CASSAZIONE CIVILE, I SEZIONE, 11 luglio 2013, n. 17200 – Rordorf Presidente – Bernabai Estensore – P.M. RUSSO (parz. diff.) – Tamoil Italia S.p.A. (avv. Libonati, Della Chà, Ricci, Pappalardo) c. F.E. ed altri (avv. Pieretti, Masoni) – Feltam S.r.l. in liquidazione (avv. Astone)
Cassa App. Roma, 7 dicembre 2005
Società – Contratto parasociale a favore della società – Legittimazione del socio ad esigere l’adempimento – Sussistenza – Rifiuto della società beneficiaria – Irrilevanza – Formale divieto di eseguire la prestazione – Rilevanza – Cessione della partecipazione sociale – Irrilevanza
(Artt. 1411, 2341 bis c.c.)
Il patto parasociale, in forza del quale taluni soci si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società, integra la fattispecie del contratto a favore di terzo disciplinato dall’art. 1411 c.c., il cui adempimento può essere chiesto sia dalla società terza beneficiaria – che con l’eventuale atto di citazione palesa la volontà di profittare del contratto – sia dai soci stipulanti, pur nell’ipotesi in cui abbiano ceduto a terzi le loro partecipazioni sociali, in quanto la validità del patto parasociale non è legata alla permanenza della qualità di socio degli stipulanti (1).
Nel contratto a favore di terzi, pur in presenza di rinunzia alla prestazione operata dal terzo beneficiario, l’art. 1411, 3º comma, c.c. riconosce, sempre che non risulti diversamente dalla volontà delle parti, la persistenza dell’obbligazione in favore dello stipulante, il quale, quando abbia un interesse diretto all’adempimento in favore del terzo (nella specie, in quanto titolare di una quota di partecipazione nella società beneficiaria), e non sussista un formale divieto di quest’ultimo (nel qual caso opererebbe il principio nemo invitus locupletari potest), può legittimamente pretendere l’adempimento della prestazione in favore del terzo (2).
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
COMPOSTA DAGLI ILL.MI SIGG.RI MAGISTRATI:
DOTT. RORDORF Renato – PRESIDENTE –
DOTT. CECCHERINI Aldo – CONSIGLIERE –
DOTT. DI AMATO Sergio – CONSIGLIERE –
DOTT. BERNABAI Renato – REL. CONSIGLIERE –
DOTT. DI VIRGILIO Rosa Maria – CONSIGLIERE –
HA PRONUNCIATO LA SEGUENTE:
SENTENZA
SUL RICORSO 3232/2007 PROPOSTO DA:
TAMOIL ITALIA S.P.A. – RICORRENTE –
CONTRO
F.E., IN PROPRIO E NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE di VILLA ANZIANI I DI FELICIANI ENZO & C. S.S.;
F.D., IN PROPRIO, NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE DI VILLA ANZIANI III DI FELICIANI DINO & C. S.S., E IN QUALITÀ DI AMMINISTRATORE UNICO di COLFIORITO 75 S.P.A.;
R.G.;
FELGAS S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, IN PERSONA DEL LIQUIDATORE PRO TEMPORE;
F.R., in proprio e nella qualità di Amministratore e legale rappresentante pro tempore della SOCIETÀ VILLA ANZIANI II DI FELICIANI RITA & C. S.S.
– CONTRORICORRENTI –
CONTRO
FELTAM S.R.L. IN LIQUIDAZIONE – INTIMATA –
SUL RICORSO 4097/2007 PROPOSTO DA:
F.E., IN PROPRIO E NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE di VILLA ANZIANI I DI FELICIANI ENZO & C.S.S.;
F.D., IN PROPRIO, NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE DI VILLA ANZIANI III DI FELICIANI DINO & C. S.S., E IN QUALITÀ DI AMMINISTRATORE UNICO DI COLFIORITO 75 S.P.A.;
R.G.;
FELGAS S.R.L. IN LIQUIDAZIONE;
F.R., IN PROPRIO E NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE PRO TEMPORE DELLA SOCIETÀ VILLA ANZIANI II DI FELICIANI RITA & C. S.S. – RICORRENTI INCIDENTALI –
CONTRO
TAMOIL ITALIA S.P.A. – CONTRORICORRENTE AL RICORSO INCIDENTALE –
CONTRO
Y.M. T., M.G., RA.MA., FELTAM S.R.L. IN LIQUIDAZIONE – INTIMATI –
SUL RICORSO 7489/2007 PROPOSTO DA:
F.E., IN PROPRIO E NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE di VILLA ANZIANI I DI FELICIANI ENZO & C. S.S.;
F.D., IN PROPRIO, NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE DI VILLA ANZIANI III DI FELICIANI DINO & C. S.S., E IN QUALITÀ DI AMMINISTRATORE UNICO DI COLFIORITO 75 S.P.A.;
R.G.;
FELGAS S.R.L. IN LIQUIDAZIONE;
F.R., IN PROPRIO E NELLA QUALITÀ DI AMMINISTRATORE E LEGALE RAPPRESENTANTE PRO TEMPORE DELLA SOCIETÀ VILLA ANZIANI II DI FELICIANI RITA & C. S.S. – CONTRORICORRENTI E RICORRENTI INCIDENTALI –
CONTRO
TAMOIL ITALIA S.P.A. – CONTRORICORRENTE AL RICORSO INCIDENTALE –
CONTRO
Y.M.T., RA.MA., M.G., FELTAM S.R.L. IN LIQUIDAZIONE – INTIMATI –
SUL RICORSO 7674/2007 PROPOSTO DA:
FELTAM A R.L. IN LIQUIDAZIONE – CONTRORICORRENTE E RICORRENTE INCIDENTALE –
CONTRO
TAMOIL ITALIA S.P.A. – CONTRORICORRENTE AL RICORSO INCIDENTALE –
CONTRO
F.R., VILLA ANZIANI III DI FELICIANI RITA & C. S.S.;
M.G., COLFIORITO 75 S.P.A., F.D., VILLA ANZIANI I DI FELICIANI ENZO &C. S.S., VILLA ANZIANI II DI FELICIANI DINO & C. S.S., M. T. Y., F.E., R.G., FELGAS S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, RA.MA.
