APPELLO MILANO, 18 aprile 2012 (ord.) – Tarantola Presidente – Carla Romana Raineri Relatore – B spa c. T.D. & C. sas – T.D.
Società – Cancellazione dal registro delle imprese – Cancellazione volontaria – Estinzione – Effetti sui giudizi pendenti tra un grado e l’altro di giudizio – Individuazione del soggetto legittimato alla prosecuzione – Impossibilità – Incostituzionalità – Non manifesta infondatezza.
(Art. 2495 c.c.; art. 328 c.p.c.; artt. 3, 24 e 111 Cost.)
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c. nella parte in cui non prevedono, in caso di estinzione della società per effetto di volontaria cancellazione dal registro delle imprese, che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società cancellata, sino alla formazione del giudicato. L’impossibilità di identificare un successore nel processo e nella res litigiosa in caso di estinzione della società per intervenuta cancellazione e, dunque, di un soggetto legittimato a stare in giudizio, nei cui confronti poter proseguire il processo, instaurando il giudizio d’impugnazione, viola non soltanto il principio di eguaglianza, di cui all’articolo 3 Cost., anche nelle sue declinazioni in termini di ragionevolezza – intesa come generale esigenza di coerenza dell’ordinamento giuridico – ma viola, altresì, i canoni fondamentali del giusto processo e del diritto alla difesa e alla tutela giurisdizionale di cui agli articoli 24 e 111 Cost. (1)
Premessa
Con sentenza n. 2992/07, pubblicata in data 15.3.07, il Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda dell’attrice T D & C. sas:
– dichiarava risolto il contratto di associazione in partecipazione intercorso fra B SpA e la T D & C. sas;
– condannava la convenuta B SpA alla restituzione in favore della T D & C. sas della somma di € 25.822,84, oltre interessi legali dalla domanda al saldo;
– dichiarava che nulla era dovuto da parte attrice a parte convenuta;
– respingeva le ulteriori domande dell’attrice;
– respingeva le domande riconvenzionali formulate dalla parte convenuta (aventi ad oggetto le somme versate a titolo di acconti sugli utili ed al conguaglio consuntivo degli anni 2001-2002);
– condannava la parte convenuta alla rifusione delle spese di lite.
Il 23 aprile 2008 B S.p.A. notificava a T S.a.s. citazione in appello denunciando la erroneità della sentenza sotto molteplici profili.
Nell’eseguire la notificazione dell’atto di appello B dava atto che la S.a.s. appellata si era cancellata dal Registro delle imprese a far tempo dall’8 aprile 2008.
L’atto di appello veniva notificato sia alla S.a.s. appellata presso il procuratore domiciliatario in primo grado, sia alla sig.ra D T, quale socia accomandataria e liquidatrice della s.a.s.
T sas si è costituita in giudizio (con mandato conferito al proprio difensore in tempo successivo alla cancellazione della società dal registro delle imprese) eccependo, fra l’altro, inammissibilità dell’appello per intervenuta estinzione della società appellata.
La socia accomandataria, parimenti costituitasi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità dell’impugnazione nei suoi confronti, per non essere stata parte del giudizio di primo grado e ritenendo insussistenti i presupposti di cui agli artt. 100 e 111 c.p.c.
Tanto premesso,
La nuova formulazione dell’art. 2495 c.c. ha dato luogo ad alcune pronunce della Corte di legittimità (cfr. Cass. n. 25192/08 e Cass. n. 18618/06 [entrambe citt. in nota 4]) che, in difformità all’orientamento sino a quel momento consolidato, hanno ritenuto che la novella legislativa avesse conferito alla cancellazione dal registro delle imprese l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società, anche in presenza di rapporti non definiti, ed anche laddove intervenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina, con conseguente perdita della sua capacità processuale.
