Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Il dibattito statunitense sulla business judgement rule: spunti per una rivisitazione del tema (di Danilo Semeghini)


SOMMARIO:

1. Premessa - 2. L’articolazione della business judgment rule e i suoi profili consolidati - 3. Il problema principale: il rapporto con il duty of care - 4. (Segue): le ambiguità del dibattito in argomento - 5. Le giustificazioni a livello funzionale - 6. Le incongruenze di tali argomentazioni: il problema dell’avversione al rischio - 7. (Segue): l’influsso delle dinamiche di mercato - 8. Il carattere non risolutivo delle giustificazioni orientate all’efficienza - 9. L’interrogativo sulle ragioni della business judgment rule a livello formale - 10. (Segue): l’inadeguatezza delle giustificazioni prospettate - 11. La dimensione equitativa del diritto giurisprudenziale del Delaware - 12. (Segue): la spiegazione della business judgment rule come contromisura al connotato equitativo dei fiduciary duties e la difficoltà di trasposizione del paradigma dei torts alla responsabilità degli amministratori - 13. Iniziali implicazioni per l’impostazione del dibattito sulla disciplina italiana - NOTE


1. Premessa

Nell’ambito delle problematiche inerenti alla valutazione della responsabilità degli amministratori di società, la c.d. business judgment rule costituisce, come è noto, un punto di riferimento centrale. Il costante richiamo che viene compiuto nelle riflessioni dottrinali 1, così come l’esplicita menzione che si può trovare sempre meno di rado anche nelle sentenze di merito e di legittimità 2, rendono tale formula una sorta di canone acquisito – sebbene non appositamente articolato sul piano positivo – anche nell’ordinamento societario italiano. La sua provenienza dall’esperienza giuridica anglo-americana richiede di mantenere anche una prospettiva comparatistica nell’affrontare le questioni che permangono intorno a questo concetto. In particolare, il diritto applicato e sviluppato nelle Corti dello stato del Delaware, data la sua ben nota preminenza entro l’orizzonte internazionale del diritto societario, rappresenta un termine di confronto continuo e imprescindibile. Non pare, allora, inutile tentare di svolgere qualche considerazione di approfondimento sul­l’assetto raggiunto nel dibattito intorno alla business judgment rule in quel contesto giuridico. Sebbene, infatti, sia diffusamente conosciuto nei suoi termini essenziali, il quadro offerto sull’argomento dal diritto del Delaware non si presta a una ricostruzione lineare, bensì presenta significativi nodi problematici, sotto più punti di vista. A un primo e più generale livello, in realtà, la business judgment rule rappresenta una formula sintetica per enfatizzare un’esigenza di fondo, pacificamente condivisa e, del resto, difficilmente contestabile: occorre evitare che gli amministratori vengano giudicati responsabili solo perché la loro attività di gestione ha determinato dei risultati negativi per il patrimonio sociale, altrimenti il loro compito – che richiede di effettuare atti e scelte ineludibilmente rischiosi – verrebbe snaturato e si otterrebbe l’effetto di scoraggiare in partenza l’assunzione di incarichi e di rischi in realtà meritevoli di intrapresa 3. Ma se lo scopo ultimo della “regola” non comporta particolari problemi, continuano a porsi, anche nel contesto statunitense, importanti interrogativi su come tale istanza debba essere declinata e precisata sul piano giuridico. [continua ..]