– INTIMATI –
AVVERSO LA SENTENZA N. 5311/2005 DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA,
DEPOSITATA IL 07/12/2005;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 18 dicembre 1998 i sigg. F.E., D. e R., in proprio e nella rispettiva qualità di legali rappresentanti della Villa Anziani I s.s., Villa Anziani II s.s., Villa Anziani III s.s., Colfiorito 75 s.p.a., nonché la signora R.G. e la Felgas s.r.l. in liq. (d’ora in poi "parte F.") convenivano dinanzi al Tribunale di Roma la Tamoil Italia S.p.A. e la Feltam Srl, nonché il suo ex presidente, vicepresidente e consigliere di amministrazione, esponendo:
– che in data 6 marzo 1996 tra la Tamoil s.p.a. e gli attori era stato stipulato un protocollo d’intesa che prevedeva l’ingresso della prima nel capitale sociale di una società già costituita dagli attori, la cui denominazione era conseguentemente modificata in Feltam s.r.l.) ai fini della costituzione di una joint-venture company, posseduta per l’80% dalla Tamoil e per il 20% dalla parte F., destinata alla gestione e allo sviluppo di stazioni di servizio per la distribuzione di carburanti;
– che il protocollo contemplava il trasferimento di rami d’azienda, con i relativi decreti di concessione, in proporzione alle quote possedute dai soci, e quindi per la maggior parte a carico della Tamoil;
– che il patto parasociale sottoscritto contestualmente al protocollo d’intesa prevedeva, fra l’altro, un consiglio di amministrazione di tre membri, uno dei quali espressione della minoranza F., investito delle funzioni di consigliere delegato;
– che, per contro, la Tamoil restava inadempiente dell’obbligo di trasferimento di 12 rami d’azienda, con le relative concessioni, nonché del patto parasociale, esautorando la parte F. tramite delibere del consiglio di amministrazione che svuotavano il ruolo di amministratore delegato riservatole; fino a far approvare la delibera assembleare del 30 ottobre 1998 che revocava l’amministratore delegato, sig. F.E., nei cui confronti veniva autorizzata l’azione di responsabilità con motivazione pretestuosa.
Tutto ciò premesso, chiedeva l’annullamento delle delibere assembleari, l’adozione di una sentenza costitutiva dell’emendamento dello statuto della Feltam s.r.l. in conformità agli accordi parasociali, o in subordine la condanna della Tamoil a darvi esecuzione; nonché la condanna di quest’ultima al trasferimento di n. 12 rami d’azienda con i relativi decreti di concessione e l’accertamento della sua responsabilità e dei consiglieri di amministrazione da essa designati; con la conseguente condanna al risarcimento dei danni e la risoluzione dell’obbligo di garanzia assunto dalla parte F., in considerazione dell’altrui inadempienza.
Dopo la costituzione in giudizio dei convenuti che resistevano alle domande, il tribunale, in accoglimento di una loro eccezione, separava la causa avente ad oggetto l’impugnazione delle delibere sociali dall’altra concernente la violazione dei patti parasociali.
Questa proseguiva e veniva decisa con sentenza 11 ottobre 2001, con la quale il Tribunale di Roma dichiarava inammissibile la domanda di modifica della clausola statutaria e rigettava quella di risarcimento del danno; mentre accoglieva la domanda di condanna al trasferimento di 12 rami d’azienda in favore della Feltam s.r.l., con i relativi decreti di concessione per l’esercizio della distribuzione di carburanti.
Sui gravami hinc et inde proposti, la Corte d’appello di Roma con sentenza 7 dicembre 2005 riformava la decisione limitatamente al dispositivo di condanna al trasferimento di 12 rami di azienda, emendato con una pronuncia dichiarativa del relativo obbligo.
Motivava:
– che era infondata l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla Tamoil in forza del foro convenzionale esclusivo di Milano stabilito nel patto parasociale, stante la connessione delle domande di condanna proposti nei suoi confronti con la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferimento di 12 rami d’azienda in favore della Feltam s.r.l., rimasta estranea al patto ed avente sede a Roma, oltre che con l’azione extracontrattuale di risarcimento di danni maturati in Roma;
– che, nel merito, l’adempimento del patto parasociale, configurabile come contratto in favore di terzo, poteva essere preteso anche dalla parte F. che lo avevano stipulato e non solo dalla Feltam s.r.l., beneficiaria;
– che la legittimazione attiva della parte F. non era venuta meno a seguito della cessione a terzi della quota di partecipazione nella Feltam s.r.l.: sia perché mai iscritta nel libro-soci, sia perché lo stesso contratto era stato risolto per mutuo consenso con efficacia ex tunc;
– che non sussisteva l’eccepita nullità, per indeterminabilità dell’oggetto, della clausola di trasferimento dei rami di azienda, dal momento che la loro individuazione poteva avvenire nella fase esecutiva e che comunque il debitore di cosa generica era tenuto a prestarla in qualità non inferiore alla media, ai sensi dell’art. 1178 c.c.: come confermato dal comportamento delle stesse parti, in occasione di un precedente trasferimento di otto impianti, e dalla stessa delibera del consiglio di amministrazione della Feltam s.r.l., in cui si dava atto della individuazione, da parte della Tamoil, di 10 dei 12 impianti da trasferire;
– che peraltro la volontà del debitore di adempiere non poteva essere surrogata da un provvedimento giudiziario diretto ad individuare i beni da alienare e doveva essere quindi riformata la sentenza di primo grado nella parte in cui si concludeva con una clausola di condanna ad un fare infungibile, da sostituire con l’accertamento dell’obbligo relativo.
Avverso la sentenza, non notificata, la Tamoil Italia S.p.A. proponeva ricorso per cassazione, articolato in sei motivi e notificato il 18 gennaio 2007.
Deduceva:
1) la violazione di legge e la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta competenza del tribunale di Roma, nonostante la previsione del foro convenzionale esclusivo di Milano;
2) la violazione dell’art. 1411 c.c., e art. 81 c.p.c., nonché la carenza di motivazione nell’affermazione della legittimazione attiva dei sigg. F. a pretendere l’adempimento del patto parasociale nella parte in cui prevedeva una prestazione in favore della Feltam, senza essere sostituti processuali di quest’ultima;
3) la falsa applicazione dei princìpi di diritto in tema di patti collegati e la motivazione contraddittoria nel ritenere la perdurante validità del patto parasociale nonostante la cessione, da parte dei sigg. F., delle proprie partecipazioni nella Feltam;
4) la violazione dei princìpi di diritto in tema di nullità dei contratti per indeterminabilità dell’oggetto e la carenza di motivazione laddove era stata ritenuta valida l’obbligazione di conferire alla Feltam 12 punti vendita non individuati.
5) la violazione dell’art. 342 c.p.c., e la carenza di motivazione nella parte in cui la corte territoriale aveva ritenuto privo del requisito di specificità il motivo di gravame con cui si deduceva l’inadempimento dei F.;
6) la violazione dei princìpi in tema di poteri assembleari e consiliari nelle società di capitali e la carenza di motivazione della ritenuta irrilevanza della dichiarazione della Feltam di rinunziare ad avvalersi del patto parasociale contenente l’obbligazione di trasferimento.
