In commento a due recenti provvedimenti rispettivamente del Tribunale e della Corte D’Appello di Brescia, il contributo analizza il tema della conferibilità di criptovalute nel capitale sociale di una s.r.l. L’indagine, ponendosi in senso critico rispetto ai provvedimenti commentati, affronta i temi della qualificazione giuridica della criptovaluta in ambito societario e dei requisiti previsti dall’ordinamento per i conferimenti in natura, cercando di offrire all’interprete sia ragioni a sostegno della tesi della conferibilità, sia proposte operative in tema di valutazione economica e modalità di pignoramento delle criptovalute.
The paper analyzes the issue of the transferability of cryptocurrency to the capital of a s.r.l. by commenting two recent judgements issued by the Court of Brescia and the Court of Appeal of Brescia. The survey, which is critical in respect of the decisions adopted by the Courts, deals with the issues of the legal qualification of cryptovalues in the field of corporate law and the requirements provided by the law for assets contribution in capital, trying to offer both reasons in support of the thesis of transferability and operational proposals on the subject of economic evaluation and methods of enforcing the cryptovalues.
KEYWORDS: Limited liability company – Share capital – Transfer to a company – Cryptocurrencies – Estimate – Enforcement.
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1. Il caso - 2. Gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali - 3. Il commento: a) la natura della criptovaluta ai fini della conferibilità - 4. Segue: b) la valutazione economica - 5. Segue: c) la rilevanza dell’espropriabilità della criptovaluta ai fini del conferimento in capitale - 6. Conclusioni - NOTE
Le pronunce in commento hanno ad oggetto il ricorso ex artt. 2436, 3° comma e 2480 c.c., proposto dall’amministratore unico di una s.r.l. avverso il diniego del notaio rogante di provvedere all’iscrizione nel registro delle imprese di una delibera assembleare che aveva disposto l’aumento del capitale della società parzialmente mediante conferimento in natura di criptovaluta. In particolare, il notaio ha motivato il proprio diniego ritenendo la delibera non sufficientemente dotata dei requisiti di legittimità nella misura in cui le criptovalute, stante la loro volatilità non consentirebbero da un lato di determinare il quantum destinato alla liberazione dell’aumento di capitale; d’altro lato di effettuare una valutazione adeguata circa l’effettività del conferimento. Avverso tale diniego è ricorsa la società, facendo leva sulla perizia prodotta in sede di conferimento, la quale avrebbe in tesi confermato il valore della criptovaluta e il trasferimento della stessa in capo alla società, nonché fornendo ulteriori elementi al fine di dimostrare la valutabilità della criptovaluta, quali ad esempio la diffusione della valuta virtuale presso gli utenti di una determinata piattaforma online, ove essa viene comunemente accettata come mezzo di pagamento. Il Tribunale, con la preliminare – e significativa – precisazione che la pronuncia non è tesa a sindacare l’idoneità tout court del genus criptovaluta a costituire elemento attivo idoneo al conferimento nel capitale di una s.r.l., giunge a rigettare le domande proposte dalla ricorrente, ritenendo non sussistenti – nello specifico caso oggetto della pronuncia – i presupposti per la concessione del provvedimento ordinatorio richiesto. In particolare, il Collegio, dopo aver fissato, quale questione ancora preliminare alle considerazioni del notaio sotto il profilo della volatilità, l’indagine sulla possibilità stessa – ed ab origine – di attribuire un valore economico attendibile alla criptovaluta oggetto di conferimento, procede, sindacando la completezza e l’affidabilità della perizia resa ex art. 2465 c.c., a valutare la sussistenza dei requisiti previsti per il conferimento dei beni in natura. A tal proposito, il Collegio si [continua ..]
Il tema centrale dei provvedimenti del Tribunale e della Corte D’Appello di Brescia sopra riportati, costituito dalla conferibilità delle criptovalute nel capitale di un s.r.l., è agli esordi in dottrina e giurisprudenza. Nel panorama giurisprudenziale italiano, i provvedimenti oggetto di commento, i quali hanno negato, pur sulla base di argomentazioni differenti, la possibilità di effettuare un siffatto conferimento, risultano in tal senso essere i primi (e finora gli unici) che hanno avuto modo di analizzare specificamente il tema, anche in ragione della recente diffusione delle criptovalute e dell’ancora più recente utilizzo delle stesse in ambito societario. Esistono tuttavia talune pronunce che hanno analizzato dei profili, seppur differenti, attinenti alle criptovalute, in particolare in ambito fallimentare [1] e finanziario [2]. Dal punto di vista dottrinale, il tema della conferibilità della criptovaluta nel capitale sociale è stato affrontato in alcuni primi commenti ai provvedimenti oggetto della presente nota [3]; non risultano, tuttavia, al tempo in cui si scrive, essersi ancora formati dei veri e propri orientamenti dottrinali.