È, poi, altrettanto noto che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, intervenendo a comporre un contrasto giurisprudenziale, hanno sancito il principio per cui il novellato art. 2495, 2º comma, c.c., ancorché dettato per le sole società di capitali nel contesto della riforma di cui al d.lgs. 6/2003, è applicabile anche alle società commerciali di persone: sicché la cancellazione della società dal registro delle imprese determina, con effetto immediato, l’estinzione delle società, indipendentemente dall’esistenza di crediti insoddisfatti o di rapporti ancora non definiti (Cass., sez. un., 22-02-2010, n. 4060). Il contrasto giurisprudenziale, sottoposto alle SS.UU. della Cassazione, è stato risolto (con le coeve pronunce nn. 4060, 4061 e 4062 del 22/2/2010 [citt. in nota 2]) con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
a) natura innovativa e ultrattiva dell’art. 2495 comma secondo c.c., che “disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1/1/2004), prevedendo a tale data la loro estinzione in conseguenza dell’indicata pubblicità e quella contestuale alle iscrizioni delle stesse cancellazioni per l’avvenire, riconoscendo, come in passato, le azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci dopo l’entrata in vigore della norma, con le novità previste dagli effetti processuali per le notifiche infrannuali della citazione”;
b) conseguente incidenza della nuova normativa sul pregresso orientamento giurisprudenziale di legittimità, fondato sulla natura non costitutiva della iscrizione della cancellazione;
c) riaffermazione della efficacia dichiarativa della pubblicità della cancellazione delle società di persone (esclusa, per ragioni logiche e di sistema, l’efficacia costitutiva di questa, “impossibile in difetto di analoga efficacia della loro iscrizione”) opponibile dall’1/1/2004 ai creditori che agiscano contro i sociex 2312 e 2324 c.c., con “presunzione del venir meno della capacità e legittimazione di esse operante negli stessi limiti temporali”, anche se perdurino rapporti o azioni in cui le stesse sono parti;
d) necessità, attraverso una lettura costituzionalmente orientata delle norme, di una “soluzione unitaria” del problema degli effetti della iscrizione della cancellazione di tutti i tipi di società o imprese collettive, a garanzia della parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società, coerente anche con la Legge fallimentare, art. 10 (ora art. 9), facendosi decorrere dalla data della iscrizione della cancellazione stessa l’anno per la dichiarazione di fallimento ed evitando incertezze sul punto.
Sul problema dell’estinzione della parte tra un grado e l’altro del giudizio le Sezioni Unite della Suprema Corte, facendo riferimento all’art. 328 c.p.c., hanno fissato il principio per cui, “in caso di morte della parte vittoriosa, l’impugnazione della sentenza deve essere rivolta e notificata agli eredi, indipendentemente dal momento in cui il decesso è avvenuto e dalla eventuale ignoranza incolpevole del decesso da parte del soccombente, senza che sia possibile applicare l’art. 291 c.p.c. in caso di impugnazione rivolta al defunto” (Cass., sez. un., 16-12-2009, n. 26279 [cit. in nota 22]).
Peraltro, in materia di estinzione di società (e sia pure nel regime anteriore alla riforma organica delle società di capitali, allorché si riteneva che l’incorporazione di una società costituisse evento interruttivo), le stesse Sezioni Unite avevano stabilito che “l’impugnazione notificata presso il procuratore costituito di una società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per incorporazione, deve ritenersi valida se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione di esso” (Cass. sez. un., 14-09-2010, n. 19509 [cit. in nota 23]). Pronuncia questa che, peraltro, contiene in motivazione numerosi passaggi che contraddicono il principio espresso dalle Sezioni Unite nel 2009 per il caso di morte di una parte tra un grado e l’altro del giudizio, ivi inclusa la considerazione per cui, “a parte l’inaccettabilità di una concezione antropomorfica della soggettività giuridica, e delle società in particolare, poiché la disciplina dell’interruzione del processo è diretta a ripristinare l’effettività del contraddittorio, tale esigenza sussiste solo quando si verificano eventi estranei alla volontà dei soggetti che ne sono colpiti, sui quali, per tale ragione, non possono ricadere gli eventuali effetti negativi derivanti da un processo al quale non abbiano avuto la possibilità di prendere parte. Nella modificazione dell’organizzazione societaria, invece, il fenomeno è riconducibile alla volontà del soggetto e pertanto non sussiste l’esigenza garantistica che giustifica il verificarsi dell’effetto interruttivo e del conseguente onere di riassunzione dell’altra parte. La società che «viene meno» (…) non è pregiudicata dalla continuazione di un processo di cui era perfettamente a conoscenza …”.