Resisteva con controricorso la Feltam s.r.l. che proponeva altresì ricorso incidentale, in un unico motivo, in ordine alla riforma della decisione di primo grado, mediante sostituzione della condanna al trasferimento dei 12 punti vendita con una sentenza di mero accertamento.
La parte F. resisteva con controricorso e svolgeva a sua volta ricorso incidentale in cui lamentava l’omessa dichiarazione di inammissibilità, per novità, ex art. 345 c.p.c., comma 2, delle eccezioni di carenza di legittimazione attiva e di nullità dell’obbligazione di trasferimento per indeterminabilità dell’oggetto – pur respinte nel merito – sollevate dalla Tamoil solo in grado di appello.
Con distinto ricorso, affidato a dieci motivi e notificato il 22 gennaio 2007 i sigg. F. e le originarie società attrici impugnavano la sentenza, deducendo:
1) la violazione del giudicato esterno formatosi sull’accertamento, in un precedente giudizio tra le medesime parti, operato dal Tribunale di Roma con sentenza 26 giugno 2002, secondo cui i patti parasociali erano rimasti validi e vincolanti perché la cessione a terzi della partecipazione della Feltam s.r.l. non si era integrata con la iscrizione nel libro soci ed era stata inoltre risolta, successivamente, con effetto ex tunc. 2) l’omessa pronunzia della carenza di motivazione nell’omessa disamina del motivo di appello incidentale sulla nullità dell’eccezione di incompetenza sollevata dalla Tamoil solo dopo le eccezioni di merito;
3) la carenza di motivazione nella ritenuta inammissibilità della sentenza di condanna ad un fare infungibile;
4) il vizio di extrapetizione e l’omessa motivazione del rigetto della domanda di risarcimento del danno da mancato trasferimento dei dodici rami d’azienda;
5) la violazione delle norme in tema di interpretazione negoziale e la carenza di motivazione nel ritenere nulla la clausola del patto parasociale che riservava la nomina del consigliere delegato al socio di minoranza;
6) la carenza di motivazione nel rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica del patto parasociale, nella parte in cui prevedeva la modificazione dello statuto;
7) l’insufficiente e contraddittoria motivazione nel rigetto della domanda di danni da inadempimento dell’obbligo di nominare un consigliere delegato, quale espressione della minoranza e di modifica dello statuto sociale;
8) la carenza di motivazione nell’affermazione che l’azione di danni nei confronti dei convenuti Tamoil, M., Ra. e J. doveva essere proposta nel separato giudizio avente ad oggetto l’impugnazione delle delibere assembleari e consiliari della Feltam, o in alternativa, in un separato processo, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento;
9) la carenza di motivazione nella mancata condanna dei sigg.
e Ra., quali consiglieri di amministrazione della Feltam,e del sig. Y., quale vicepresidente della Tamoil, per violazione dei doveri di cooperazione e di buona fede;
10) la violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti.
Resisteva con controricorso la Tamoil Italia.
La parte F. e la Feltam s.r.l. in liq. depositavano, nei termini, memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.. La prima eccepiva l’inammissibilità del ricorso Tamoil perché privo dell’esposizione dei fatti di causa (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3).
All’udienza dell’11 aprile 2013 il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Dev’essere preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi nn. 3232, 4097, 7489 e 7674 R.G. 2007, concernenti tutti la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
È infondata l’eccezione preliminare di rito sollevata dalla parte F. nella memoria ex art. 378 cod. proc. civile, sotto il profilo dell’omessa esposizione sommaria dei fatti di causa, requisito prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3: eccezione, corroborata dall’allegazione della precedente sentenza n. 16.335/2007 di questa Corte con cui si è dichiarato inammissibile, per la predetta ragione, il ricorso della Feltam s.r.l. in liq. avverso altra sentenza della Corte d’appello di Roma, emessa in data 29 aprile 2004 nell’ambito di un giudizio pendente tra le stesse parti.
Il ricorso della Tamoil soddisfa, infatti, il requisito di legge, dal momento che, seppur apparentemente rinvii, in apertura, alla narrazione degli antefatti contenuta nella comparsa conclusionale del giudizio di appello – in ciò, riproducendo la medesima relatio formula ritenuta inammissibile da questa Corte nel precedente citato – contiene, poi, nel prosieguo narrativo, un’analitica descrizione dei fatti di causa – a partire dall’atto di citazione della parte F., in primo grado – perfettamente corrispondente all’archetipo legale.
Passando ora alla disamina delle singole censure, si osserva come sia infondato il primo motivo, con cui si denunzia la violazione di legge e la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta competenza del Tribunale di Roma.
In tema di competenza territoriale, il foro convenzionale, pur se pattuito come esclusivo, resta derogabile per connessione oggettiva ai sensi dell’art. 33 c.p.c.: cosicché la parte che eccepisca, in forza di tale clausola, l’incompetenza del giudice adito, ha l’onere di dimostrarne l’incompetenza anche in base ai criteri generali di cui agli articoli 18 e 19 cod. proc. civile, richiamati dal successivo art.33 ai fini della modificazione della competenza per ragioni di connessione (Cass., sez. 6-1, 11 gennaio 2013 n. 576; Cass., sez. 6-2, 5 novembre 2012, n. 18.967).
Né si può ritenere inapplicabile il predetto principio in ragione della carenza del presupposto della connessione, ai fini del cumulo soggettivo: in una fattispecie sostanziale di contratto in favore di terzo, il beneficiario è litisconsorte necessario ove sia in discussione l’adempimento della prestazione promessa. Pertanto, la sede della Feltam s.r.l. in Roma consentiva la promozione del giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, anziché di Milano, previsto quale foro convenzionale nelle cause tra i sigg. F. e la Tamoil Italia s.p.a.
Anche il secondo motivo – con cui si censura la ritenuta legittimazione attiva dei sigg. F. a pretendere l’adempimento dell’obbligo di una prestazione convenzionalmente prevista in favore della Feltam s.r.l. – è infondato.
Il patto parasociale in forza del quale taluni soci si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società integra la fattispecie del contratto a favore di terzo (art. 1411 c.c.).
Legittimati a pretenderne l’adempimento sono sia il terzo beneficiario – e cioè la società, che, con l’eventuale atto di citazione palesa la volontà di profittare del contratto – sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte (Cass. 1 marzo 1993 n. 2493; Cass., sez. 2, 22 giugno 1978 n. 3089; Cass., sez. 1 9 marzo 1973 n.649; Cass., sez. 1, 29 luglio 1968 n. 2727).
Cade, quindi, anche la contraddittorietà di motivazione denunziata dai ricorrenti in relazione alla sentenza impugnata: che, in conformità del predetto principio di diritto, ha ritenuto sussistente la legittimazione attiva nei confronti dei promittenti sia del terzo beneficiario (Feltam s.r.l.), sia degli stipulanti (parte F.).