2. L’articolazione della business judgment rule e i suoi profili consolidati

Coerentemente alla sua quintessenziale natura giurisprudenziale, anche nel diritto del Delaware l’articolazione della business judgment rule non è stata cristallizzata a livello legislativo, ma si trova declinata in vari tentativi di formulazione offerti dalla giurisprudenza e dalla dottrina. La frequente ripetizione del concetto attraverso formule non sempre coincidenti costituisce già un primo indicatore della sua problematicità. Come si illustrerà in seguito, infatti, le variazioni verbali che danno specificazione al principio di fondo non rappresentano solo differenze stilistiche, bensì sono spesso il riverbero del principale problema che rimane ancora controverso a livello di impostazione. Tuttavia, se questo risulta con maggiore evidenza nel più ampio orizzonte dell’intero contesto statunitense, il quadro del diritto del Delaware si mostra, in apparenza, relativamente più omogeneo. In particolare, nel caso Aronson v. Lewis la Supreme Court di quello Stato ha sintetizzato le varie enunciazioni della precedente giurisprudenza in una formulazione che è stata da allora assunta come principale – sebbene non esclusivo – punto di riferimento nelle sentenze successive: in essa la business judgment rule è descritta come “a presumption that in making a business decision the directors of a corporation acted on an informed basis, in good faith and in the honest belief that the action taken was in the best interest of the company … Absent an abuse of discretion, that judgment will be respected by the courts. The burden is on the party challenging the decision to establish facts rebutting the presumption” 5. Tralasciando per ora la caratterizzazione della “regola” come presunzione, la sostanza del canone si presenta abbastanza chiara: la responsabilità degli amministratori può essere affermata solo se vengono dimostrati comportamenti contrastanti con i profili oggetto di presunzione. I punti più consolidati di questa formula sono quelli che riguardano la necessità di una condotta in buona fede e l’assenza di un consapevole contrasto con l’interesse della società. È, infatti, pacifico che la preoccupazione di evitare un judicial second-guessing sulle azioni degli amministratori debba passare in secondo piano laddove si riscontrino dubbi sulla correttezza e lealtà delle intenzioni [continua ..]


3. Il problema principale: il rapporto con il duty of care

Il punto della definizione riportata che è invece più esposto a incertezze e discussioni sta nel riferimento alla necessità di valutare se “the directors … acted on an informed basis”. Non è tale espressione a creare di per sé problemi: essa, come già accennato, viene di frequente ripetuta dai giudici e trova corrispondenza anche in altre autorevoli formulazioni 9. Il problema sta, piuttosto, nella questione di vertice cui si riconduce tale espressione. Il riferimento alla necessità di agire in modo informato, infatti, richiama l’altro fondamentale profilo obbligatorio che connota il rapporto fiduciario tra gli amministratori e la società nel contesto di common law, vale a dire il c.d. duty of care. Ma il rapporto con il duty of care costituisce proprio il principale nodo irrisolto in tema di business judgment rule nel contesto statunitense, continuando a essere condizionato da un perdurante margine di ambiguità e incertezza. Al di là delle espressioni verbali, la questione di fondo su cui gli interpreti continuano a dibattere sta nella configurazione di questo rapporto: più precisamente, si discute se la business judgment rule precluda la possibilità di vagliare la condotta degli amministratori sotto il profilo dello standard of care, oppure se essa, al contrario, si limiti a prevedere che il judicial restraint verso le scelte degli amministratori venga meno qualora si riscontri un comportamento negligente, talvolta inteso in senso ampio, talaltra riferito a un più circoscritto ambito del processo decisionale. La variabilità delle espressioni utilizzate in proposito nella definizione della business judgment rule costituisce, come già si accennava, un primo sintomo del problema. La formula più ricorrente evoca, come riferito, un obbligo di assumere decisioni informate, apparendo così collocarsi in una posizione intermedia tra le possibili opzioni. Ma non mancano, da un lato, versioni che si riferiscono in termini più generali alla possibilità per chi agisce in giudizio di superare una “presumption that the Board acted … with due care” 10 e, dall’altro, formulazioni che, al fine di ribaltare la “presunzione”, ammettono soltanto la dimostrazione di comportamenti in conflitto di interessi o in mala fede 11. Anche nella sentenza prima citata, in cui [continua ..]


