<p>Il diritto della crisi e dell'insolvenza - Jorio</p>
Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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'Good faith', buona fede: verso 'nuovi doveri' degli amministratori di s.p.a.? (di Alessandro Morini)


SOMMARIO:

1. Premessa. - 2. Ascesa e caduta del duty to act in good faith quale dovere autonomo degli amministratori di società per azioni nella giurisprudenza del Delaware. - 3. Conclusioni provvisorie. - 4. Premesse all'approccio comparativo all'ordinamento italiano. - 5. I constraints propri dell'ambiente giuridico-economico italiano. - 6. Il riscontro giurisprudenziale: dal caso Pavolini c. RAI alla 'procedimentalizzazione' del­l’attività consiliare o di amministrazione in genere. - 7. Note minime in tema di standard, test e clausole generali nell’ambito della 'procedimentalizzazione' della decisione: inside the 'black box' of the board’s business decision. - NOTE


1. Premessa.

L’articolazione dei doveri fiduciari degli amministratori di società per azioni ha costituito, negli ultimi trent’anni – e continua tuttora a costituire – negli Stati Uniti, uno degli argomenti centrali del dibattito giuridico nel campo del diritto societario. Tradizionalmente articolati nella diarchia rappresentata dal duty of care e duty of loyalty i doveri degli amministratori sono stati scompaginati da una decisione della giurisdizione del Delaware che, atteso l’elevatissimo numero di società ivi costituite, rappresenta, con la propria giurisprudenza, il centro motore dell’evoluzione pretoria del diritto societario americano. Gli scopi che le note che seguono sono – auspicabilmente – destinati a raggiungere possono essere così articolati. In primo luogo descrivere entro quale contesto – casistico e dottri­nale – nel­l’or­dinamento statunitense è venuto a delinearsi un autonomo dovere di buona fede degli amministratori di società, se esso abbia persistenza attuale e le critiche avanzate contro tal­e orientamento. Successivamente esaminarne i confini e la funzione con la finalità di evidenziare l’attribuzione al duty of good faith il ruolo di standard of conduct piuttosto che di standard of liability e le implicazioni, in termini funzionali, che tale qualificazione comporta con riguardo alla clausola generale implicat­a. Alla luce delle risultanze raggiunte con riguardo al contesto nordamericano verificare se, anche nell’ordinamento italiano, la giurisprudenza – sulla base di un giudizio prognostico ovvero in concreto – utilizzerebbe od utilizza la clausola generale di buona fede nell’ambito della responsabilità degli amministratori ed, in caso di risposta positiva, quale valenza sistemica attribuire a ciò. Infine verificare limiti e potenzialità della trasposizione nell’ordinamento societario italiano, per come riformato, delle funzioni attribuite ad dovere di buona fede dalla giurisprudenza nordamericana laddove non sia possibile ricomprenderle nel tradizionale inquadramento della responsabilità degli amministratori.


2. Ascesa e caduta del duty to act in good faith quale dovere autonomo degli amministratori di società per azioni nella giurisprudenza del Delaware.