Con il terzo motivo si deduce la falsa applicazione di legge e la motivazione contraddittoria nel ritenere la perdurante validità del patto parasociale anche dopo la dismissione della partecipazione da parte dei soci stipulanti.
Anche questa doglianza è infondata.
Non è esatta la premessa, in sede dogmatica, che la validità del patto parasociale sia pregiudizialmente legata alla permanenza della qualità di socio degli stipulanti. Basti pensare, in tesi generale, al contratto in favore di terzi concluso contestualmente alla cessione delle partecipazioni sociali, con cui i vecchi soci si impegnano a porre in grado la società di pagare i debiti pregressi (Cass. n. 2493/1993 cit.). Né si vede ragione per distinguere l’ipotesi in cui il socio successivamente uscito dalla società fosse non già l’obbligato, bensì il soggetto che poteva pretendere l’adempimento. Oltre ciò, la seconda ratio decidendi enunciata in motivazione – riguardante l’efficacia retroattiva della successiva risoluzione consensuale dell’alienazione della quota – appare conforme al principio generale di cui all’art. 1458, primo comma, cod. civ., riconfermando, per altra via, la legittimazione attiva dei sigg. F. a pretendere la prestazione promessa dalla Tamoil in favore della Feltam s.r.l.
Con il quarto motivo si denunzia la violazione dei princìpi di diritto e la carenza di motivazione in tema di nullità dei contratti per indeterminabilità dell’oggetto.
Il motivo è infondato.
Non è affetta da nullità per indeterminabilità l’obbligazione generica avente ad oggetto la prestazione di cose indicate solo nel genere: fattispecie, espressamente prevista dall’art. 1178 c.c., in cui il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media.
Per di più, la sentenza impugnata valorizza, ai fini dell’interpretazione del contratto, il comportamento delle parti anteriore all’insorgere della controversia (art. 1362 c.c., comma 2), mettendo in evidenza come analoga obbligazione fosse stata regolarmente adempiuta, in precedenza, mediante l’individuazione di otto rami di azienda; e come risultasse dal verbale del consiglio di amministrazione della Feltam, in data 3 agosto 1998, che la Tamoil aveva già comunicato l’individuazione di 10 dei 12 rami d’azienda destinati al trasferimento, in esecuzione del patto parasociale.
Anche la successiva doglianza, relativa alla dichiarazione di inammissibilità per carenza del requisito di specificità, ex art. 342 c.p.c., del motivo di gravame concernente l’inadempimento dei F. è infondato.
È insegnamento consolidato che l’appello si configura come revisio prioris instantiae e deve essere quindi corredato della puntuale indicazione delle ragioni di critica mosse alla decisione impugnata.
Non dunque, mero judicium novum in cui i motivi dedotti abbiano la sola funzione di devolvere i capi della sentenza sottoposte a riesame (Cass., sez. 3, 18 aprile 2007 n. 9244).
Nella specie, il giudice di primo grado aveva rigettato l’eccezione dilatoria ex art. 1460 cod. civ. sollevata della Tamoil ritenendo provato l’adempimento dell’obbligo corrispettivo della parte F.. La mera reiterazione dell’eccezione, priva di argomenti di critica puntuale alla predetta ratio decidendi non soddisfa, quindi, il requisito prescritto dall’art. 342 c.p.c. (Cass., sez. lavoro, 20 marzo 2013 n. 6978; Cass., sez. 1, 11 ottobre 2006 n. 21816; Cass., sez. 1, 19 settembre 2006 n. 20261). Né la Tamoil ha addotto, in ossequio al principio di autosufficienza, di aver invece analiticamente elencato rilievi critici alla statuizione medesima, non adeguatamente valutati dal giudice d’appello.
Con l’ultimo motivo la Tamoil lamenta la violazione dei princìpi in tema di poteri assembleari e consiliari nelle società di capitali e la carenza di motivazione della ritenuta irrilevanza della dichiarazione della Feltam di rinunziare ad avvalersi del patto parasociale.
Al riguardo si osserva come la statuizione impugnata poggi su una duplice ratio decidendi. Da un lato, si nega che l’eventuale dichiarazione della Feltam s.r.l. di non avvalersi della prestazione faccia venir meno l’obbligazione in questione, dal momento che l’esecuzione poteva essere egualmente pretesa dallo stipulante (e cioè, dalla parte F.) che non vi aveva parimenti rinunziato; e dall’altro, si afferma che la rinunzia espressa dalla Feltam era inefficace perché promanante dagli amministratori, e non dall’assemblea, cui invece sarebbe spettata, vertendosi in tema di delibera incidente sul capitale sociale, o comunque sul patrimonio:
in entrambe le prospettazioni motive, prescindendosi dall’accertamento storico dell’effettiva rinunzia da parte della Feltam.
La seconda argomentazione è certamente erronea, dal momento che rientra nei poteri degli amministratori un atto dispositivo di natura patrimoniale non eccedente i limiti dell’oggetto sociale: in carenza della contraria allegazione di limiti derivanti dall’atto costitutivo, secondo la disciplina previgente alla riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003, e sempre che gli stessi fossero opponibili (art. 2364 c.c., comma 1, n. 4, artt. 2384 e 2384 bis c.c.). Resiste invece alla censura, la prima statuizione. Nel contratto in favore di terzo, la persistenza dell’obbligazione, pur a seguito di valida rinunzia, è riconosciuta dall’art. 1411 c.c., comma 3, in favore dello stipulante, sempre che non risulti diversamente dalla volontà delle parti. Quando, tuttavia, come nella specie, questi abbia un interesse diretto all’adempimento in favore del terzo e non sussista un formale divieto di quest’ultimo alla prestazione (nemo invitus locupletari potest) – cosa diversa dalla rinuncia, che può essere mossa da svariati motivi, non sempre insindacabili in linea di principio (art. 524 c.c.), e comunque essere espressione di carenza di interesse, sopperibile con l’interesse diretto dello stipulante, se meritevole di tutela (Cass. n. 2493/1993 cit.) – resta legittima la pretesa all’adempimento della parte F., titolare di una partecipazione nella società beneficiaria della prestazione promessa col patto parasociale.
Il ricorso incidentale della parte F. – con cui si denunzia l’omessa pronunzia e la carenza di motivazione sulla dedotta inammissibilità, ex art. 345 c.p.c., comma 2, delle avverse eccezioni di difetto di legittimazione attiva e di nullità dell’obbligo di trasferimento dei decreti di concessione per l’esercizio di stazioni di carburante, sollevate per la prima volta in grado d’appello – è infondato.