4. (Segue): le ambiguità del dibattito in argomento

In sintesi, un’attenta lettura del diritto giurisprudenziale non consente di stabilire con certezza se, e in che termini, l’articolazione della business judgment rule comprenda anche una componente riconducibile al duty of care. Il problema, tuttavia, va oltre l’aspetto terminologico e, anzi, sostanzialmente ne prescinde, come dimostrano le vicende del diritto del Delaware nel­l’arco degli ultimi cinquant’anni. In tali vicende, com’è noto, rappresenta uno spartiacque la sentenza più nota e controversa del diritto societario statunitense, Smith v. Van Gorkom, la cui notorietà deriva proprio dal­l’aver affrontato esplicitamente il rapporto tra business judgment rule e duty of care 13. In precedenza, sebbene l’espressa statuizione dell’esistenza di un duty of care in capo agli amministratori sia maturata nella giurisprudenza in discorso con un certo ritardo rispetto ad altri Stati 14, già in altre occasioni, e da diverso tempo, le Corti di primo e di secondo grado avevano affermato che la violazione di fiduciary duty è integrata anche da un comportamento “grossly negligent” e che gli amministratori devono adottare decisioni informate per beneficiare della judicial deference verso le proprie scelte 15. Tuttavia si era trattato di affermazioni teoriche che non avevano mai condotto a pronunce di condanna di amministratori al risarcimento di danni. La novità della decisione della Supreme Court nel caso citato – e la ragione del clamore da essa sollevato – sta nell’essere stata la prima sentenza in quello Stato a censurare l’attività di un board of directors per violazione del duty of care nell’ambito di un’azione di responsabilità 16. La pronuncia ha notoriamente ricevuto molte critiche tra i commentatori statunitensi, anche con toni estremi 17. Ma il dissenso non si è diretto contro i principi di diritto da essa enunciati, bensì contro la valutazione che la Corte ha dato ai fatti di causa alla luce di quelle premesse giuridiche. Tali premesse, a ben vedere, semplicemente riprendevano e sviluppavano in alcune logiche implicazioni gli approdi raggiunti dalla giurisprudenza precedente in tema di business judgment rule e fiduciary duties, peraltro già poco prima riepilogati dalla stessa Corte, come riferito, in Aronson v. Lewis. Anzi, in riferimento ai [continua ..]


5. Le giustificazioni a livello funzionale

Ma gli spunti di maggiore interesse in prospettiva comparatistica appaiono provenire dall’esame dei profili che concorrono a spiegare, sia sul piano funzionale che su quello formale, la conformazione del canone in discorso. Le ragioni di ordine funzionale – che, come è noto, nel contesto statunitense ricevono peculiare considerazione sia nella dottrina che nella giurisprudenza – costituiscono argomento essenziale e condiviso in quasi tutte le innumerevoli opinioni espresse sul tema. Su questo aspetto, le posizioni si differenziano solo per gradazione: mentre chi sostiene una concezione “debole” della business judgment rule come “standard of liability” cerca di contemperare questo tipo di istanze con l’esigenza di non sterilizzare il duty of care degli amministratori 25, chi invece sposa una concezione “forte” dello stesso canone come “abstention doctrine” attribuisce alla prospettiva funzionale importanza dirimente e, proprio in tale prospettiva, ritiene sacrificabile il ruolo svolto dal duty of care 26. Le argomentazioni in proposito sono assai note. Poiché, da un lato, i giudici non hanno competenze ed esperienze adeguate per riesaminare delle decisioni imprenditoriali, per di più spesso complesse, e, dall’altro, la valutazione retrospettiva di scelte aleatorie è inevitabilmente esposta al condizionamento del “senno di poi”, è molto elevato il pericolo che il sindacato giudiziario sull’attività di gestione porti a condannare gli amministratori a ingenti risarcimenti, anche in conseguenza di semplici errori di valutazione o di imponderabili imprevisti, che sono componenti fisiologiche di qualsiasi attività d’impresa. La necessità di offrire agli amministratori un argine contro questo pericolo è allora giustificata non solo dall’esigenza di evitare decisioni ingiuste per esiti che essi non avrebbero comunque potuto evitare, ma soprattutto dall’interesse a non stimolare un’inde­siderabile avversione al rischio, dato che il timore di risarcimenti potenzialmente esorbitanti rispetto al patrimonio individuale potrebbe facilmente indurre anche validi professionisti ad adottare scelte eccessivamente prudenti o, addirittura, a non assumere o a non proseguire l’incarico 27. Molti, poi, osservano anche che, in realtà, le dinamiche concorrenziali con [continua ..]


