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1. Premessa - 2. Il mercato delle società sportive quotate - 3. Il mercato dei titoli delle società sportive quotate - 4. I problemi di corporate governance - 5. L'interesse delle società sportive - 6. Congedo - NOTE
Fino a qualche tempo addietro non era revocabile in dubbio che tra i vari modi di perdere soldi il più rischioso fosse il gioco (dal momento che giocando d’azzardo si può anche vincere), il più piacevole le donne e il più sicuro l’agricoltura. La quotazione in borsa di alcune società sportive ha peraltro messo in crisi questa granitica certezza, dal momento che l’investimento nel capitale di rischio di questo tipo di società, più che “non adatto a vedove e orfani” come fu detto da un già presidente della Consob e già commissario della F.I.G.C., si appalesa, almeno in Italia, contendere alla attività agricola la palma di tecnica più certa per perdere i propri quattrini. Pochi dati sono sufficienti a confermare l’assunto. Le società sportive quotate italiane hanno perso, dalla loro quotazione a oggi, ogni anno circa il 10% del prezzo iniziale di collocamento. In particolare, la S.S. Lazio perde ogni anno dal 1998 in media il 9,5%; la A.S. Roma circa il 10% all’anno dal 2000; la Juventus un po’ di più, l’11% all’anno dal 2001. Complessivamente, più di tre quarti del valore investito all’epoca del collocamento è andato perduto e questo su un orizzonte temporale non breve e, quindi, sicuramente significativo [1]. Naturalmente, è ben possibile che una parte di quei soldi sia stata guadagnata da chi ha portato in borsa le società, ma questo è un altro discorso (che sarà toccato più in là e che riguarda i benefici privati del controllo). In termini più generali e del tutto incidentalmente, si aggiunga che la stessa espressione “impresa sportiva”, che dovrebbe costituire l’oggetto della attività economica di queste società, è un ossimoro [2]. Sport infatti significa in inglese “divertimento”, “gioco” “passatempo”, ed è sinonimo di fun, amusement, diversion, game, pastime; si dice “to make sport of” come espressione equivalente a “to make fun of”. La parola sport ha la stessa radice del nostro diporto, ed è qualcosa che sta agli inglesi come gli otia stavano ai romani. È quindi definitivamente accertato che se lo sport diviene oggetto di negotium o di negotia, di attività professionale, economica o di [continua ..]
Il primo ordine di ragioni deve ricondursi ad alcune caratteristiche del mercato nel quale operano le società sportive quotate. Muovo dal presupposto ovvio che qualsiasi impresa sportiva abbisogna di un mercato. Il mercato, in prima approssimazione, è quello delle persone disposte a pagare per assistere alla prestazione sportiva che dunque diviene uno spettacolo; anche il c.d. “mercato dei giocatori” (e il guadagno connesso all’“acquisto per la rivendita” degli stessi) presuppone a ben vedere che ci sia qualcuno che paghi per assistere alle prestazioni fornite da questi professionisti sportivi. Il mercato degli spettacoli sportivi è però un mercato del tutto particolare nel senso che in tanto esiste in quanto ci siano competizioni e, aggiungerei, competizioni avvincenti. Anche senza essere necessariamente composto di soli tifosi (che pure costituiscono la più gran parte degli utenti degli spettacoli sportivi), il pubblico è disposto a pagare per vedere una competizione sportiva che sia una vera gara. Da ciò si desume la conseguenza che in tanto il mercato esisterà e potrà funzionare in quanto esso non faccia prevalere definitivamente un concorrente sugli altri. È necessario quindi darsi delle regole che riequilibrino, di tanto in tanto, i vari protagonisti della lotta concorrenziale. Orbene, tali meccanismi mancano proprio nelle competizioni a cui partecipano le società sportive quotate, che sono tutte società calcistiche. Infatti, i campionati e le coppe italiani ed europei nei quali gareggiano le squadre di quelle società sono sempre concepiti e organizzati in modo da rendere sempre più ricchi e più forti (per esprimersi con linguaggio generico) i club che vincono e quindi in modo diametralmente opposto a quello richiesto dalle esigenze concorrenziali dello specifico mercato. La assenza di meccanismi di riequilibrio ha reso e rende le competizioni sempre meno avvincenti e il mercato sempre meno concorrenziale, con conseguente detrimento economico di ogni suo partecipante, cioè di tutte le società sportive, che – è appena il caso di ricordarlo – hanno per legge un oggetto sociale esclusivo (art. 10, 2° comma, legge 23 marzo 1981, n. 91).