La legitimatio ad causam si ricollega, infatti, al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Trattandosi di materia attinente al contraddittorio, la norma, volta prevenire una sentenza inutiliter data, ne comporta la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, col solo limite della formazione del giudicato interno.
È appena il caso di dire che, nella spederà carenza di legittimazione attiva era stata correttamente configurata come eccezione preliminare, non attenendo alla questione di merito della titolarità del diritto, con cui sovente viene confusa nella prassi (Cass., sez. unite, 9 febbraio 2012, n. 1912; Cass., sez. lavoro, 8 agosto 2012 n. 14.243).
Anche l’eccezione di nullità per indeterminabilità dell’oggetto, fuori dell’ipotesi di pronunzia esplicita di rigetto in primo grado, è rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art.1421 cod. civile, senza soffrire preclusioni, non integrando un’eccezione in senso stretto, sempre che trovi fondamento su elementi già acquisiti al giudizio, come in questo caso (Cass., sez. 1, 9 gennaio 2013, n. 350; Cass., sez. 3, 22 marzo 2011 n. 6518).
Passando al ricorso autonomo di parte F., si osserva come con il primo motivo, si deduce la violazione del giudicato esterno.
Anche se si palesa infondata l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità della censura – reiterata anche per i motivi successivi – per carenza del quesito di diritto, stante l’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 366 bis cod. proc. civ. – introdotto con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, (art. 6), e vigente per le sentenze pubblicate a partire dal 2 marzo 2006 – il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, dal momento che non è riportato il testo della citata sentenza irrevocabile, emessa in separato giudizio, nella parte cui affermerebbe la perdurante efficacia dei patti parasociali.
Anche il secondo motivo è inammissibile.
I ricorrenti non deducono la preclusione per tardività dell’eccezione, bensì la semplice inversione dell’ordine logico nell’esposizione delle eccezioni preliminari di rito e di merito:
questione irrilevante, ben potendo il giudice esaminare d’ufficio, nell’ordine logico più confacente, le questioni sollevate, indipendentemente dalle priorità loro assegnate dalla parte.
Con il terzo motivo si denunzia la carenza di motivazione della ritenuta inammissibilità della sentenza di condanna ad un fare infungibile, che ha portato la corte territoriale ad emendare il dispositivo con una pronuncia dichiarativa dell’obbligazione di trasferimento. La medesima censura è svolta nel ricorso incidentale della Feltam s.r.l. ed appare fondato.
È ormai jus receptum che le obbligazioni aventi ad oggetto un fare infungibile se non possono dar luogo ad esecuzione forzata diretta (nemo ad factum cogi potest), non per questo soffrono limitazioni nel processo di cognizione. In nessun caso sarebbe stata preclusa, perché inutiliter data, la pronuncia di condanna: non solo in quanto potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici, stimolando l’eventuale esecuzione volontaria da parte della debitrice, ma altresì perché produttiva di conseguenze risarcitorie per equivalente, suscettibili di levitazione progressiva in caso di persistente inadempimento del debitore, eventualmente assistite da garanzia ipotecaria ex art. 2818 c.c. (giurisprudenza consolidata:
Cass., sez. lavoro, 26 novembre 2008, n. 28.274; Cass., sez. lavoro, 17 giugno 2004, n. 11.364; Cass., sez. 1, 1 dicembre 2000, n. 15.349; Cass., sez. 3, 13 ottobre 1997, n. 9957).
Del resto, ogni dubbio sull’ammissibilità, in subiecta materia, di una pronuncia di condanna è stato eliminato ex post dal legislatore con l’introduzione, con L. 18 giugno 2009, n. 69, dell’art. 614 bis c.p.c. (Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare) nel terzo libro del codice di rito, dedicato al processo di esecuzione: norma che, seppur inapplicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame, appare ricognitiva di un principio di diritto già affermato, come visto, in giurisprudenza (Cass., sez. 1, 23 settembre 2011, n. 19.454; Cass., sez. 1, 1 dicembre 2000, n. 15.349).
Il quarto motivo, con cui si censura il vizio di extrapetizione e l’omessa motivazione del rigetto della domanda di risarcimento del danno da mancato trasferimento dei dodici rami d’azienda è pure fondato.
La corte territoriale ha confermato la decisione di rigetto del risarcimento sul presupposto che l’obbligo di trasferimento potesse sempre essere rispettato dalla Tamoil: onde l’unica voce di pregiudizio configurabile dipendeva dal ritardo nell’adempimento, non prospettato, nella specie.
Tale statuizione si presta al rilievo critico che una domanda di danni va interpretata con riferimento alla causa petendi in concreto addotta, non essendo legata a formule sacramentali rigide. Il problema all’esame della corte d’appello di Roma era quindi quello di accertare se il risarcimento richiesto presupponesse la risoluzione del contratto – effettivamente non richiesta dalla parte F. – o fosse compatibile anche con una domanda di condanna all’adempimento, previo accertamento della perdurante obbligazione del trasferimento dei rami d’azienda. La sentenza contiene, inoltre, un’affermazione di principio certamente erronea; e cioè, che solo dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di condanna si potesse introdurre la domanda risarcitoria: statuizione, oltretutto contraddittoria con la premessa della stessa corte secondo cui la Tamoil avrebbe sempre potuto rispettare l’obbligazione di trasferimento, una volta accertatane la perdurante vincolatività.
Con il quinto motivo e settimo motivo, da esaminare congiuntamente per affinità di contenuto, si deduce la violazione delle norme in tema di interpretazione negoziale e la carenza di motivazione nel ritenere nulla la clausola del patto parasociale che riservava la nomina del consigliere delegato al socio di minoranza e il conseguente rigetto della domanda di danni da inosservanza del patto.
Al riguardo si osserva che appare erronea, in effetti, la statuizione di nullità del patto parasociale. Anche anteriormente al D.Lgs. n. 6 del 2003, che ha dettato una disciplina specifica dei patti parasociali, riconoscendone espressamente la validità in linea di principio, doveva ritenersi valido il sindacato di voto nell’assemblea di una società di capitali chiamata a nominare gli amministratori, pur senza la predeterminazione di un termine di durata del vincolo: restando fermo il carattere solo obbligatorio dello stesso, con conseguente risarcimento del danno in caso di inadempimento, in assenza di cause esimenti, contrariamente alla statuizione della corte territoriale (Cass., sez. 1, 22 marzo 2010, n. 6898; Cass., sez. 1, 23 novembre 2001 n. 14.865). Tuttavia a questa erronea enunciazione di principio la corte territoriale ha fatto seguire l’accertamento dell’inesistenza di alcun danno patito in concreto dai F. per effetto della nomina di un amministratore delegato espresso dalla minoranza: e tale accertamento, contestato solo genericamente e nel merito, con riferimento alle contrarie risultanze documentali, depriva di rilevanza la denunziata violazione di legge.
