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1. Introduzione - 2. I criteri per l’accertamento dell’irragionevolezza del compenso - 3. Abusi nella determinazione dei compensi. Rimedi invalidatori: cenni - 4. Eccessività sopravvenuta del compenso. La rinegoziazione - 5. Le conseguenze del fallimento della rinegoziazione - 6. (Segue). Adeguamento giudiziale del compenso - 7. La risoluzione del contratto - NOTE
In un contesto, quale quello attuale, che ha visto il succedersi di crisi e dissesti finanziari, rispetto ai quali l’uso distorto della leva retributiva risulta aver avuto un’incidenza non trascurabile, le questioni concernenti la misura dei compensi e l’individuazione dei rimedi attivabili a fronte di abusi ed eccessi retributivi hanno assunto una rilevanza centrale 1. La criticità di simili temi si lascia, del resto, particolarmente apprezzare avendo riguardo al rilievo che il sistema retributivo assume nell’ambito della corporate governance 2, trattandosi di uno dei fattori maggiormente in grado di incidere sulla condotta degli amministratori – per la funzione non solo retributiva, ma di incentivo a gestioni efficienti che esso è chiamato a svolgere – 3. Al contempo, la materia si presenta fortemente esposta al rischio di conflitti di interesse e abusi da parte dei gestori, spesso interessati a percepire retribuzioni elevate più che a perseguire l’interesse sociale di lungo periodo 4. Di qui l’esigenza di individuare adeguati correttivi, operanti sia in via preventiva – in termini di trasparenza e coinvolgimento di azionisti, amministratori indipendenti e comitati nel processo di determinazione dei compensi 5 – sia in via successiva, in punto di rimedi azionabili quando, nonostante dette cautele preventive, abusi retributivi si siano verificati 6. Il lavoro si soffermerà proprio su questi ultimi profili. Dopo aver ricostruito (alla stregua dei prevalenti orientamenti) i criteri a cui far riferimento al fine di dare concretezza al concetto di (ir)ragionevolezza dei compensi (che, come si dirà, condiziona la stessa legittimità dell’assegnazione), e dopo aver brevemente rammentato (in ragione del limitato spazio a disposizione) i rimedi azionabili sul piano invalidatorio a fronte di delibere determinative di compensi irragionevoli, si indagheranno in particolare gli strumenti di tutela attivabili dalla società nei casi in cui la remunerazione, originariamente congrua, divenga in corso di mandato irragionevole e lesiva degli equilibri patrimoniali dell’impresa (per il peggioramento delle sue condizioni ovvero alla luce delle negative performance gestorie).
I problemi di agenzia 7 che caratterizzano il rapporto tra società e amministratori rendono elevato, come detto, il rischio di conflitti di interesse nella determinazione – e gestione – del compenso e, in particolare, il pericolo che esso si risolva in uno strumento di indebita estrazione di “benefici privati” in danno della società e degli azionisti (di minoranza) 8. Tradizionalmente, l’attenzione degli interpreti (e la gran parte delle pronunce giurisprudenziali) si è concentrata sul “momento deliberativo” iniziale dell’assegnazione, andando alla ricerca, in particolare, di criteri e indici di riferimento grazie ai quali vagliare la congruità dell’emolumento e, conseguentemente, sindacare la legittimità della relativa delibera attributiva. Nel nostro ordinamento, invero, la determinazione di compensi “adeguati” o “ragionevoli” non forma oggetto di un esplicito obbligo di legge la quale, peraltro, neppure specifica i parametri in base ai quali detta “adeguatezza” retributiva può ritenersi in concreto soddisfatta (salve le indicazioni poste, per le società soggette a vigilanza, dalla normativa secondaria emanata dalla Banca d’Italia e dall’Ivass) 9. Il criterio di riferimento usualmente adottato dagli interpreti al fine di verificare la congruità dell’assegnazione si identifica, dunque, con un (in sé indeterminato) principio di ragionevolezza 10, assunto a fattore condizionante la stessa legittimità dell’emolumento e ad elemento da cui desumere il suo eventuale carattere dannoso per la società, in thesi gravata di un onere (appunto irragionevole e) non giustificato – nell’interesse sociale –. Posta al centro del ragionamento la ragionevolezza del compenso, la questione si appunta, conseguentemente, sui parametri in base ai quali essa può essere accertata 11: si tratta, infatti, di un concetto a “carattere relazionale” 12, la cui verifica postula l’individuazione di indici oggettivi a cui ancorare il relativo giudizio così da evitare che questo, pur se teso ad accertare un vizio di illegittimità, si risolva in un indebito sindacato nel merito delle scelte sociali 13. Il riferimento alla ragionevolezza appare, del resto, coerente con [continua ..]