6. Le incongruenze di tali argomentazioni: il problema dell’avversione al rischio

I ragionamenti esposti, seppur con diversa enfasi, sono richiamati a fondamento della business judgment rule dalla gran parte degli interpreti, più come dato acquisito che come argomento di discussione. Tuttavia, se analizzati con attenzione, specialmente da un punto di osservazione esterno a quel contesto, essi svelano più di un profilo problematico. Innanzitutto, merita qualche ulteriore riflessione il problema dell’avversione al rischio. Come è noto, la prima contromisura a questo problema viene già tipicamente fornita dall’as­si­cu­razione della responsabilità civile. Le c.d. D&O insurance policies, infatti, oltre a essere espressamente contemplate dalla § 145(g) della Delaware General Corporation Law, sono da tempo assai diffuse e vengono normalmente sottoscritte a beneficio di ogni amministratore di società, perlomeno in quelle di significative dimensioni 31. Di per sé, la presenza di tale copertura assicurativa opera a vantaggio sia della società o dei terzi danneggiati, che possono contare su una più sicura possibilità di risarcimento, sia ovviamente degli amministratori, che possono così sottrarsi al pericolo di ingenti esborsi pecuniari e quindi svolgere la propria attività senza il condizionamento di questa preoccupazione. Semmai, come è caratteristico dei rapporti assicurativi, queste polizze possono far sorgere l’opposto problema di moral hazard: ovverosia, il pericolo che l’assicurato assuma condotte eccessivamente rischiose, essendo ormai isolato dalle conseguenze negative del sinistro. Di solito tale problema, oltre a essere circoscritto da vincoli giuridici inderogabili, viene efficacemente affrontato mediante alcuni meccanismi contrattuali: come la fissazione di franchigie e massimali diretta a lasciare un certo margine di esposizione al rischio dell’assicurato; o come, nei rapporti periodicamente rinegoziati, il ricalcolo del premio assicurativo sulla base dei fattori di rischio – inclusa la condotta dell’assicurato – osservati nel periodo precedente 32. Tuttavia, nel caso delle polizze D&O, è normalmente la società a farsi carico della stipulazione e dei costi dell’assicurazione, secondo una prassi ormai considerata precondizione per l’accettazione dell’incarico e parte integrante del compenso [continua ..]


7. (Segue): l’influsso delle dinamiche di mercato

Alla luce degli ulteriori argomenti in precedenza esposti, si potrebbe però replicare che l’opzione di sterilizzare lo standard of care risulta comunque preferibile, oltre che in ragione di un plausibile scetticismo verso la capacità delle compagnie assicurative di esercitare un efficace ruolo di monitoraggio 39, perché lo stimolo a gestire la società nel migliore dei modi è già offerto, secondo le dinamiche prima descritte, dai meccanismi di mercato. Anche questo argomento, tuttavia, richiede un più approfondito esame. Innanzitutto non va dimenticato, specialmente in prospettiva comparatistica, che alcuni di quei meccanismi postulano la presenza di specifiche caratteristiche del contesto socio-economico, tipiche della public company anglo-americana. In particolare, le prospettive di una possibile “scalata ostile” possono influire, ovviamente, solo sulla gestione di società in cui manca una stabile partecipazione di controllo; inoltre, l’argomento della maggior propensione al rischio degli azionisti, derivante dalla diversificazione degli investimenti, presuppone un mercato finanziario che sia significativamente sviluppato e che consenta anche ai piccoli risparmiatori di accedere, mediante i veicoli di investimento collettivo, ai benefici della diversificazione 40; ma soprattutto – anche a tacere dei crescenti dubbi sulla reale deterrenza, in molti ambiti, delle c.d. sanzioni reputazionali 41 – per diversi settori di mercato, incluso quello per gli incarichi gestionali, non può essere data per scontata l’effettiva incidenza delle dinamiche concorrenziali. La validità argomentativa di quei ragionamenti, dunque, è subordinata alla presenza di specifici elementi di contesto non sempre sussistenti, se non anche viziata, almeno in parte, da un certo “modellismo economico”. Tuttavia, anche volendone accettare le premesse, tali argomentazioni non appaiono pienamente persuasive. Per coglierne il motivo, basta ricordare che la diffidenza verso il sindacato giudiziario sulle scelte degli amministratori è generata dal pericolo che il giudizio di responsabilità sia indebitamente condizionato dall’esito negativo delle loro scelte, senza così distinguere comportamenti negligenti da errori incolpevoli o decisioni sfortunate. Ma i meccanismi di mercato, per loro stessa natura, sono ancor più [continua ..]


