<p>Impresa Società Crisi di Palazzolo Andrea, Visentini Gustavo</p>
Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Il fallimento della società di fatto fra società di capitali (di Andrea Tucci)


SOMMARIO:

1. La società di fatto fra diritto dell’impresa (in crisi) e diritto delle società - 2. La partecipazione di società di capitali a società di fatto - 3. Partecipazione di fatto e assunzione di partecipazioni - 4. La sentenza di Cass., n. 1095/2016 - 5. Società di fatto e disciplina societaria - NOTE


1. La società di fatto fra diritto dell’impresa (in crisi) e diritto delle società

Nel contesto della crisi d’impresa, la società di fatto fra società di capitali è unatecnica argomentativa, volta a estendere la responsabilità patrimoniale per atti d’impresae a reprimere gli abusi della personalità giuridica, in virtù dell’applicazionedel disposto dell’art. 147, legge fall. e, dunque, della “estensione” del fallimentoalle società-socie 1. A questo risultato conduce un’utilizzazione “selettiva” del diritto societario,fondamentalmente, quale disciplina dell’imputazione di un’attività d’impresa effettivamentesvolta, pur in assenza della spendita del “nome sociale”, nel compimentodei singoli atti. Il che può apparire paradossale, ove si consideri che, comenoto, l’esercizio effettivo dell’attività non costituisce un requisito per l’assunzionedella qualifica di imprenditore, da parte di una società, là dove, nel caso inesame, è proprio la “constatazione” dell’esercizio effettivo (e “collettivo”) di un’impresa a costituire il presupposto per l’accertamento di una società 2. A quest’ultimo riguardo, va detto che, nell’accertamento dell’esistenza del sodalizio, la giurisprudenza procede a una semplificazione della fattispecie prevista dall’art. 2247, cod. civ., espungendone il requisito del patrimonio comune, risultante dai conferimenti, e, dunque, trascurando, nel fenomeno societario, la disciplina dell’organizzazione di una determinata attività e dei beni destinati al finanziamento dell’attività medesima 3. Per questo aspetto, la locuzione “società creata di fatto”, coglie, forse, meglio – nella sua ambiguità lessicale – il fenomeno della qualificazione ex post di determinati comportamenti, ritenuti sintomatici della (o, comunque, equiparati, quoad effectum, alla) esistenza di un vincolo societario, non “formalizzato” e, dunque, soggetto alla disciplina della “società irregolare”, di cui agli artt. 2297 e 2317 c.c. I problemi che questa costruzione pongono derivano dalla sovrapposizione e dalla difficile conciliazione di princìpi del diritto dell’impresa (elaborati, poi, con riferimento all’imprenditore persona fisica) e [continua ..]


2. La partecipazione di società di capitali a società di fatto

Una “complicazione” ulteriore sussiste, nel caso in cui si proceda all’accerta­mento di una società di fatto fra o con società di capitali, dovendosi valutare la “tenuta” della costruzione in esame, anche alla luce delle regole che disciplinano l’organizzazione corporativa. Queste ultime possono, pertanto, essere percepite dall’interprete come un ostacolo da “demolire” ovvero da “aggirare”, come testimonia la recente sentenza di Cass., n. 1095/2016, che procede, dapprima, a una sostanziale “neutralizzazione” della disciplina contenuta nell’art. 2361, 2° comma, per poi pervenire a una sua disapplicazione, rispetto alla fattispecie della società di fatto (in particolare – ma non soltanto –, allorché ad essa partecipi una società a responsabilità limitata). In questo contesto, si comprende il costante “confronto” e “scontro” con il tema – in realtà non coincidente e, per certi aspetti, non pertinente, rispetto ai problemi della società di fatto – della assunzione di partecipazioni, da parte di società di capitali in società di persone. E ciò sebbene non sia mancata, in dottrina, la percezione e la distinzione dei problemi. Emblematica la posizione di Salvatore Satta, il quale ammetteva la formale assunzione di partecipazioni, ma escludeva la società di fatto fra società di capitali, sulla base di argomenti ancora oggi meritevoli di attenta considerazione (cfr. infra, § 5). Prima della riforma organica del diritto societario, il dibattito sulla partecipazione di società di capitali a società di fatto era condizionato dalla risalente (e, si ripete, del tutto differente) questione della ammissibilità della assunzione di partecipazioni in società di persone, da parte di società di capitali14. La tesi della inammissibilità era stata accolta dalle Sezioni Unite, nella sentenza 17 ottobre 1988, n. 5636, considerata come una “pietra tombale” sulla configurabilità di società di fatto fra o con società di capitali, anche in considerazione della circostanza che la Corte si era pronunciata, con riferimento una fattispecie, rispetto alla quale si registravano maggiori aperture, anche da parte della dottrina più [continua ..]