La genesi e lo sviluppo e – forse – la decadenza di un autonomo dovere di buona fede in capo agli amministratori di società per azioni deriva integralmente da una successione di decisioni giurisprudenziale e dai relativi prodotti sull’assetto normativo dei doveri degli amministratori nel Delaware, prima; e, conseguentemente nelle altre giurisdizioni statali statunitensi. 2.1. Gli antefatti: Smith v. Van Gorkom all’alba della stagione delle acquisizioni. – Non sembra si possa dubitare del fatto che la decisione da parte della Corte Suprema del Delaware nel caso Smith v. Van Gorkom [1] possa considerarsi la causa remota dei successivi sviluppi giurisprudenziali, legislativi e dottrinali relativi – in approssimazione generale – all’articolazione dei doveri degli amministratori e – con maggiore approssimazione al tema qui in discussione – all’esi­stenza uno specifico ed autonomo dovere di buona fede in capo agli amministratori: a dimostrazione di ciò – anche senza ricorrere alla enfatica definizione di essa quale più importante decisione del XX secolo [2] – sarebbe sufficiente la citazione della bibliografia specifica che la concerne [3]. La vicenda giurisprudenziale non poteva che emergere nel contesto di una fra le attività, quella ferroviaria, che costruirono la fortuna industriale americana [4] e rimanervi anche nel succedersi del tempo [5]. Le caratteristiche della fattispecie rappresentano, ad un primo esame, un caso di scuola; nessuno degli amministratori agì fraudolentemente, in violazione della legge o nel perseguimento di interessi personali e, quindi, non ricorreva alcuna delle eccezioni idonee a superare le presunzioni che stanno alla base della business judgment rule, cioè che gli amministratori agiscano informati, in buona fede e nell’interesse della società [6]. Tuttavia nella decisione si afferma che la mancata messa a disposizione dei componenti del consiglio di amministrazione di tutte le informazioni disponibili [7] al fine di assumere la decisione più opportuna costituisce l’autonoma violazione del dovere di buona fede che graverebbe sugli amministratori e non ricade nella protezione approntata dalla business judgment rule [8]. Per valutare o meno la ricorrenza di tali presupposti occorreva ripercorrere tutto il processo decisionale seguito dal [continua ..]


3. Conclusioni provvisorie.

Aldilà del riconoscimento della sussistenza o meno di un autonomo dovere di buona fede in capo agli amministratori di società restano alcune valenze esplicite dell’articolato dibattito nordamericano su questo tema. La prima attiene al riconoscimento che la incrementata complessità della gestione dell’im­presa conseguente alle dimensioni ed ai condizionamenti ambientali esterni rende sempre più difficile procedere ad una riduzione ad unità dei doveri che gravano sugli amministratori; cioè, in altri termini, un processo di semplificazione della complessa materia degli standard di comportamento amministrativo e del processo decisionale dei managers – per quanto proficuo dal punto di vista della teoria normativa delle decisioni [37] – si rappresenta del tutto irrealistico ove si voglia procedere sul versante della descrizione delle variabili proprie di tale processo decisionale con la finalità di elaborare un più accurato set predittivo delle scelte amministrative. Per altro verso, si deve rilevare che il tema dei doveri degli amministratori si trova all’in­crocio di un complesso di problematiche e discipline per le quali si stenta a trovare un quadro comune di analisi. Da un lato, infatti, troviamo, sul terreno più schiettamente giuridico, il contrasto tra le costruzioni – nel contesto culturale americano – del fenomeno societario sui versanti contrapposti delle teorie contrattualistiche e culturali; ma nel contempo altri settori disciplinari hanno, da lungo tempo, visto la contrapposizione tra modelli normativi e descrittivi della teoria delle decisioni dalle quali consegue una più accurata evidenziazione che tali processi decisionali, pur ponendosi degli obiettivi ottimali, sono soltanto in grado di raggiungere obiettivi soddisfacenti [38]. Tutto ciò non è privo di effetti in relazione al processo giudiziale di accertamento circa la sussistenza o meno della responsabilità degli amministratori; infatti la revisione del comportamento decisionale degli amministratori e la sua corrispondenza agli standard normativi minimi per essa richiesti avviene temporalmente dopo l’assunzione delle decisioni con la possibilità, quindi, di avvalersi di elementi conoscitivi ignoti o imponderabili nel momento in cui la decisione fu assunta: da ciò deriva l’impossibilità di avvalersi di [continua ..]