Sennonché, il principio di valida ed efficace prosecuzione del processo in sede di impugnazione nei confronti della società quando l’evento interruttivo non sia stato notificato all’altra parte, quale professato da tale ultima pronuncia a Sezioni Unite (epperò, in evidente contrasto con il precedente e assai severo arrêt del 2009 delle stesse Sezioni Unite per l’ipotesi di morte della parte vittoriosa intervenuta prima che l’impugnazione sia stata notificata), non risulta applicabile al caso di specie, in cui l’estinzione della s.a.s. era conosciuta dall’appellante, che ne ha dato espressamente atto nella premessa della sua impugnazione e che, in ragione di ciò, ha ritenuto di notificare l’atto di appello sia al procuratore domiciliatario costituito in primo grado per la società, sia alla persona fisica, già socia accomandataria e liquidatrice della società.
Parimenti inesistente deve considerarsi la costituzione in giudizio di tale società a mezzo del procuratore che ha ricevuto il mandato difensivo successivamente alla estinzione della società: infatti, l’assenza dello ius postulandi del detto professionista è conseguente al difetto di soggettività giuridica della parte rappresentata al momento del rilascio della procura.
Per quanto concerne la notificazione dell’atto di appello a T D nella sua veste di liquidatore della sas, pur avendosi presente il principio secondo cui per le società di persone, “dalla cancellazione della società i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e, se il mancato pagamento è dipeso da colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi” (art. 2312 c.c., applicabile anche agli accomandatarii a mente dell’art. 2324 c.c.), va, non di meno, osservato che l’azione dei creditori sociali nei confronti dei liquidatori, presupponendo la deduzione in giudizio di una loro colpevole condotta nel condurre le operazioni liquidatorie, implica, evidentemente, una domanda nuova in appello (di qui l’inevitabile inammissibilità dell’appello proposto nei confronti della sig.ra D T nella sua qualità di liquidatrice).
Resta, dunque, da stabilire la sorte dell’appello proposto nei suoi confronti, in qualità di socia accomandataria.
In altri termini occorre stabilire se la notifica dell’atto di appello effettuata alla socia accomandataria valga a consentire la prosecuzione del giudizio di primo grado in sede di gravame, impedendo il formarsi di un giudicato; ovvero, più correttamente, se il socio accomandatario possa ritenersi “successore” della estinta società, con la conseguenza di assicurare una valida pronuncia in sede di appello sostitutiva, a tutti gli effetti, di quella pronunciata in primo grado nei confronti della società estintasi nelle more fra la sentenza di primo grado e la notificazione dell’atto di appello.
Il problema degli effetti sul processo dell’estinzione di una s.a.s. e di prosecuzione del processo nei confronti dei soggetti legittimati non pare facilmente risolvibile.
Nulla invece dispone con riguardo alle liti pendenti.
La legittimazione passiva del socio illimitatamente responsabile (di una sas) non pare riconducibile a un fenomeno di successione universale in locum et ius della società estinta (il socio accomandatario ha una responsabilità originaria in quanto socio illimitatamente responsabile delle obbligazioni della società) e neppure sembra ipotizzabile un fenomeno successorio di tipo “necessario” (nell’accezione diversa da quella che rinvia alla successione necessaria dei legittimari e avvicina invece i soci della società estinta allo Stato quale erede “necessario”), sconosciuto al nostro Ordinamento, che consente al successore universale la rinuncia all’eredità e configura tale diritto potestativo come principio di ordine pubblico.