Pure inammissibile appare il sesto motivo con cui si lamenta l’insufficiente motivazione del rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica del patto parasociale, nella parte in cui prevedeva la modificazione dello statuto.
In realtà, la corte territoriale ha motivato il rigetto in considerazione della libertà della manifestazione di voto in assemblea. È appena il caso di aggiungere, in punto di diritto, che l’efficacia dei patti parasociali, di per sé validi, è puramente obbligatoria e non può dar luogo a tutela reale, quale la esecuzione in forma specifica dell’obbligo previsto.
Con l’ottavo motivo si denunzia la carenza di motivazione nell’affermazione che l’azione di danni nei confronti dei convenuti Tamoil, M., Ra. e J. doveva essere proposta nel separato giudizio avente ad oggetto l’impugnazione delle delibere assembleari e consiliari della Feltam, o in alternativa, in un separato processo, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.
Il motivo è fondato.
Al riguardo, si osserva, in via preliminare, come non sia preclusiva l’erronea qualificazione della stessa come carenza di motivazione, anziché come violazione di legge, che non da luogo ad incertezze sull’identificazione dell’errore di diritto denunziato.
In sede di editio actionis gli attori avevano proposto in via cumulativa, domanda di annullamento delle delibere e domanda risarcitoria. A seguito della separazione dei giudizi disposta dal giudice istruttore, le domande di danni svolte nei confronti della Tamoil e degli altri convenuti non potevano che essere trattate nel presente processo; salva l’eventuale sospensione, ove si fosse ritenuta la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità – dipendenza tra l’annullamento delle delibere (causa pregiudiziale) per abuso di maggioranza e la domanda di danni consequenziale.
In nessun caso, peraltro, quest’ultima poteva essere rigettata, nel merito, come statuito in sentenza.
Il nono motivo – con cui si denunzia la carenza di motivazione nella mancata condanna dei sigg. M. e Ra., quali consiglieri di amministrazione della Feltam, e del sig. Y., quale vicepresidente della Tamoil, per violazione dei doveri di cooperazione e di buona fede – è inammissibile, stante la sua genericità, privo com’è della riproduzione della domanda risarcitoria nella sua esatta prospettazione: così da mettere in luce le ragioni per cui il preteso danno potesse essere imputato, in via diretta, ai consiglieri di amministrazione della Feltam ed al vicepresidente della Tamoil, e non solo alle società di appartenenza.
L’ultimo motivo (violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti) è pure inammissibile, risolvendosi in una difforme valutazione degli elementi di fatto apprezzati dalla corte territoriale in ordine alla inammissibilità della risoluzione parziale, riferita al patto di garanzia assunto dai F. e quindi in un sindacato di merito che non può trovare ingresso in questa sede.
La sentenza dev’essere dunque cassata nei limiti delle censure accolte, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese della fase di legittimità.
P.Q.M.
– Riunisce i ricorsi;
– Rigetta il ricorso della Tamoil;
– Accoglie il ricorso incidentale della Feltam s.r.l. in liquidazione;
– Rigetta il ricorso incidentale di parte F.;
– Dichiara inammissibili i motivi nn. 1, 2, 5, 6, 7, 9 e 10 del ricorso di parte F.;
– Accoglie il terzo, quarto e ottavo motivo del ricorso di parte F.;
– Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese della fase di legittimità.
Così deciso in Roma, il 11 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2013
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- 1. Il caso - 2. Gli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina - 3. Il commento - 3.1. L’acquisto del diritto in capo al terzo e il suo potere di rifiuto - 3.2. Il rifiuto della prestazione da parte della società nel contratto fra soci in suo favore e l’esigenza di tutela del socio di minoranza - 3.3. Contratto parasociale e cessione della partecipazione sociale - 3.4. L’efficacia nel tempo dei contratti parasociali - 3.5. Considerazioni finali - NOTE
La figura del contratto parasociale a favore della società, quale applicazione dello schema del contratto a favore del terzo, presa in esame dalla sentenza in commento, era stata identificata già nel primo, fondamentale studio in tema di contratti parasociali, al quale si deve la paternità della denominazione di tale categoria di contratti [1], e ad essa la successiva dottrina ha spesso fatto riferimento [2]. Anche la giurisprudenza, in ripetute occasioni, prima di questa, ha avuto modo di esaminarla; il più delle volte, senza dedicare sufficiente attenzione agli aspetti di particolarità che essa presenta [3]. Neppure in questo caso l’argomento ha trovato significativo sviluppo, e la decisione assunta in relazione agli aspetti controversi propriamente riferibili alla suddetta figura, pur recependo princìpi largamente accolti, lascia spazio per alcune riflessioni critiche.
Il testo della sentenza si caratterizza per sintesi notevole, riflessa, non solo nella motivazione, ma anche nella narrativa dello svolgimento del processo; il che non aiuta a comprendere agevolmente e completamente i fatti di causa, e dunque, i rapporti intercorsi e le situazioni giuridiche che ne sono derivate. Sembra comunque che il caso trattato possa così ricostruirsi: una parte – che diremmo “complessa”, ad essa mettendo capo una pluralità di persone fisiche e giuridiche, portatrici di interessi omogenei – aveva stipulato accordi con una grande e nota impresa petrolifera allo scopo di dar vita ad una joint venture mediante la partecipazione ad una società di capitali comune (una s.r.l.), nella quale l’impresa petrolifera avrebbe assunto la partecipazione di maggioranza. Gli accordi, oltre a regolare gli aspetti di corporate governance, in termini che riflettessero, anche nella disciplina statutaria, la misura delle rispettive partecipazioni in seno alla società, segnatamente con riguardo alla composizione dell’organo amministrativo, prevedevano che le parti, futuri soci della società comune, le trasferissero alcuni rami di azienda, in proporzione alle rispettive quote. Proprio tale obbligo di trasferimento costituisce il nucleo del patto parasociale a favore del terzo-società comune; obbligo rimasto ineseguito dal lato del socio di maggioranza (sul quale gravava in misura preponderante), essendo entrati in crisi i rapporti tra le due parti-soci [4]. In tale contesto litigioso, culminato nella revoca, ad opera dell’assemblea, dell’unico amministratore nominato in seno al consiglio su indicazione del socio minoritario, la società beneficiaria del patto, rappresentata da amministratori che erano espressione del socio obbligato al trasferimento, aveva rinunciato al diritto pattuito in suo favore. Ad esigere l’adempimento dell’obbligo di trasferimento aveva quindi provveduto il socio minoritario, ossia il soggetto che aveva agito in qualità di stipulante (rispetto alla prestazione posta a carico del socio di maggioranza) nel contratto a favore della società-terzo. Questi, peraltro, aveva ceduto a terzi la sua partecipazione nella società, ma aveva successivamente risolto, consensualmente con l’acquirente, il contratto di cessione. La controversia, che pure ha avuto ad oggetto la [continua ..]