3. Partecipazione di fatto e assunzione di partecipazioni

Se, in precedenza, il principale ostacolo (vero o anche soltanto percepito), rispetto alla teoria in esame, era costituito dal “diritto vivente” delle società di capitali, a seguito della riforma del diritto societario, l’attenzione degli interpreti si è spostata sul “diritto positivo” e, in particolare, sulla dis/applicazione dell’art. 2361, 2° comma, c.c., con l’ulteriore complicazione (statisticamente tutt’altro che irrilevante, nella prassi) derivante dall’assenza di analoga disposizione nel contesto della società a responsabilità limitata. La novella del codice civile trova la sua origine storica nell’obiettivo di risolvere la questione, di diritto societario, della ammissibilità dell’assunzione di partecipazioni in società di persone da parte di società di capitali, alla luce delle norme imperative che disciplinano l’amministrazione del patrimonio sociale e il bilancio, anche nell’interesse dei terzi, così come interpretate e applicate dal “diritto vivente”, soprattutto a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite. E ciò sebbene la fattispecie regolata non coincida con quella dell’assunzione di partecipazioni in società di persone. L’inammissibilità della partecipazione (e la nullità virtuale del contratto di acquisizione, ex art. 1418, 1° comma, c.c.) sarebbe discesa – ad avviso di Cass., Sez. Un., n 5536/1988 – dal “contrasto che, nell’amministrazione del nuovo ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per la società azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre, ammettendosi la partecipazione ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l’amministrazione della società di capitali”. In sintesi, la Cassazione riteneva inammissibili “una delega permanente delle funzioni di amministrazione della partecipazione sociale” e “la dissociazione fra i poteri di amministrazione e l’impegno del capitale sociale nell’esercizio dell’im­presa, che nella società per [continua ..]


4. La sentenza di Cass., n. 1095/2016

Entrambi i percorsi argomentativi sono sviluppati nella sentenza di Cass., n. 1095/2016, con ampia e, per certi aspetti, “sovrabbondante” argomentazione, ove si consideri che gran parte della motivazione (§§ 1-4) costituisce, in realtà, un obiter dictum. Il “depotenziamento” della disciplina contenuta nell’art. 2361, 2° comma, c.c., è incentrato, fondamentalmente, sulla qualificazione della deliberazione assembleare in termini di autorizzazione, dotata di una mera valenza organizzativa interna, ma del tutto irrilevante nei rapporti con i terzi, alla luce della disciplina della rappresentanza degli amministratori, che rende inopponibile – salva l’exceptio doli – l’eventuale dissociazione del potere rappresentativo dal potere gestorio e finanche l’estraneità dell’atto all’oggetto sociale. Sarebbe, questa, una precisa scelta del legislatore, che tutela l’affidamento dei terzi, d’altronde in conformità con il diritto comunitario (attualmente: Direttiva 2009/101/CE). Questa conclusione sarebbe valida anche per la società a responsabilità limitata, in virtù della analoghe disposizioni contenute nell’art. 2475-bis, anche a voler prescindere dal problema dell’ap­pli­cazione analogica o estensiva dell’art. 2361, 2° comma. L’omessa informazione della partecipazione nella nota integrativa di bilancio, d’altronde, sarebbe un adempimento successivo all’assunzione della partecipazione, che non ne potrebbe inficiare la validità, pena la troppo agevole elusione della disciplina fallimentare, in virtù di condotte pur sempre imputabili agli amministratori della società-socio. La “disapplicazione”, in termini generali (non soltanto, dunque, per la società a responsabilità limitata), dell’art. 2361, 2° comma, c.c. si fonda, come si è anticipato, sul rilievo – di per sé condivisibile – secondo cui la fattispecie sottesa alla disciplina in esame è quella dell’assunzione espressa di partecipazioni, là dove, in materia fallimentare, si discute, principalmente, di società di fatto, nell’accezione di “sociétés créées de fait” e, dunque, di qualificazione giuridica ex post dell’effettiva [continua ..]


5. Società di fatto e disciplina societaria

L’inammissibilità della partecipazione di una società di capitali in società di fatto può essere sostenuta, sulla base di un diverso percorso argomentativo, che prenda le mosse dalla considerazione della società quale disciplina organizzativa e non, invece, (soltanto) quale tecnica di imputazione di un’attività, secondo il diffuso approccio della giurisprudenza fallimentare. Un’attenta dottrina aveva bene sintetizzato il problema della in/ammissibilità di società di fatto con/fra società di capitali, osservando che “la società di capitali costituisce una normativa chiusa, che non consente evasioni, e così attività che non siano direttamente e immediatamente riconducibili a quella normativa. In altre e più semplici parole, la società, che è un ente essenzialmente strumentale, non può operare attraverso un altro strumento, quale è un’altra società, quasi sostituendo questa a se stesso, a meno che ciò non sia reso possibile dalla legge stessa della società, con una specifica previsione delle norme statutarie” 22. In effetti, la teorica della società di fatto fra società di capitali realizza una sostanziale “demolizione” dell’organizzazione corporativa delle società di capitali, attribuendo una determinata qualificazione (i.e., atti di un’impresa sociale) ad atti dei soci o degli amministratori, posti in essere in violazione della disciplina positiva. Il che si traduce, a ben vedere, in un uso strumentale della teoria della persona giuridica, poiché, enfatizzando la visione “antropomorfica” della società personificata – e, dunque, trasponendo un modello ricostruttivo di comportamenti di persone fisiche –, ne trascura la realtà di una disciplina, la cui osservanza soltanto legittima la “finzione” dell’imputazione degli atti a un soggetto distinto dai soci. Il fenomeno dell’abuso della personalità giuridica, per contro, pone un problema di responsabilità della società per gli atti illeciti dannosi posti in essere dai suoi amministratori, anche in violazione della disciplina positiva, ovvero della responsabilità dei soci, per analoghe forme di interferenza nella gestione di un’impresa. In tal [continua ..]


NOTE