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1. Il controllo analogo nell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria. - 2. Il controllo analogo sulle società pubbliche multi-enti. - 3. Il controllo pubblico sulle società miste pubblico-private. - 4. Conclusioni. - NOTE
Il tema da affrontare è quello del controllo pubblico nelle ipotesi particolari, ma ormai molto diffuse nella prassi, delle società pubbliche multi-enti o c.d. società miste pubblico-pubblico (ossia società partecipate da più enti locali o, più in generale, da pubbliche amministrazioni) e delle società miste pubblico-privato, note al nostro ordinamento già da molti anni [1]. Su questo, come su tutta la materia dei servizi pubblici e della concorrenza, gli attori principali sono il giudice comunitario, il giudice nazionale ed il legislatore. Dei tre, l’attore protagonista è stato finora senz’altro il giudice comunitario. Occorre subito precisare che l’orientamento della giurisprudenza comunitaria sui caratteri che deve assumere il controllo pubblico, nelle società pubblico-pubblico e pubblico-privato, dalla sentenza Teckal in poi, non è stato lineare ed univoco. Si parte, con il celebre leading case [2], da un approccio molto rigoroso, che la Corte di Giustizia sviluppa soprattutto nel corso del 2005. Mi riferisco, in particolare, alle sentenze Stadt Halle [3], Parking Brixen [4] e Commissione c. Austria [5] nelle quali la Corte ridisegna in maniera abbastanza restrittiva i limiti dell’in house providing. Con la sentenza Stadt Halle viene esclusa l’ammissibilità della presenza di capitale privato nella società beneficiaria dell’affidamento diretto; con la sentenza Parking Brixen la Corte chiarisce che il controllo azionario da parte dell’ente pubblico socio non è sufficiente ad integrare il requisito del controllo analogo; con la sentenza Commissione c. Austria la Corte lascia intendere che la verifica deve riguardare non solo il momento statico dell’affidamento da parte dell’autorità amministrativa, ma anche i potenziali sviluppi successivi del rapporto concessorio. Quanto al controllo sulle società multi-enti, ritroviamo sempre nel corso del 2005 la sentenza Coname [6], riguardante l’affidamento diretto deliberato dal Comune di Cingia de’ Botti, socio della Padania Acque s.p.a. con una quota di partecipazione irrisoria, inferiore all’1%. In quella occasione, la Corte sembrò escludere in maniera categorica la possibilità di configurare il controllo [continua ..]
Quanto al modello pubblico-pubblico (ossia le società multi-enti a capitale interamente pubblico), può osservarsi che, prima della citata sentenza Coname del 2005 (che parve vietare l’affidamento diretto a società multi-comunali caratterizzate da partecipazioni azionarie esigue), la Quinta Sezione del Consiglio di Stato [19] aveva viceversa concluso per la legittimità dell’affidamento in house da parte di un comune che detenesse solo l’1% del capitale sociale. Nel caso di specie, i comuni soci avevano stipulato delle convenzioni, ossia dei patti parasociali che assegnavano ai sindaci degli specifici “poteri di vigilanza” rispetto al servizio svolto sul proprio territorio. In seguito, la giurisprudenza amministrativa (specialmente quella di primo grado) ha mutato avviso, conformandosi a quanto deciso dalla Corte di Giustizia circa l’illegittimità dell’affidamento in house in presenza di partecipazioni societarie irrisorie. Ma alla progressiva attenuazione del rigore manifestato dai giudici comunitari ha fatto riscontro, soprattutto nel corso del 2009, altrettanta flessibilità da parte del Consiglio di Stato, che in molte occasioni ha dichiarato la legittimità dell’affidamento in house in presenza di partecipazioni azionarie minime da parte dei comuni [20]. Mi sembra di poter dire che dall’intervento ricognitivo dell’Adunanza plenaria [21] non siano scaturite nuove certezze. È semmai interessante analizzare, avendo presente la nota sentenza Carbotermo del 2006, le più articolate soluzioni adottate dalla giurisprudenza italiana rispetto al fenomeno delle holding pluri-comunali. Specialmente nelle realtà degli enti locali di piccole dimensioni, è molto diffuso il ricorso alla holding di mera partecipazione, non operativa, titolare a sua volta dell’intero pacchetto azionario delle società operative nei diversi settori dei servizi pubblici a rilevanza economica. Ci si è chiesti, da tempo, se l’intermediazione della holding sia legittima [22]. Merita di essere ricordata la sentenza con cui il TAR Toscana annullò l’affidamento diretto della gestione del servizio idrico integrato effettuato tramite una holding pluri-comunale, affermando a chiare lettere [continua ..]
