del meccanismo del gruppo, cioè per via del frazionamento dei soggetti, è giudicato poziore rispetto all’interesse imprenditoriale (e quindi all’interesse all’efficienza economica) perseguito mediante il gruppo stesso. Nel nostro caso è apparso alla corte prevalente l’interesse alla repressione della manipolazione del mercato finanziario rispetto all’interesse economico del gruppo. In questi limiti la posizione della corte potrebbe essere condivisa, anche se non sarebbe affatto debole la posizione “ortodossa”, secondo la quale l’imputazione plurima può esservi soltanto se questa è la volontà effettiva delle parti, mentre negli altri casi è onere della legge disporre puntualmente (ciò che non preclude all’interprete di argomentare per analogia) che una norma rivolta ad un ente si applica anche alle società controllate o controllanti, o comunque ad altre società appartenenti al gruppo.