In sede deliberativa 28, gli abusi possono assumere, invero, connotati diversi, potendo manifestarsi in termini quantitativi e in danno del patrimonio sociale (sub specie di eccessività dell’emolumento) ovvero, in presenza di un socio (o gruppo) di controllo (al contempo amministratore o a questi legato da peculiari rapporti) 29, in funzione di un’indebita appropriazione di utili, o, ancora, in caso di compensi azionari, come mezzo per un (abusivo) rafforzamento della partecipazione (e diluizione delle minoranze) 30. Secondo l’orientamento dominante, a fronte di delibere determinative di compensi irragionevoli, i rimedi esperibili sul piano reale sono costituiti: (i) in relazione alle delibere assembleari (art. 2389, 1° comma, c.c.) 31, alternativamente dall’annullamento per conflitto di interessi exart. 2373 c.c. (ove la delibera sia adottata con il voto determinante del socio-amministratore beneficiario) 32 o per abuso di potere (della maggioranza) 33, qualora il deliberato, pur non arrecando (necessariamente) danno alla società, risulti ispirato (non all’interesse sociale, ma) a interessi particolari (della maggioranza), in pregiudizio della minoranza; (ii) rispetto alle delibere consiliari (art. 2389, 3° comma, c.c.) 34, dall’annullamento ex art. 2391, 3° comma, c.c., in caso di violazione degli obblighi di disclosure o motivazione posti da tale norma (1° e 2° comma) o di voto determinante del gestore interessato, purché la decisione risulti (potenzialmente) dannosa per la società 35. Ai fini dell’impugnativa assume, in ogni caso, rilievo centrale (l’accertamento del)l’“irragionevolezza” dell’emolumento, che costituisce il fattore determinante l’illegittimità del deliberato: essa, nell’impugnazione per conflitto di interessi e in quella ex art. 2391, 3° comma, c.c. rileva come espressione del carattere lesivo del deliberato – sub specie di ingiustificato depauperamento del patrimonio sociale – 36. In quella per abuso, quale sintomo dell’abusiva preordinazione del voto – e della delibera – a interessi extrasociali (personali del socio amministratore) e dell’ingiusta lesione delle minoranze (senza necessità, in tal caso, di accertare [continua ..]