8. Il carattere non risolutivo delle giustificazioni orientate all’efficienza

Le considerazioni fin qui svolte non portano necessariamente a respingere l’opzione di circoscrivere o eliminare lo standard of care mediante l’applicazione della business judgment rule. Esse, però, mettono in evidenza che le giustificazioni sul piano dell’efficienza, solitamente evocate a sostegno di questa soluzione, si rivelano quantomeno non risolutive e meritevoli di più approfondita discussione, spingendo a interrogarsi ulteriormente sui fattori che contribuiscono a determinare questa posizione consolidata. In particolare, alla luce di quanto esposto, solo una completa sfiducia nella possibilità di riuscire, anche imperfettamente, a valutare in modo fondato e coerente la diligenza della condotta degli amministratori, sembra autorizzare l’opzione di rinunciare in partenza a individuare parametri e strumenti di precisazione dello standard of care, per lasciare esclusivamente alle dinamiche interne ed esterne all’impresa il compito di promuovere una gestione diligente. Del resto, come è stato anche di recente osservato, l’incompetenza asserita dagli stessi giudici non impedisce alle Corti di riesaminare nel merito complesse operazioni, sotto la lente del più stringente standard of fairness, nelle controversie relative alle violazioni del duty of loyalty, nelle quali il margine di discrezionalità e opinabilità delle scelte di gestione non è, comunque, del tutto obliterato 49. Per di più, in conseguenza dell’evoluzione giurisprudenziale sopra descritta, tale sfiducia non pare sostenuta da significative controprove, dato che il carattere solo ipotetico delle enunciazioni, prima, e la diffusione dell’esenzione statutaria, dopo, hanno sostanzialmente evitato di testare l’applicazione giudiziale dello standard of care. Le accese critiche nei confronti del­l’unica decisione in cui ciò è avvenuto sembrerebbero dare prova sufficiente dell’oppor­tu­nità di abbandonare questa strada. Ma, a ben vedere, la valutazione espressa in punto di diligenza nella sentenza Van Gorkom appare tutt’altro che arbitraria e il clamore da essa suscitato sembra, in fondo, da ricondurre ad altri aspetti. Da un lato, il giudizio di grave negligenza pronunciato in quel caso era motivato dal riscontro che, in vista di un’importante decisione come quella relativa all’accettazione di una proposta di [continua ..]


9. L’interrogativo sulle ragioni della business judgment rule a livello formale

Appare, altresì, opportuno tornare sulla conformazione assunta dalla business judgment rule, per mettere a fuoco le sue ragioni anche sul piano più strettamente formale. Pure da questo punto di vista, infatti, non si può affermare che il canone in discorso si presti a una spiegazione lineare. Anzi, come talvolta viene rilevato anche nella dottrina statunitense, questo profilo costituisce uno dei suoi tratti più enigmatici 59. Non soltanto, come riportato in precedenza, nella sua definizione più frequentemente ripetuta la business judgment rule viene caratterizzata come presunzione, quando in realtà essa non comporta alcuna inversione dell’onere della prova 60. Ma, soprattutto, dal punto di vista logico, non risulta immediato cogliere perché sia necessaria una “regola” apposita per declinare sul piano giuridico il principio che essa è diretta a realizzare. Come sin qui illustrato, al di là di una generica funzione di riepilogo dei fiduciary duties nella prospettiva dello scrutinio giudiziario, il ruolo specifico della business judgment rule consiste nella demarcazione del confine oltre il quale non si può spingere il riesame delle scelte degli amministratori. Per le ragioni già accennate, questa funzione pone come problema principale la delimitazione della revisione sotto lo standard of care. Ma, se il problema è quello di circoscrivere l’applicazione di tale standard per evitare un judicial second-guessing, perché allora non provvedere direttamente, a seconda delle tesi sostenute, a precisare i contorni del duty of care o a dichiararne la non applicabilità, invece che invocare un ulteriore concetto giuridico per “cancellare” in parte o in toto quei contorni? A ben vedere, infatti, il problema di delimitare il safe harbor offerto dalla business judgment rule coincide con il problema di definire i limiti dell’obbligazione fiduciaria. Si tratta dello stesso confine, semplicemente visto dalle due diverse parti del campo 61. Eppure, sia nella giurisprudenza che nella dottrina, il problema viene solitamente impostato partendo dal concetto “secondario”, mentre il contenuto dell’obbligazione “primaria” viene raramente articolato, al di là della generica parafrasi del “duty to act with the care that an ordinarily prudent person would reasonably be expected to [continua ..]