Venendo ai temi sopra enucleati, e rilevando fin da ora che, nonostante la loro netta distinzione concettuale, essi, nel caso affrontato, appaiono strettamente tra loro connessi, può osservarsi che il riconoscimento della legittimazione in capo allo stipulante all’esercizio del diritto derivante dalla stipulazione a beneficio del terzo, affermato dalla sentenza in commento, corrisponde ad un orientamento diffuso, che talora si precisa sulla base delle diverse forme di tutela previste per il diritto in questione, con il richiamo alla distinzione tra azioni contrattuali, che spetterebbero allo stipulante, e azioni a tutela del diritto derivante dalla stipulazione, che spetterebbero al terzo [10]. La tesi della concorrente legittimazione – dello stipulante e del terzo – all’esercizio dei diritti, e delle relative tutele, nascenti dal contratto a favore del terzo è stata sottoposta però a severa critica da parte di prominenti voci della dottrina. Già in anni lontani, Pietro Rescigno, trattando del contratto a favore di terzi nei suoi celebri studi in materia di accollo, aveva sottolineato come l’attribuzione di una siffatta legittimazione allo stipulante finirebbe per penalizzare eccessivamente il promittente: la previsione di una doppia responsabilità del promittente, verso il terzo e verso lo stipulante, violerebbe, infatti, il principio del favor debitoris; inoltre, il riconoscimento di un’autonoma posizione soggettiva in capo allo stipulante permetterebbe una sua ingerenza nella sfera giuridica del terzo [11]. La posizione del Rescigno è stata recepita da altra dottrina, che, in proposito, discorre di “sopraffazione” del promittente; il quale, se fosse riconosciuta allo stipulante la legittimazione anzidetta, non sarebbe neppure libero di transigere con il terzo o di beneficiare dell’eventuale rinunzia di questi al diritto attribuitogli [12]. In tempi recenti, si è rilevato come, data per ovvia la legittimazione del terzo, sia necessario “fissare i giusti confini” di quella dello stipulante: in particolare, si è osservato che, se lo stipulante potesse agire per la risoluzione del contratto a favore del terzo, l’interesse di questi alla manutenzione del contratto, e dunque ad un eventuale adempimento tardivo, risulterebbe frustrato; ed altresì che la legittimazione dello stipulante [continua ..]
Nel caso in esame, la società, per mezzo dell’organo a ciò deputato, ossia degli amministratori, aveva disposto del diritto pattuito in suo favore, rinunciandovi (non è dato di capire se la rinuncia fosse riferita unicamente alla prestazione posta a carico del socio di maggioranza, o anche alla omogenea prestazione a cui era tenuto il socio di minoranza). La fattispecie determinata dall’atto di rinuncia sembra corrispondere a quella regolata nell’ultimo comma dell’art. 1411 c.c., che discorre, in realtà, di “rifiuto”. Probabilmente, il termine “rinuncia” è più appropriato [15], se si considera che, per interpretazione assolutamente prevalente, il diritto si acquisisce al terzo per effetto della stipulazione [16]; sicché il cosiddetto “rifiuto” interverrebbe su un acquisto, non in itinere, ma già compiuto, sebbene si tratti di acquisto definito “instabile” o “reversibile” [17], in quanto esposto alla revoca dello stipulante, oltre che al rifiuto del terzo; acquisto che l’adesione del terzo, privando lo stipulante del potere di revoca, e il terzo stesso del potere di rinuncia, rende definitivo; onde all’adesione non è attribuita efficacia determinativa dell’acquisto, bensì efficacia di “stabilizzazione” dell’acquisto, appunto prodotto dalla stessa stipulazione. Di là della questione nomenclatoria, l’applicazione della disciplina generale dell’istituto del contratto a favore di terzi comporterebbe, in linea di principio, che alla dichiarazione del terzo di non voler profittare della stipulazione conseguisse l’effetto indicato dalla citata disposizione, ossia l’acquisto in capo allo stipulante del diritto rifiutato dal terzo. Le argomentazioni svolte sul punto dalla Suprema Corte suscitano perplessità, e suggeriscono perciò alcune riflessioni. Si legge nella motivazione della sentenza in esame, a conferma della correttezza di una delle rationes decidendi poste a base della sentenza di secondo grado, che la rinuncia della società non farebbe venir meno l’obbligazione del socio promittente verso la società-terzo. In particolare, si afferma: “Nel contratto in favore di terzo, la persistenza dell’obbligazione, pur a [continua ..]
Non sfugge, certo, il rischio di abusi di un contraente in danno dell’altro, ai quali l’applicazione nei termini anzidetti della disciplina del contratto a favore di terzi può dar causa, quando il terzo sia un ente, la cui volontà possa essere orientata da uno dei contraenti; quando, in particolare, il terzo sia una società partecipata dagli stessi contraenti, in seno alla quale i rapporti di forza siano squilibrati, e non riproducano quindi l’ideale parità che dovrebbe connotare il rapporto tra parti contrattuali. Non possono essere affrontate in questa sede tematiche dell’importanza e dell’ampiezza come quella della effettiva alterità della società rispetto ai soci, alla quale si riconnettono questioni di supremo rilievo, quali la stessa nozione di persona giuridica (almeno in relazione alle società dotate di personalità giuridica) e le teorie intorno ad essa elaborate. Qui, occorre solo sottolineare che lo schema del contratto a favore di terzi esige la presenza di un soggetto realmente “terzo” rispetto ai contraenti, alla cui sfera giuridica siano imputabili le situazioni giuridiche derivanti dal contratto, senza superamenti della sua soggettività: diversamente, non può trovare luogo l’applicazione della disciplina prevista dagli artt. 1411-1413 c.c. A questo risultato, in effetti, perviene l’Autore di uno dei più significativi contributi monografici in materia di contratto a favore di terzi; il quale, in un successivo scritto in argomento, ha rilevato la difficoltà di applicare le disposizioni dell’art. 1411 c.c. in tema di rifiuto del beneficiario e di revoca dello stipulante ad un contratto parasociale a favore della società, osservando che la liberazione dei contraenti non potrebbe dipendere da un atto unilaterale della società-terzo, ma solo da un atto di tutti i contraenti, e che la revoca o modifica della stipulazione dipenderebbero necessariamente dall’accordo di tutti i partecipanti al patto. Di qui, appunto, la negazione della riconducibilità di un tale contratto allo schema del contratto a favore di terzi [33]. Non è questo, tuttavia, l’ordine di idee seguìto dalla Cassazione, la quale ha espressamente qualificato l’accordo sottoposto al suo giudizio come contratto a favore del terzo, senza rilevare le particolarità connesse ai [continua ..]