La seconda serie di ragioni non riguarda la struttura e la regolamentazione del mercato nel quale le imprese delle società quotate operano, ma il mercato delle loro partecipazioni. Mi riferisco cioè alla tipologia di “investitori” e alla composizione della compagine azionaria di queste società. Si tratta sempre di società con un unico socio che detiene una partecipazione di controllo di diritto, società quindi in nessun modo contendibili dall’esterno e comunque prive di veri e propri investitori istituzionali nella compagine sociale. La Roma ha due soci rilevanti (la Compagnia Italpetroli s.p.a. di Franco Sensi, con il 67%, e Danilo Coppola, con il 2,5%); la Juventus ha pure due soci rilevanti (la Giovanni Agnelli e c. s.a.p.a., con il 62%, e la Libyan Arab Foreign Investment Company SA, con il 7,5%); la Lazio, infine, ha solo un socio rilevante (la Lazio Events s.r.l. di Claudio Lotito, con una partecipazione pari al 61%). La mancanza di redditività delle società quotate, la loro cattiva corporate governance (su cui dovremo tornare tra poco [3]) allontanano gli investitori istituzionali da questa forma di investimento (con ulteriore ricaduta negativa in termini di governo societario): non è un caso che si tratta di società non coperte dagli analisti finanziari. Il disinteresse degli investitori professionali e istituzionali è, d’altronde, ricambiato dalle stesse società sportive. Esse non mostrano di essere interessate ad avere in seno alla loro compagine sociale investitori professionali o istituzionali; direi anzi che fanno di tutto per non averne. Lo dimostra, nel caso più evidente che è quello della A.S. Roma, la circostanza che il sito ufficiale della società non ha alcuna sezione dedicata agli investitori. Inoltre, posso testimoniare che, essendomi punta vaghezza di leggere lo statuto della A.S. Roma per preparare questa relazione ed essendomi rivolto direttamente alla Società dal momento che nel suo sito ufficiale non è pubblicato neanche quello, mi sono sentito dire (dopo una lunga attesa allietata da inni e cori della Roma incisi sulla segreteria telefonica): “ma, dottore, lo statuto non lo possiamo dare … è un documento riservato!”. Sulla equiparazione del socio al tifoso, equiparazione evidentemente presupposta a questo “stile” di relazioni con gli investitori, si [continua ..]
Il terzo ordine di ragioni è strettamente connesso al secondo e si sostanzia in una corporate governance delle società sportive quotate mediamente non esaltante. Anche in questo caso la evidenza di alcuni fatti mi esime dall’addentrarmi in una analisi minuta e noiosa [5]. Il funzionamento degli organi collegiali di amministrazione e controllo è spesso virtuale, senza quindi apprezzabile circolazione delle informazioni, e con frequentissimo ricorso alla ratifica ex post dell’operato del “patron” della società [6]. Nella maggior parte dei casi tutti i poteri di gestione sono delegati ad un unico amministratore o consigliere di gestione che spesso coincide con l’azionista di maggioranza assoluta. Nella Roma i due amministratori delegati, uno dei quali anche presidente del consiglio di amministrazione, si chiamano Sensi; nella Lazio il presidente del consiglio di gestione, dott. Claudio Lotito, ha avuto in delega dall’unico altro consigliere di gestione tutti i poteri gestori (con la sola eccezione di quelli non delegabili per legge). Ne discende che i costi di agenzia tendono a crescere oltre i limiti del tollerabile e di fatto non esistono presidii per limitare l’opportunismo (un tempo si sarebbe detto, l’abuso) del socio di controllo a danno degli altri azionisti. D’altra parte la stessa composizione dell’organo amministrativo è fatta senza soverchia attenzione alle esigenze della impresa sociale. Manca spesso un numero adeguato di amministratori indipendenti, che invece lo status di società quotata e ogni raccomandazione di buon governo societario richiederebbero. Ma ancora più perplessi lascia una indagine sui requisiti di professionalità degli amministratori di queste società [7]. Difficile infatti presentare come commendevole da un punto di vista strettamente imprenditoriale la scelta che nel consiglio di amministrazione della Roma siedano, su undici componenti, quattro membri della famiglia Sensi. E credo che qualche altra persona sottoscriverebbe il giudizio per cui alcune di queste società sono gestite in modo dilettantesco. Di ciò sembra, d’altronde, che possa trarsi conferma anche dalla analisi delle politiche di remunerazione degli amministratori. Nel caso della Lazio non è prevista alcuna remunerazione né per i consiglieri di gestione né per i consiglieri di [continua ..]