L’universo dei beni digitali è caratterizzato da una spiccata eterogeneità, da cui deriva l’importanza di un lessico appropriato, completo e soprattutto preciso, che consenta di designare univocamente le entità di cui si discorre e di distinguerle tra loro in modo chiaro. Purtroppo, sia nell’ambito informatico sia in quello giuridico, la terminologia è spesso usata con ambiguità: locuzioni come “criptovaluta”, “valuta virtuale”, “coin” e “token” sono frequentemente impiegate in modo promiscuo, con l’effetto di inquinare la percezione del fenomeno indagato dagli operatori. La stessa ambiguità colpisce le premesse del provvedimento esaminato, che nel valutare la conferibilità in astratto delle criptovalute non si sofferma a precisare il significato attribuito a tale vocabolo. La criticità della questione è diretta conseguenza della lacunosità del nostro ordinamento, che non solo tralascia di definire la criptovaluta, ma nemmeno la cita in un qualsiasi testo normativo. Esso conosce, all’interno della disciplina antiriciclaggio, solo il diverso termine “valuta virtuale” [4] e l’equivalenza tra i due concetti non è affatto scontata. La definizione di valuta virtuale, evidenziando tale funzione, pare comprendere i soli beni digitali utilizzati in via diretta e principale come mezzi di scambio (coin) [5], assimilabili sotto il profilo economico alla moneta. L’ampiezza del concetto di criptovaluta, invece, non è altrettanto chiara: è discusso in che relazione si ponga rispetto a quello di valuta virtuale, se esso sia più ampio, più ristretto o del tutto identico. Secondo una prima accezione, che potremmo definire estensiva, nella nozione di criptovaluta occorre comprendere sia il coin sia il token [6]. Col primo termine (coin) si fa riferimento, come si accennava, ai cryptoassets più conosciuti, quali bitcoin, ethereum e ripple, connotati dalla funzione di scambio e dall’assenza di un sottostante. Col secondo termine (token) si designano quelli meno noti, ma più numerosi e variegati, rappresentativi di diritti su beni o altre utilità e quindi caratterizzati dall’esistenza di un sottostante. Questa impostazione, dunque, porta a concludere che [continua ..]
Compresa la natura del conferimento di criptovalute, resta da indagarne l’ammissibilità e da ricostruirne la disciplina, specialmente sotto il profilo delle modalità estimative. In quest’ottica va ricordato che la riforma del 2003, modificando il 2° comma dell’art. 2464 c.c., ha introdotto la possibilità di conferire in s.r.l. qualsiasi elemento dell’attivo suscettibile di valutazione economica [34]. La dottrina ha perciò ritenuto che un’utilità economica possa formare oggetto di conferimento quando sia fonte di una situazione giuridica positiva per il patrimonio sociale e se ne possa attestare (e quantificare) il valore economico, da intendersi non come mera patrimonialità dell’oggetto (art. 1174 c.c.), ma come idoneità a formare valore anche per i terzi (non soci). In altri termini, il bene deve effettivamente concorrere alla formazione del capitale sociale, così da tutelare indirettamente i creditori sociali [35]. La criptovaluta, quale “rappresentazione digitale di valore”, è un bene la cui esistenza è autonoma rispetto alle vicende che riguardano il suo titolare, suscettibile di circolazione anche senza la sua collaborazione. Non si tratta certo di una prestazione, di un comportamento del soggetto, come testimoniato dal fatto che può essere oggetto di furto o di successione a causa di morte [36]. Le criptovalute sono quindi conferibili come beni in natura (non come opere o servizi): – in primo luogo, perché suscettibili di essere iscritte nell’attivo dello stato patrimoniale (all’interno di voci diverse, a seconda dell’attività svolta dalla società), al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta del patrimonio sociale (art. 2423, 2° comma, c.c.) [37]; – in secondo luogo, perché soddisfano un’esigenza produttiva, in quanto utili allo svolgimento di alcune attività economiche, soprattutto nel settore della tecno-finanza, sia come mezzi di scambio sia come forme di investimento (per il conseguimento di un capital gain). L’analisi va dunque proseguita sotto il profilo della loro idoneità, in concreto, ad essere economicamente valutate attraverso il procedimento di stima previsto dagli artt. 2343 e 2465 c.c. [38]. Come noto, il legislatore non individua un criterio cui [continua ..]