10. (Segue): l’inadeguatezza delle giustificazioni prospettate

Il quesito posto, dunque, interroga l’impostazione di fondo della business judgment rule, comune alla gran parte delle opinioni espresse in dottrina e giurisprudenza, e si rende soprattutto evidente in relazione alla sua versione “debole” 66 – che è quella, almeno quanto a enunciazioni verbali, più ripetuta nel diritto del Delaware. Se, in tali formulazioni, viene indicata la necessità che, per beneficiare dell’esenzione dal riesame giudiziale, gli amministratori devono aver adottato una decisione informata, viene da chiedersi perché ricorrere alla (impropria) presunzione della business judgment rule e non identificare direttamente il duty of care in quei termini, cercando di precisarne i profili. D’altra parte, se, nell’orientamento più astensionista, la funzione della business judgment rule è solo quella di ridurre lo standard of review al mero controllo della buona fede e dell’indipendenza degli amministratori, allora si tratta semplicemente di un modo opaco e foriero di confusione per obliterare il duty of care e, pertanto, dovrebbe essere più apertamente dichiarato. D’altro canto, si potrebbe comprendere la necessità del doppio passaggio se, per qualche ragione, esso rendesse più agevole la delimitazione del confine in questione. Ma, come si è riportato, a livello sia verbale che concettuale, la business judgment rule – che in realtà non è una rule, bensì una sorta di combinazione di altri standards 67 – presenta margini di incertezza e ambiguità, per cui il problema non sembra semplificarsi, ma solo spostarsi da una parte all’altra del limite da tracciare. Anzi, parte della confusione che circonda le discussioni intorno alle concezioni della business judgment rule sembra derivare proprio da una non esplicitata diversità di interpretazioni del duty of care 68. Né pare sufficiente, per dare adeguatamente ragione dell’impostazione evidenziata, la sottolineatura del carattere eminentemente giurisprudenziale del problema che la business judgment rule è diretta ad affrontare, oltre che dello stesso diritto societario nei sistemi di common law. Se si tratta di un aspetto incontestabile, è anche vero, d’altra parte, che pure il duty of care degli amministratori ha origine giurisprudenziale 69 e può ugualmente conformarsi [continua ..]


11. La dimensione equitativa del diritto giurisprudenziale del Delaware

L’interrogativo non pare, dunque, trovare soluzione soddisfacente nelle spiegazioni prospettate. Tuttavia, l’esame di un’altra nota e discussa decisione della Supreme Court offre lo spunto per un’ulteriore ipotesi esplicativa, che sembra dare più adeguatamente ragione dei vari elementi del quadro. Nel caso Cede v. Technicolor 75, un azionista lamentava che gli amministratori di Tech­ni­color avessero violato i loro fiduciary duties nel valutare un’offerta di acquisto delle azioni della società, finalizzata alla successiva fusione con la società acquirente. Nel giudizio di primo grado, la Court of Chancery aveva stabilito che – anche assumendo che il comportamento del board fosse stato gravemente negligente e, perciò, che non potesse beneficiare della protezione della business judgment rule – l’attore non aveva dimostrato che tale inadempienza aveva causato un danno e, di conseguenza, la domanda era stata rigettata 76. Nel giudizio di secondo grado, invece, la Supreme Court ha ritenuto errato il ragionamento del primo giudice, affermando che, se l’attore supera la “presunzione” della business judgment rule dimostrando la negligenza degli amministratori, allora grava su questi ultimi l’onere di dimostrare l’”entire fairness” dell’operazione sotto esame. Conseguentemente, la causa è stata rinviata alla Court of Chancery, affinché valutasse nuovamente la condotta degli amministratori in base all’entire fairness standard 77. Anche questa sentenza è stata oggetto di molte critiche per aver sottoposto, sulla scia del caso Van Gorkom, l’operato degli amministratori a un vaglio ancor più esigente, esentando l’attore persino dalla dimostrazione del danno e del rapporto causale 78. In tema di duty of care, la decisione, in effetti, si pone espressamente in continuità con l’impostazione del caso Van Gorkom. Ma, come illustrato in precedenza, sul punto essa non presenta particolari incongruenze. L’aspetto più problematico della decisione sta, invece, nel successivo passaggio: prima ancora della distribuzione dei carichi probatori, non è, infatti, immediatamente chiaro che senso abbia sottoporre una condotta, che è già stata giudicata negativamente sotto il profilo dello standard of care, a un nuovo vaglio sotto il [continua ..]