Venendo al controllo pubblico sulle società miste pubblico-privato, può segnalarsi in primo luogo l’uniformità di vedute raggiunta dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato in ordine alle vicende di nomina e revoca degli amministratori: secondo l’interpretazione prevalente, si tratta non di esercizio del potere amministrativo, ma di esercizio dei diritti del socio riconosciuti dallo statuto, in virtù dell’art. 2449 c.c. e delle previsioni statutarie che rimettono all’ente locale la nomina e la revoca degli amministratori, con conseguente spettanza al giudice ordinario della giurisdizione sulle relative controversie [28]. Alcune recenti pronunce del Consiglio di Stato (su cui in questa sede non posso dilungarmi) hanno offerto indicazioni sulle condizioni alle quali è legittimo l’affidamento diretto del servizio a società miste [29]. Schematizzando, i presupposti possono essere così individuati: 1) deve esistere una norma di legge che autorizzi l’amministrazione ad avvalersi di tale strumento; 2) il partner privato deve, ovviamente, essere scelto con gara pubblica; 3) l’attività della costituenda società mista deve essere resa, almeno in via prevalente, in favore dell’autorità pubblica che ha proceduto alla costituzione della medesima; 4) la gara (unica) per la scelta del partner e l’affidamento dei servizi deve definire esattamente l’oggetto dei servizi medesimi; 5) la selezione dell’offerta migliore deve essere rapportata non alla solidità finanziaria dell’offerente, ma alla capacità di svolgere le prestazioni specifiche oggetto del contratto; 6) il rapporto instaurando deve avere una durata predeterminata. Meno esplorato dalla giurisprudenza amministrativa è il tema del controllo del socio pubblico sulle società miste. Anche di recente, in dottrina [30], si è evidenziata la natura intrinsecamente ibrida della società pubblica: coesistono il contratto di servizio (tra l’ente-socio e la società) ed i classici poteri autoritativi di revoca, decadenza, riscatto e vigilanza, propri delle fattispecie concessorie. Ci si va interrogando dunque sulla possibilità di configurare un tipo speciale di società, autonomo dai modelli di diritto comune, in considerazione delle rilevanti deviazioni dal regime legale tipico (a [continua ..]
Da ultimo, il legislatore. Come è noto agli operatori del settore, gli interventi di normazione sono stati, nell’ultimo decennio, sin troppo frequenti e schizofrenici. Nelle riforme degli ultimi due anni pare che si possa cogliere un crescente disfavore del legislatore nei confronti del ricorso alle società in house, frutto di una mutata sensibilità politica e degli eccessi che si sono registrati nella prassi [31]. Pur nella persistenza dei regimi transitori (che in Italia, come sappiamo, hanno tradizionalmente durata lunghissima), il modello privilegiato sembra essere oggi quello dell’affidamento dei servizi con gara, rispetto al quale viene posta come alternativa la società mista con soglia minima di partecipazione azionaria del privato (40%) che deve avere requisiti e compiti di socio operativo e non semplicemente finanziario. Vedremo fino a che punto il legislatore conserverà, quale obiettivo strategico, la creazione di un mercato concorrenziale dei servizi pubblici locali, capace di attrarre capitale di rischio. Tutti ricordiamo l’ammonimento di Giuseppe Abbamonte, che tempo fa definì le privatizzazioni italiane “una strana vacca”, che mangia nella greppia del pubblico e fa il latte nel secchio del privato.