Vengo infine a dire dell’ultimo ordine di ragioni che pregiudicano la redditività l’investimento in una società sportiva quotata. È questo l’aspetto di gran lunga più interessante per il giurista ed è quello rimasto sin qui sostanzialmente inesplorato. Mi riferisco alla circostanza che la società sportiva è una società che necessariamente connota e colora il suo interesse sociale di elementi che almeno in parte mal si conciliano con il perseguimento del c.d. shareholder value, della massimizzazione del valore dell’azionista, a cui dovrebbe essere anzitutto interessato (qualsiasi cosa significhi) l’azionista-risparmiatore e l’azionista-investitore. Si tenga infatti presente che per le società sportive quotate l’accesso al loro mercato è governato dalle federazioni sportive (nel concreto dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio) che concede e revoca il c.d. titolo sportivo [9]. Il titolo sportivo è anzi, a ben vedere, il principale valore delle società sportive professionistiche ed esso, tuttavia, dipende, come si diceva, da scelte della Federazione. Le vicende alla base del c.d. lodo Petrucci [10] sono in questo senso assai istruttive. Così come è sufficiente considerare tale “lodo” per convincersi definitivamente che il titolo sportivo, che pure dà valore alla società che ne è in un certo momento titolare, non le appartenga in senso stretto (e non potrebbe essere diversamente anche alla luce delle rilevanti implicazioni di ordine pubblico che lo svolgimento di quelle pratiche sportive ha): esso piuttosto appartiene alla collettività che tradizionalmente esprime il tifo e l’attaccamento per quella certa squadra, per quel certo sodalizio, per quei colori, per quella maglia (come pure si dice) [11]. È dunque proprio l’esistenza del titolo sportivo, concesso e revocato dalla federazione sulla base dell’apprezzamento di valori che vanno ben oltre le classiche constituencies societarie, a consacrare l’esistenza di interessi della società non facenti capo ai soli shareholders ma anche ad altri stakeholders. L’interesse della società sportiva non è dunque solo quello del socio, ma anche quello del tifoso la cui esistenza giustifica l’attribuzione del titolo sportivo e pone il presupposto necessario allo [continua ..]
In conclusione, la mancanza di redditività delle società sportive quotate pare dipendere da cause non contingenti, alcune patologiche altre fisiologiche. Tra queste seconde si è individuata una particolare conformazione dell’interesse sociale delle società sportive, che discende dalla natura, in senso lato, pubblica del titolo sportivo, il quale è a sua volta presupposto indefettibile per l’esercizio della attività economica di cui all’oggetto esclusivo di queste particolari società (ma che non costituisce un bene della società). Tale carattere dell’interesse sociale merita ovviamente di essere tutelato; tuttavia, ciò comporta una decisa attenuazione della causa lucrativa di queste particolari società e quindi dovrebbe sconsigliare la ammissione delle azioni di società sportive alla quotazione su di un mercato regolamentato. A meno che non si ammetta una volta e per tutte e si dica chiaramente che la quotazione è solo il mezzo per agevolare contribuzioni (a fondo sostanzialmente perduto) alle società da parte dei loro tifosi; il che però non sarebbe ancora sufficiente a giustificare un’altra delle cause di sistematica perdita di valore dell’investimento in queste società e cioè la frequente estrazione di benefici privati da parte dei soci di controllo.