Rammentate le tecniche di tutela attivabili, sul piano invalidatorio, a fronte di compensi ab origine stabiliti in misura irragionevole, l’indagine si soffermerà a verificare i rimedi azionabili nelle ipotesi in cui il compenso, in origine congruo, divenga in seguito non più ragionevole ed eccessivamente oneroso per la società – per il peggioramento delle sue condizioni economiche o per il mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita attesi, o ancora per le (negative) performance del gestore –. La questione verte in definitiva sulla possibilità, per la società 40, di modificare o ridurre la remunerazione (in thesi divenuta oltremodo onerosa) in costanza di rapporto, o eventualmente di porre fine al rapporto stesso, a fronte di un sopravvenuto deterioramento patrimoniale (verificando in tal caso le conseguenze economiche di tale risoluzione, in termini ad es. di “buonuscita” dovuta al gestore) 41. Sul piano sistematico, la problematica si ricollega alla più generale questione della rilevanza giuridica e delle tecniche di gestione delle c.d. sopravvenienze, di quelle circostanze, cioè, non previste né regolate in sede contrattuale, che – come un sopravvenuto aggravamento della situazione sociale – intervengono durante la fase esecutiva del rapporto, provocando uno squilibrio dell’originario sinallagma. Il tema involge, invero, principi fondamentali, quale quello della vincolatività del consenso (pacta sunt servanda), della rilevanza della clausola rebus sic stantibus, della portata della buona fede esecutiva, e, per quanto qui in particolare interessa, dello stesso principio di ragionevolezza. Si tratta peraltro di un tema centrale anche sul piano sostanziale, atteso che alla base di numerosi dissesti vi è spesso proprio l’erogazione di compensi divenuti sproporzionati rispetto alle condizioni aziendali. Nella fattispecie, tali questioni hanno, del resto, particolare ragione di porsi in considerazione della natura – di durata – del rapporto gestorio 42, che si proietta nel tempo e, come tale, è esposto al rischio di eventi idonei ad alterarne l’equilibrio (ancor di più considerando l’alea caratterizzante l’attività imprenditoriale) 43. Di qui, l’esigenza di guardare alla relazione in una prospettiva dinamica, coerente [continua ..]
Posta l’esistenza del descritto diritto-dovere di rinegoziazione, deve precisarsi come esso, trattandosi di obbligazione di mezzi (e non di risultato), non comporti anche l’obbligo, per le parti, di raggiungere un nuovo accordo, ma solo quello di avviare e condurre in buona fede le trattative 76. In caso di esito negativo, il contratto potrà dunque essere risolto (consensualmente o giudizialmente), in quanto non più coerente con l’assetto di interessi avuto di mira dai contraenti. In tal senso, ove la rinegoziazione – tra società e gestore – fallisca (oltre che per il rifiuto del secondo di rinegoziare) per impossibilità di addivenire a una nuova intesa inter partes, e la continuata erogazione dei compensi originari finirebbe per compromettere irragionevolmente l’equilibrio economico-aziendale, l’impresa potrà (anche in tal caso) risolvere il rapporto, invocando una giusta causa di recesso 77. Invero, se in genere si esclude che meri motivi di convenienza economica integrino una giusta causa di recesso (revoca), lasciando così impregiudicato il diritto all’indennizzo del gestore, sembra auspicabile un superamento di tale indirizzo, quantomeno nei casi in cui vengano in rilievo qualificate istanze di tutela del patrimonio sociale (diverse da generiche esigenze di risparmio sui costi) e la situazione aziendale sia tale che l’erogazione del compenso pattuito risulterebbe pregiudicare la stessa integrità di quel patrimonio: ciò che impedirebbe, ragionevolmente, di ricondurre il recesso dell’impresa a semplici ragioni di convenienza o risparmio 78. Di qui, l’opportunità di un approccio diverso, che consenta di ravvisare nel grave, qualificatodeterioramento del contesto economico-aziendale (come nei casi di crisi o vera e propria insolvenza) e nella correlata necessità di salvaguardare l’equilibrio sociale una peculiare ipotesi di giusta causa oggettiva 79 di cessazione del rapporto, consentendo così alla società di porre fine alla relazione (divenuta eccessivamente onerosa) e sottrarsi al pagamento dell’indennizzo ex art. 2383 c.c. a favore del gestore revocato 80. D’altra parte, anche ove si negasse che dette evenienze integrino una giusta causa oggettiva di cessazione del rapporto, il [continua ..]