12. (Segue): la spiegazione della business judgment rule come contromisura al connotato equitativo dei fiduciary duties e la difficoltà di trasposizione del paradigma dei torts alla responsabilità degli amministratori

Sebbene si trovi spesso menzionata nella giurisprudenza e nella dottrina statunitensi, questa caratteristica non pare, tuttavia, mai stata messa esplicitamente in relazione alla business judgment rule. Eppure, l’interrogativo circa la giustificazione di tale canone sul piano giuridico-formale sembra trovare più soddisfacente risposta, se ripensato alla luce di tale aspetto. Nel quadro di un giudizio equitativo, infatti, i fiduciary duties assumono il ruolo di linee direttive di decisione, che certamente orientano il sindacato del giudice, ma che non possono essere assunte come criteri dirimenti per un giudizio definitivo e certo, poiché le esigenze di equità complessiva del caso concreto potrebbero spingere il giudice ad andare oltre la puntuale conformità dei comportamenti a quei criteri. Se questa attitudine, come si è in precedenza osservato, può tornare a vantaggio dell’amministratore – quando, pur in presenza di comportamenti non pienamente conformi ai fiduciary duties, la condanna sarebbe comunque sostanzialmente ingiusta – d’altra parte potrebbe, in teoria, anche volgere a suo sfavore – tutelando la società, ove appaia più giusto far ricadere il pregiudizio sofferto sugli amministratori, pur in presenza di comportamenti formalmente legittimi 88. Ma questa seconda eventualità, per le ragioni sin dall’inizio richiamate, rappresenterebbe un fattore di ingestibile incertezza per i gestori dell’impresa. Pertanto, si rende necessaria un’autonoma formula giuridica, che “copra” – come una sorta di “presunzione” sull’equità del caso – lo spazio di una valutazione sfavorevole all’amministratore e impedisca al giudice di addentrarvisi, salvo che nei casi specificamente individuati. La business judgment rule e la sua peculiare operatività paiono, allora, trovare un’autentica giustificazione – a prescindere, nella prospettiva che qui interessa, delle contingenti motivazioni storiche, se ve ne sono, per cui essa sia sorta – in questa funzione “ausiliaria”, che trova la sua ragione nell’esposizione dei precetti “principali” a un’applicazione di tipo equitativo e che non può, pertanto, essere realizzata attraverso gli stessi obblighi fiduciari. Si può, così, meglio cogliere anche in che senso si tratta di [continua ..]


13. Iniziali implicazioni per l’impostazione del dibattito sulla disciplina italiana

Trattandosi di meri spunti di riflessione, come premesso all’inizio, occorrerebbe approfondire ben più a lungo il discorso per individuare a quali approdi possano condurre le considerazioni svolte, sia in riferimento alla business judgment rule nel diritto statunitense, sia rispetto alle analoghe problematiche che si presentano nella disciplina italiana. A quest’ultimo riguardo, però, qualche iniziale implicazione già emerge. A un livello più generale, per esempio, il margine di ambiguità e la ridotta significatività delle enunciazioni che, come si è evidenziato, condizionano i discorsi intorno alla business judgment rule nel contesto statunitense, indicano, innanzitutto, che la facile ambivalenza e genericità dei riferimenti e delle affermazioni, attraverso cui si tenta di dare soluzione giuridica al problema del sindacato giudiziario sulle scelte di gestione, costituisce in realtà parte essenziale del problema. Pertanto, i rilievi svolti suggeriscono prioritariamente di sorvegliare tale pericolo di “avvitamento” del dibattito, che, essendo connaturato al problema sottostante, non può dirsi estraneo nemmeno al contesto italiano. Gli stessi richiami all’esperienza giuridica d’oltre­ocea­no, per esempio, possono richiedere ulteriori precisazioni, dato che, come si è illustrato, quando si fa riferimento al concetto di business judgment rule, si può evocare, in realtà, soluzioni giuridiche e concezioni sottostanti anche significativamente diverse tra loro, al di là del generico richiamo all’istanza di fondo. Similmente, gli accostamenti e le relazioni stabilite in dottrina tra il criterio di diligenza di cui all’art. 2392 c.c. e altri concetti di analogo tenore – come, per esempio, il criterio di ragionevolezza o i principi di corretta amministrazione evocati negli artt. 2403 e 2497 c.c. – pongono anche l’esigenza di curare che le affermazioni a tale livello di generalità non pregiudichino la chiarezza dei termini del discorso. Nemmeno le considerazioni emerse in relazione alle giustificazioni della business judgment rule sul piano funzionale appaiono estranee ai problemi applicativi della corrispondente disciplina italiana. È pur vero, infatti, che quei ragionamenti riguardano soprattutto l’orientamento più radicalmente avverso al controllo giudiziale sulla [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2013