La Suprema Corte ha poi reputato irrilevante il mantenimento della qualità di socio in capo allo stipulante ai fini del perdurare degli effetti del contratto parasociale, e dunque della affermata legittimazione dello stipulante all’esercizio dei diritti da esso derivanti in favore della società. Ciò a prescindere dalla circostanza occorsa nel caso di cui si tratta, ossia dalla risoluzione consensuale del contratto con il quale il socio di minoranza aveva alienato a terzi la sua quota di partecipazione al capitale della società, considerata dai giudicanti sufficiente per risolvere la questione in punto di fatto. Si legge nella motivazione, ove viene disattesa l’opposta tesi svolta da uno dei ricorrenti: “Non è esatta la premessa, in sede dogmatica, che la validità del patto parasociale sia pregiudizialmente legata alla permanenza della qualità di socio degli stipulanti. Basti pensare, in tesi generale, al contratto in favore di terzi concluso contestualmente alla cessione delle partecipazioni sociali, con cui i vecchi soci si impegnano a porre in grado la società di pagare i debiti pregressi (Cass., n. 2493/1993 cit.). Né si vede ragione per distinguere l’ipotesi in cui il socio successivamente uscito dalla società fosse non già l’obbligato, bensì il soggetto che poteva pretendere l’adempimento”. La Corte dichiara di adeguarsi a un suo precedente (richiamato anche in relazione al tema della legittimazione dello stipulante); e già in un altro suo precedente, aveva definito contratto parasociale a favore della società l’accordo tra soci attuali e soci che acquisiscano tale qualità sottoscrivendo un aumento di capitale, in forza del quale le perdite della società, non seguite da riduzione del capitale, debbano essere ripianate dai primi [39]. L’orientamento al riguardo, peraltro, non è univoco, giacché, in una diversa occasione, la stessa Corte aveva escluso di poter qualificare come contratti a favore di terzi accordi con i quali l’alienante di partecipazioni di controllo si obblighi verso l’acquirente ad estinguere debiti sociali pregressi [40]. In una pronuncia di merito, già sopra menzionata, invece, si è riconosciuta la natura parasociale di un accordo concluso tra i soci di una società e un terzo estraneo alla compagine sociale, che [continua ..]
La questione si riconnette, poi, almeno in astratto, all’ampia tematica della durata dei patti parasociali e del diritto di recesso da tali patti. Anche il precedente arbitrale sopra menzionato, che si è espresso per la cessazione del vincolo contrattuale in caso di perdita della qualità di socio, si è orientato in tal senso nell’assunto che il contratto ivi in esame potesse considerarsi a tempo indeterminato [51]. Le questioni in tema di durata dei patti parasociali, e quindi di termine finale e di recesso, formano materia di un dibattito troppo vasto e ricco di contributi per poter essere qui riferito, sia pure sommariamente. Del resto, l’importanza del tema della durata è tale in materia [52], che ad esso si riconduce la stessa evoluzione di pensiero che ha condotto al definitivo riconoscimento della validità dei contratti parasociali da parte della giurisprudenza [53], e quindi all’introduzione, da parte del legislatore, di una disciplina di tale categoria di contratti, dapprima in relazione alle società quotate, e poi alle società azionarie non quotate, la quale altro non regola, in effetti, oltre al tema della pubblicità dei patti (o, più in generale, dell’informazione; o, se si vuole, della trasparenza), che quello della loro durata [54]. Si deve convenire, comunque, con l’affermazione secondo la quale l’apposizione di un termine di durata al patto è diretta ad impedire che una delle parti vi si sottragga, così rafforzando il vincolo contrattuale; il quale sarebbe più debole se il patto avesse durata indeterminata, in quanto esposto al potere di recesso [55]. Considerato che i fatti di causa, ossia la conclusione degli accordi e la costituzione della società comune, risalgono all’anno 1996, il patto in esame sfugge all’applicazione, se non altro ratione temporis, alle disposizioni in tema di durata dei contratti parasociali, che il legislatore ha introdotto in anni successivi, con l’emanazione del c.d. “testo unico della finanza” (d.lgs. n. 58/1998: artt. 122 e 123) e con la riforma del diritto delle società, che ha novellato il codice civile (art. 2341-bis e 2341-ter c.c.). Ciò avrebbe esonerato i giudicanti – se la questione della durata avesse trovato spazio nella motivazione della sentenza – [continua ..]
Provando a trarre qualche conclusione rispetto all’accordo che ha formato oggetto della sentenza in commento, nel quale i princìpi elaborati in tema di patti parasociali devono coordinarsi con la disciplina del contratto a favore di terzi, può innanzitutto affermarsi che, in un contratto fra soci a favore della società che non preveda un’esecuzione continuativa o periodica, bensì un’esecuzione istantanea, soggetto quindi al termine per l’adempimento stabilito dalle parti o all’applicazione della regola dell’art. 1183 c.c., in mancanza di clausole ad hoc, non è dato diritto di recesso, eventualmente manifestato attraverso il fatto concludente dell’uscita dalla società [59]. Quanto agli effetti dell’uscita dei contraenti dalla società, si deve affermare che all’uscita del promittente non può corrispondere la sua liberazione dalle obbligazioni assunte con il patto; e ciò, sia che le prestazioni in esse dedotte esigano la qualità di socio ai fini del loro adempimento, in tal caso risolvendosi tale uscita in un’impossibilità sopravvenuta imputabile, e commutandosi l’obbligazione non più eseguibile in obbligazione risarcitoria; sia, e a fortiori, che le prestazioni rimangano oggettivamente possibili, come nel caso che ha dato occasione alla controversia, ove si trattava di cedere alla società compendi aziendali. Non lo stesso si direbbe però qualora a perdere la qualità di socio sia lo stipulante; almeno, non in ogni caso. Non si può dunque convenire con la Cassazione che non vi è ragione di distinguere l’ipotesi in cui il socio successivamente uscito dalla società sia quello obbligato da quella in cui sia l’altro socio a dismettere la partecipazione sociale. Si è accennato al fatto che il contratto parasociale a favore della società rinviene, almeno ordinariamente, il suo fondamento causale nello svolgimento delle attività dell’impresa comune; fondamento che sembrerebbe coincidere con l’interesse di cui l’art. 1411 c.c. fa menzione, riferito alla parte ivi detta “stipulante” (salvo quanto sarà poco più avanti osservato sul tema dell’interesse). Non essendo tale parte più astretta al vincolo sociale, e implicata quindi nello svolgimento [continua ..]