In alternativa allo scioglimento del vincolo, nel caso in cui la rinegoziazione fallisca o il gestore rifiuti di rinegoziare, è prospettabile un diverso rimedio, teso a evitare la risoluzione del rapporto e a ripristinarne l’equilibrio. Secondo un indirizzo affermatosi nella dottrina civilistica – pur se ad oggi controverso – e sulla scorta dei principi diffusi nella prassi dei contratti internazionali 81, dinanzi al rifiuto di una parte di rinegoziare un contratto divenuto squilibrato, ovvero in caso di fallimento della rinegoziazione, la parte gravata della sopravvenienza potrebbe adire l’autorità giudiziaria domandando – non la risoluzione, ma – l’adeguamento equitativo del rapporto 82. L’intervento del giudice si fonderebbe sul potere di equità integrativa (art. 1374 c.c.), operando in funzione correttiva di un rapporto squilibrato 83. Analoga azione potrebbe dunque prospettarsi nel caso de quo, riconoscendo alla società il diritto di chiedere al giudice la riconduzione a ragionevolezza del compenso divenuto incongruo per il sopravvenuto mutamento delle circostanze 84. Nella materia in esame, del resto, la possibilità di ricorrere a un simile rimedio appare sostenibile anche per ragioni di coerenza sistematica. Se, infatti, in genere si riconosce all’amministratore la cui remunerazione sia divenuta inadeguata (nel senso di insufficiente) – ad es. per un incremento delle mansioni – (o sia stata stabilita in misura ab origine incongrua o non sia stata tout court determinata), il diritto di adire il giudice per ottenerne la rettifica (in aumento) 85, non potrà non riconoscersi un corrispondente diritto a favore della società ove sia questa a lamentare l’inadeguatezza (in eccesso) della prestazione a suo carico. Ragioni di coerenza (e di giustizia sostanziale) inducono a riconoscere il medesimo rimedio in entrambe le ipotesi, tra loro sostanzialmente speculari. In sede di rideterminazione giudiziale del compenso troveranno peraltro applicazione gli stessi criteri di ragionevolezza (sopra indicati) che si impongono nella fase deliberativa iniziale (a cui la giurisprudenza generalmente ricorre, infatti, nei casi di omessa determinazione dell’emolumento da parte degli organi sociali), sia pur rapportandoli, in tal caso, alla nuova e mutata [continua ..]
In alternativa ai rimedi sopra descritti, ove la rinegoziazione fallisca (o una parte non intenda tout court rinegoziare 87, alla risoluzione del contratto sembra possibile pervenire, invero, anche invocando la “eccessiva onerosità sopravvenuta” della prestazione retributiva (a carico della società) o la presupposizione 88. Se è vero che il rapporto amministrativo è sempre risolvibile ad nutum dalla società – salvo l’eventuale il pagamento dell’indennizzo ex art. 2383 c.c. – la prospettazione di tali strumenti risolutori risponde essenzialmente all’esigenza di individuare rimedi e percorsi ulteriori che, in alternativa all’impostazione (sopra descritta) tesa a ricostruire specifiche ipotesi di giusta causa di recesso della società (così da escludere qualsivoglia obbligo indennitario), consentano comunque a quest’ultima di porre fine alla relazione senza dover indennizzare l’amministratore. Quanto alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, tale rimedio è accordato, come noto, nei casi in cui, in pendenza di un rapporto (di durata), intervengano circostanze che alterino l’equilibrio economico tra le prestazioni, esponendo una parte a un sacrificio maggiore rispetto a quello assunto e preventivato: ciò, purché lo squilibrio sia dovuto a eventi straordinari e imprevedibili e salvo si tratti di contratti aleatori. In questi casi, la parte onerata dalla sopravvenienza può dunque chiedere la risoluzione, sul presupposto che, con il contratto, il contraente assume solo il rischio di eventi che alterino il valore delle prestazioni secondo un canone di normalità e prevedibilità al momento della stipulazione. Una valorizzazione della ratio del rimedio e un’interpretazione elastica delle condizioni per la sua azionabilità possono consentirne l’attivazione, a ben vedere, anche nel caso de quo. In senso contrario, invero, potrebbe invocarsi l’aleatorietà dell’attività d’impresa, osservando, in particolare, che se il rischio imprenditoriale è a carico degli azionisti questi dovrebbero sopportare (anche) quello che il costo dei fattori di produzione, nella specie dei compensi gestori, aumenti e divenga fortemente gravoso. Ciò che porterebbe ad escludere [continua ..]