Difetterebbero, dunque, i presupposti di cui all’art. 110 c.p.c.
Neppure appaiono ravvisabili i presupposti di cui all’art. 111 c.p.c. (successione nel processo a titolo particolare nel diritto controverso), mancando qui una fattispecie di trasferimento dei crediti azionati, poiché il socio illimitatamente e solidalmente responsabile non è subentrato nella posizione giuridica della società, essendo invece ab origine un condebitore solidale, sia pur beneficiario, ma solo in sede esecutiva, dell’onere di preventiva escussione del patrimonio sociale imposto ai creditori ex art. 2304 c.c.
Un problema, quello dianzi delineato, tanto più grave quando il processo debba proseguire nei gradi di impugnazione e quando la società estintasi sia destinataria dell’atto d’impugnazione, in quanto vittoriosa nel precedente grado di giudizio, faticandosi non poco, per le ragioni dette, a rinvenire un successore legittimato a proseguire il giudizio.
Peraltro, a non dissimili conclusioni, se non addirittura a conclusioni più penalizzanti, si perviene in caso di società di capitali, dove la legittimazione passiva dei soci è circoscritta, per espressa disposizione di legge (art. 2495 c.c.) entro i limiti dell’attivo del bilancio da ciascuno di essi riscosso e la estinzione della società determina, senza dubbio, la necessità di intraprendere un nuovo giudizio, fondato su una diversa causa petendi.
Ed invero, se il processo si interrompe sol per effetto di volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, la società estinta potrebbe agevolmente sottrarsi alle obbligazioni e finanche impedire la valida interposizione di un gravame, provocando in tal modo la formazione del giudicato per inammissibilità dell’impugnazione rivolta ad un soggetto non più esistente.
L’orientamento anteriore alla novella dell’art. 2495 c.c., quale oggi interpretato dalle Sezioni Unite, evitava conseguenze di tal genere, ritenendo che, in pendenza di rapporti di debito o di credito (tanto più se sub iudice), la società, sebbene cancellata dal registro delle imprese, non si estinguesse (cfr., ex plurimis, Cass. 646/2007), in tal modo assicurando la legittima e naturale prosecuzione dei processi, per non essersi verificato alcun evento interruttivo fino all’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti.
Tale orientamento, già criticato in dottrina e superato a seguito della modifica dell’art. 2495 c.c. nell’interpretazione datane dalle Sezioni Unite, consentiva, se non altro, che l’estinzione della società non producesse effetti sulle liti in corso, garantendone la pacifica proseguibilità in ogni stato e grado del giudizio.
L’irragionevolezza di un effetto interruttivo sul processo sol per effetto di una volontaria cancellazione dal registro delle imprese appare evidente, tanto più allorché ciò avvenga tra un grado e l’altro del giudizio, quando si debba evitare la formazione del giudicato attraverso la notifica dell’impugnazione alla parte vittoriosa, munita di legittimazione.
Quanto all’art. 3 Cost., è evidente la sperequazione nella gestione delle cause fra persone fisiche e persone giuridiche, potendo il rapporto processuale instauratosi con le persone fisiche trasferirsi in capo agli eredi, al contrario di quanto accade, in virtù del novellato art. 2495 c.c., in riferimento alle persone giuridiche, rispetto alle quali il rapporto processuale si estingue senza la possibilità dell’esame dei crediti in discussione.
Quanto all’art. 24 Cost., si evidenzia che viene concessa la facoltà a una parte di sottrarsi ai propri obblighi con un semplice atto formale di cancellazione dal Registro delle imprese, impedendosi alla parte soccombente, alla stregua dei ricordati principii delle Sezioni Unite, di instaurare un valido rapporto processuale d’impugnazione, adeguando il processo alle modificazioni intervenute nel campo sostanziale, come impone Cass., sez. un., 26279/2009.