Il Tribunale di Brescia individua un ultimo motivo in forza del quale le criptovalute non sarebbero suscettibili di essere conferite nel capitale sociale di una s.r.l.: l’impossibilità di sottoporle ad espropriazione forzata; in particolare, la pronuncia esclude la conferibilità delle criptovalute poiché esse sarebbero in tesi inidonee ad essere “bersaglio” dell’aggressione da parte dei creditori sociali, non essendo, secondo il percorso argomentativo seguito nel decreto, neppure individuabili le modalità di esecuzione di un ipotetico pignoramento. La tesi non pare condivisibile per due ordini di ragioni: da un lato la presunta necessità che il bene, per essere conferito, debba essere suscettibile di espropriazione è stata largamente criticata (e deve considerarsi ormai superata) sia a livello dottrinario che giurisprudenziale; d’altro lato pare in ogni caso possibile individuare alcune modalità attraverso le quali eseguire un pignoramento su criptovalute (o, quanto meno, pare possibile individuare alcuni accorgimenti di natura tecnica e giuridica attraverso i quali assicurare ai creditori sociali le criptovalute oggetto di conferimento). Sotto il primo profilo si ricorda che la dottrina assolutamente maggioritaria ha da tempo preso le distanze dalla risalente teoria che individuava nel capitale sociale una naturale funzione di garanzia diretta per i creditori sociali [47]. In questo senso, la tesi ora prevalente, autorevolmente definita teoria produttivistica del capitale sociale [48], ritiene che esso non vada inteso in chiave garantistica nei confronti dei creditori sociali, bensì quale presidio della “produttività” dell’impresa sociale, assicurando la presenza e la conservazione nel patrimonio attivo di un insieme di valori corrispondenti alle entità idonee al conseguimento dell’oggetto sociale e al pagamento dei debiti sociali [49]; argomentando nel senso appena prospettato, i sostenitori di questa tesi ritengono conferibile nel capitale sociale qualsiasi entità suscettibile di essere valutata economicamente, a prescindere dal fatto che possa o non possa essere soggetta ad esecuzione forzata. Tale impostazione ha trovato conforto anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale, aderendo alla teoria suindicata, ha specificato che, nelle ipotesi di sottoscrizione di [continua ..]
Alla luce di quanto fin qui considerato, le pronunce esaminate non risultano essere condivisibili per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, il decreto del Tribunale di Brescia, pur qualificando condivisibilmente la criptovaluta quale bene in natura ai fini del conferimento in capitale, non convince nella misura in cui giunge, con motivazioni che appaiono superficiali, ad escluderne la conferibilità, alla luce dell’ipotizzata, ma non sufficientemente approfondita, assenza dei requisiti di valutabilità e di pignorabilità. In secondo luogo, il provvedimento della Corte D’Appello appare ancor più criticabile, a monte, per la qualificazione che propone della criptovaluta quale denaro, qualificazione che non può condividersi, quanto meno ai fini societari, ove per denaro non può che intendersi esclusivamente la moneta domestica, unica in grado di assicurare la costante corrispondenza fra conferimenti e capitale. Alla luce delle argomentazioni riportate in commento, la soluzione ermeneutica da ritenere pertanto preferibile è quella di considerare la criptovaluta quale bene in natura e quindi astrattamente sempre conferibile in capitale nel rispetto degli artt. 2465 ss. c.c. Il piano deve quindi spostarsi dall’esame di profili di carattere generale (conferibilità in astratto della criptovaluta) ad un’analisi casistica, e da condurre nel concreto, in relazione alle diverse criptovalute che i soci proporranno di conferire in capitale, al fine di comprendere se sussistono elementi sufficienti a determinarne la valutabilità economica, non ritenendo per altro verso rilevante l’ulteriore requisito rappresentato dalla pignorabilità (la quale deve ritenersi comunque, per le ragioni espresse, configurabile).