Quanto all’art. 111 Cost., si osserva che viene costretta una parte processuale ad instaurare un nuovo giudizio, ripercorrendo gradi già esauriti, così determinandosi un indubbio dispendio di energie nella rivalutazione di fatti già in precedenza vagliati e con l’ulteriore conseguenza dell’inevitabile protrarsi della durata del processo. In base al diritto vivente non pare possibile fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata del plesso di norme sin qui esaminate, stante l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite sia sull’estinzione della società per intervenuta cancellazione ex art. 2495 c.c., sia sugli effetti interruttivi dell’estinzione tra un grado e l’altro del processo, allorché (come nella specie) noti alla parte impugnante.
La mancata possibilità di individuare un successore legittimato a proseguire il giudizio di appello instaurato avanti questa Corte di merito non potrebbe che condurre ad una mera declaratoria di carattere processuale, (id est: il sopravvenuto difetto di legittimazione ad causam, nella specie passiva, della società), senza alcuna statuizione nel merito (cfr. Appello Milano, I sez. civ., sentenza n. 1072/2012, est. Secchi).
Risulta perciò rilevante e non manifestamente infondata, ad avviso di questa Corte, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c. nella parte in cui non prevedono, in caso di estinzione della società per effetto di volontaria cancellazione dal registro delle imprese, che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società cancellata, sino alla formazione del giudicato.
P.Q.M.
la Corte d’Appello di Milano, sez. I civile, visti gli artt. 134 Cost. e 23 L. 11.3.53 n. 87; ritenuta non manifestamente infondata e rilevante ai fini del decidere la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2945 c.c. 328 c.p.c. nella parte in cui non prevedono, in caso di estinzione della società per effetto di volontaria cancellazione dal registro delle imprese, che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società cancellata, sino alla formazione del giudicato
DISPONE
la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, sollevando la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c. rispetto ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
DISPONE
La sospensione del procedimento in corso sino alla pronuncia della Corte Costituzionale
ORDINA
La notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica
ORDINA
La trasmissione dell’ordinanza alla Corte Costituzionale unitamente agli atti del giudizio, con prova delle avvenute notificazioni e delle comunicazioni prescritte.
Milano, addì 1.02.2012
Il Consigliere estensore Il Presidente
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B spa, condannata a rifondere una somma di denaro ad una società in accomandita semplice (anche a titolo di spese legali), impugna la sentenza che le è sfavorevole. Pochi giorni prima della notifica del gravame, la società appellata si cancella dal Registro delle imprese. La circostanza è nota all’appellante, che, pertanto, procede alla notifica, oltre che alla società presso il suo procuratore costituito in primo grado, anche alla socia liquidatrice. Entrambe le convenute eccepiscono l’inammissibilità del gravame. La Corte d’Appello ritiene che: 1) la società appellata vada considerata irreversibilmente estinta, anche se la controversia giudiziale in oggetto non sia stata definita con sentenza passata in giudicato; 2) la notifica dell’atto di appello si debba considerare inesistente, perché è venuto meno il soggetto notificato; 3) la costituzione in giudizio della società convenuta sia ugualmente inesistente, per difetto di soggettività giuridica della parte e per assenza dello ius postulandi in capo al suo procuratore; 4) l’appello nei confronti della liquidatrice sia inammissibile, perché presupporrebbe lo svolgimento di una domanda nuova (mancato pagamento per colpa), ovviamente non consentito in secondo grado; 5) la socia illimitatamente responsabile non possa essere considerata “successore” della società estinta, né a titolo universale, né a titolo particolare, né quale avente causa “necessario”; 6) l’estinzione della società vada considerata come evento interruttivo del processo. La Corte prosegue affermando che, se queste premesse sono corrette, l’applicazione dei principi di diritto enunciati conduce a conseguenze notevolmente ingiuste ed irragionevoli, in quanto: 1) non è possibile identificare un soggetto legittimato a proseguire il processo; 2) con un semplice atto volontario, la società si sottrae agevolmente alle proprie obbligazioni, impedendo la valida interposizione di un gravame e provocando la formazione del giudicato per inammissibilità dell’impugnazione. Ne consegue l’inevitabile rilievo di incostituzionalità degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c., per violazione degli artt. 3 (principio di uguaglianza), 24 (diritto di difesa e di tutela giurisdizionale) e 111 Cost. (il giusto [continua ..]
L’art. 2495 c.c., così come novellato dalla riforma societaria [1], stabilisce che, approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori debbano chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. I creditori sociali insoddisfatti, ferma restando l’estinzione della società dopo la cancellazione, possono far valere le loro ragioni solo nei confronti dei soci o dei liquidatori. Nei paragrafi seguenti analizzeremo i limiti sostanziali e processuali a cui è soggetta tale azione. Va anticipato che la disciplina dei rapporti giuridici pendenti, delle sopravvivenze o sopravvenienze attive o passive, delle azioni già svolte o da esercitarsi da o contro una società cancellata non può trarsi esclusivamente dalle scarne previsioni codicistiche che, pertanto, vanno integrate con la più recente giurisprudenza e con l’insegnamento di una dottrina spesso risalente.
La Suprema Corte intervenendo, a sezioni unite [2], per comporre un contrasto giurisprudenziale, ha sancito che: a) la cancellazione delle società di capitali e delle cooperative dal registro delle imprese ha efficacia costitutiva[3]e ne determina l’estinzione, con effetto immediato ed irreversibile, indipendentemente dall’esistenza di creditori non soddisfatti o di rapporti giuridici ancora non definiti [4]. Con l’estinzione viene meno la soggettività e la capacità processuale [5] della società, che, quindi, non può più essere rappresentata dai propri liquidatori; b) l’art. 2495 c.c., come modificato dal D.lgs. 6/2003, ha portata innovativa ed ultrattiva[6]: dunque, si applica anche alle cancellazioni iscritteprima della sua entrata in vigore [7]; c) la cancellazione dal registro delle imprese delle società di persone[8], nonostante abbia natura meramente dichiarativa, determina una presunzione, opponibile ai creditori sociali, del venir meno della loro capacità[9] e legittimazione, negli stessi limiti temporali previsti per quelle di capitali. Il fenomeno opera anche se perdurano rapporti o azioni di cui le società siano parti [10]. Vi è, infatti, la necessità di disciplinare in maniera omogenea situazioni sostanzialmente analoghe di dissoluzione della compagine sociale. La cancellazione di una società, in presenza di fatti identici (il mancato pagamento di uno o più creditori da parte del liquidatore) non produce, quindi, effetti diversi a seconda del tipo prescelto per la sua organizzazione [11]. Le norme che regolano le società di persone vengono, così, interpretate nel rispetto del dettato costituzionale [12], la cui osservanza è, in questo caso, sollecitata dal riconoscimento degli effetti costitutivi alla cancellazione delle società di capitali. Questi principi di diritto, fatti propri dalla corte milanese ed ora pacifici, hanno sovvertito un precedente orientamento [13] secondo cui lo scioglimento e la cancellazione della società dal registro delle imprese: 1) costituiscono mera pubblicità dichiarativa; 2) non determinano alcuna estinzione sino a quando siano ancora pendenti rapporti giuridici o controversie giudiziali [14]; 3) né fanno venir meno la legittimazione processuale della [continua ..]
La Corte d’appello di Milano, in applicazione dei principi sovra-enunciati, dichiara che l’estinzione di una parte processuale (la s.a.s.) si è verificata tra un grado e l’altro del giudizio; qualifica, seppur in modo non del tutto convinto, l’evento come “interruttivo” e dichiara inesistente (per inesistenza del soggetto destinatario) la notifica del gravame effettuata alla società presso il procuratore costituito. Verifichiamo se la soluzione è corretta. La Corte d’appello applica, in primo luogo, la disciplina generale in tema di “morte della parte vittoriosa”. In forza dell’art. 328 c.p.c., l’impugnazione va rivolta e notificata agli eredi e non al defunto (presso il suo procuratore costituito). Il momento in cui il decesso è avvenuto o l’eventuale ignoranza incolpevole della morte sono del tutto irrilevanti talché, se l’impugnazione è stata rivolta al defunto, non è possibile applicare la disciplina dell’art. 291 c.p.c. [22]. Quando, infatti, è finito un grado del giudizio e se apre un altro, le parti tornano nella situazione iniziale in cui si trova l’attore che, prima di proporre la domanda, deve appurare l’esistenza del proprio contraddittore. L’ordinanza in commento richiama, poi, per analogia, la fattispecie dell’impugnazione svolta contro una società che, dopo la chiusura della discussione, sia stata incorporata in altra. Prima della riforma delle società di capitali, tale ente si doveva considerare estinto e, secondo la giurisprudenza prevalente, il gravame notificato presso il procuratore della società incorporata era valido solo qualora l’impugnante non fosse stato informato, tramite notifica, dell’evento modificatore della capacità della persona giuridica [23]. Nel caso in esame, però, questa deroga non è applicabile, perché l’estinzione della società in accomandita era nota all’appellante, che ne aveva espressamente dato atto nella premessa dell’impugnazione. La notifica del gravame deve, quindi, considerarsi inesistente [24]. A mio parere, inoltre, il riferimento a questa giurisprudenza non è corretto, perché il disposto dell’art. 300 c.p.c. concerne la sola fase processuale in cui il mutamento della situazione soggettiva della parte si [continua ..]
La spontanea costituzione in giudizio della società cancellata, a mezzo del suo procuratore, deve considerarsi ugualmente inesistente, sia che il difensore abbia ricevuto il mandato prima [26] (della pubblicità) dell’evento, che successivamente. Nella seconda ipotesi, l’inesistenza ed il conseguente difetto di soggettività giuridica [27] della parte rappresentata al momento del rilascio della procura determina l’assenza dello ius postulandi in capo al difensore. Va aggiunto che il conferimento del mandato al procuratore, da parte di una società di persone, successivamente alla sua cancellazione, non vale a far rivivere l’ente. Se è pur vero che la pubblicità della cancellazione ha natura meramente dichiarativa e determina solo una presunzione del venir meno della capacità e della legittimazione della società, il rilascio della procura alle liti non basta certamente per evitare l’estinzione. Per considerare ancora in vita la società occorre, invece, l’esercizio dell’attività d’impresa e cioè lo stesso requisito che potrebbe condurre al suo fallimento [28].
Anche la notificazione del gravame ai liquidatori è inammissibile. L’art. 2312 c.c. prevede che, dal momento della cancellazione, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa [29]. Va, però, osservato che si tratta di un’azione autonoma con presupposti e causa petendi diversa [30] da quella già promossa nei confronti della società. È, infatti, necessario dedurre in giudizio una colpevole condotta dei convenuti nella conduzione delle operazioni liquidatorie [31] e svolgere una domanda nuova [32], inammissibile in appello.
Il problema centrale da affrontare è quale sia l’effetto dell’estinzione della società sui rapporti in atto (specialmente sull’accertamento/soddisfacimento delle passività non liquidate) [33] e, quindi, su un processo pendente, in cui l’impresa sia parte convenuta o anche, pur se statisticamente più raro, attrice [34]. È, infatti, tutt’altro che infrequente l’ipotesi in cui i liquidatori provvedano alla cancellazione in presenza di procedimenti giudiziali non ancora esauriti. Nel caso di specie, in particolare, è necessario definire: 1) quale sia la sorte dell’appello proposto nei confronti del socio; 2) se la notifica dell’atto di impugnazione a lui diretta valga a consentire la prosecuzione del giudizio in sede di gravame e 3) se il socio possa ritenersi “successore” della società estinta. Una risposta affermativa consentirebbe di pronunciare una sentenza, che potrebbe riformare quella di primo grado. Come osservato dalla corte, la questione non è di facile soluzione, anche perché l’art. 2495 c.c. – norma meramente sostanziale – disciplina la sola proposizione ex novo della domanda giudiziale dei creditori nei confronti dei soci o dei liquidatori, ma nulla dispone per le liti pendenti. Anche il ricorso alle altre fonti non è risolutivo, in quanto la giurisprudenza di merito è assai scarna [35], mentre la dottrina non ha trattato con sistematicità il problema, limitandosi a dibattere sulla natura della responsabilità [36] dei soci per i debiti sociali e sul titolo che li legittima nelle azioni promosse dai creditori. La prima soluzione che si può ipotizzare è la successione nel processo, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; ma essa va esclusa perché l’estinzione della società non determina alcuna successione a titolo universale [37] nei rapporti giuridici [38]. Come abbiamo avuto modo di osservare nel paragrafo 4), la cancellazione della società non è equiparabile alla morte della persona fisica o alla fusione della persona giuridica [39]. Allo scioglimento generalmente segue la liquidazione del patrimonio sociale [40]: un modo alternativo ed incompatibile, rispetto alla successione universale, per risolvere i problemi derivanti dall’estinzione [continua ..]
Il provvedimento in commento giunge, per rifuggirla in quanto troppo penalizzante, all’ovvia ed inevitabile conclusione che i creditori, dopo l’estinzione della società sono titolari di una nuova ed autonoma azione [60]/[61]contro gli ex soci, da esercitare in un nuovo giudizio [62]. Si tratta di una soluzione corretta, perché l’azione contro i soci presenta: fattispecie costitutiva [63], causa petendi [64], obiettivo conseguibile [65], modalità di attivazione e di gestione profondamente diverse rispetto a quella contro la società. Nella nuova controversia non è indispensabile che siano evocati tutti gli ex soci; non esiste alcun litisconsorzio necessario ed i creditori sociali possono proporre l’azione contro un numero di soci tale da garantire il soddisfacimento del loro credito [66].
La Corte d’Appello di Milano, partendo da queste premesse (a mio parere corrette), ritiene che l’applicazione della regola dell’immediata estinzione per effetto della volontaria cancellazione dal registro delle imprese e l’impossibilità di proseguire il processo in assenza di un successore nel diritto controverso, contrastino con un altro principio fissato dalle Sezioni Unite. Il riferimento è a Cass. n. 19509/2010, resa in una fattispecie di fusione per incorporazione e conseguente estinzione del soggetto incorporato [67]. Secondo la Suprema Corte occorre operare “un attento bilanciamento tra le esigenze del soggetto che intenda impugnare la decisione sfavorevole e quelle del soggetto protagonista di una vicenda modificatrice della capacità di stare in giudizio, dallo stesso voluta”. L’affermazione di principio era diretta ad escludere l’onere di una permanente consultazione del registro delle imprese in capo alla parte interessata all’impugnazione. Non credo, pertanto, che sia possibile estrapolarla dal contesto in cui è stata resa ed attribuirle un significato ed una valenza che travalichino tali confini. Ritengo, inoltre, che la massima non sia pertinente, perché per proseguire il processo è indispensabile che esista un successore nel diritto controverso (ad es. l’incorporante, nell’ipotesi della fusione) e, ove manchi, il giudice non può far altro che dichiarare cessata la materia del contendere. Per lo stesso motivo mi pare inammissibile anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 328 c.p.c. “nella parte in cui non prevede che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società cancellata, sino alla formazione del giudicato”. L’art. 328 c.p.c. presuppone l’esistenza di un avente causa della parte defunta (ad es. gli eredi) o, comunque, di un nuovo soggetto legittimato passivo (il curatore, in caso di fallimento; la società incorporante nella disciplina ante riforma) [68], perché operi l’interruzione del termine breve per l’impugnazione. È, dunque, ovvio che se la corte remittente postula la persistente legittimazione della società nonostante la sua cancellazione, non può invocare il disposto dell’articolo in [continua ..]