4. Premesse all'approccio comparativo all'ordinamento italiano.

La traslazione nel contesto nazionale dei principi esaminati all’interno della evoluzione dell’ordinamento nordamericano presuppone un approccio di duplice livello; esso, per semplicità, può essere descritto come induttivo e deduttivo. Il primo di essi muove da una consolidata esperienza compiuta dalla dottrina comparatistica ed è costituito, in essenza, dalla riproposizione di fattispecie materiali identiche e dalla valutazione della relativa disciplina nei singoli ordinamenti [41]; al contrario il secondo presenta evidenti elementi costruttivistici poiché individua i confini contenutistici di un principio e ne deduce l’applicabilità diffusa muovendo dalla ricorrenza epifanica all’interno di un ordinamento giuridico determinato. Giova qui notare che il primo dei due approcci esaminati – e di cui si prospetta l’impiego – soffre, quanto all’ordinamento italiano, in confronto con quello statunitense, di alcune limitazioni ed aporie di cui è opportuno dare conto allo scopo di circoscrivere la capacità euristica della metodologia impiegata. Si è, infatti, osservato che la giurisprudenza del Delaware – che costituisce in materia societaria il benchmark di riferimento del complesso degli ordinamenti statali americani – presenta evidenti profili di caratterizzazione e di unicità. Anzitutto la circostanza che la Court of Chancery sia tuttora una corte di “equity pura” all’interno di una giurisdizione che conserva – caso unico – la distinzione tra giuridizione di common law e di equità [42]. Ciò comporta l’aderenza ai caratteri originari della giurisdizione di equity connotata dalla eccezionalità e dalla residualità del rimedio. L’adesione a tale finalità comporta chiari effetti sia sull’attività operativa che sulle sue modalità. Quanto a queste ultime è di tutta evidenza che nella decisione delle singole fattispecie societarie ricorre una particolare ricostruzione del caso che si articola in un esame minuzioso delle circostanze di fatto che costituiscono il background della fattispecie stessa in funzione di rappresentare non l’articolazione formale della controversia, quanto piuttosto il suo contenuto reale ed il ruolo che i singoli attori di essa svolgono, anche avuto riguardo all’am­biente socio-economico in [continua ..]


5. I constraints propri dell'ambiente giuridico-economico italiano.

Il contesto economico-giuridico entro il quale si colloca l’azione amministrativa delle s.p.a. non è privo di rilevanza quanto all’approccio deduttivo appena delineato. Il modello di assetto proprietario delle società italiane, indipendentemente dall’accesso o meno al mercato dei capitali, è caratterizzato per comunis opinio dalla concentrazione proprietaria che rende, quindi, possibile identificare di volta in volta soggetti capaci di esercitare il controllo capitalistico o di fatto sulle singole società; episodico è, al contrario, il fenomeno della proprietà diffusa del capitale sociale: creandosi, in tal modo, un sostanziale iato con il modello societario americano orientato in senso opposto. Sul versante giuridico non può, invece, dimenticarsi l’evoluzione storica del rapporto tra soci ed amministratori della società per azioni. Esso, infatti, procedeva, nella dimensione del Codice di Commercio del 1882, dalla relazione di puro e semplice mandato dei soci, riuniti in assemblea, a favore degli amministratori affinché dessero attuazione alle deliberazioni assunte. Solo con l’introduzione del codice civile e la diretta integrazione tra società ed impresa tale situazione subiva una prima, ma comunque incompleta, attenuazione. Ed è, infine, in tempi assai recenti, con la riforma della disciplina societaria, che si addiveniva ad una completa separazione del potere gestorio e la sua definitiva attribuzione ai soli amministratori. Tale situazione includeva, quindi, l’impostazione teorico-normativa riguardante l’agire degli amministratori ancorata ai modelli propri della dimensione dell’amministrazione di diritto privato; l’agire degli amministratori è, cioè, visto come il compimento di atti e non come attività decisoria-esecutiva [49] diretta all’attuazione del programma societario da intendersi come attività di produzione giuridica conseguente al contratto associativo. Da ciò i criteri di responsabilità degli amministratori esemplati sul modello (mandato) del compimento di atti in nome e per conto altrui (i soci). Combinando entrambi gli elementi sopra delineati emergono alcune significative potenzialità esplicative. Con riguardo al modello di assetto proprietario esistente privo della separazione tra proprietà e controllo e nel quale gli amministratori o [continua ..]


6. Il riscontro giurisprudenziale: dal caso Pavolini c. RAI alla 'procedimentalizzazione' del­l’attività consiliare o di amministrazione in genere.

Non è agevole individuare una selezione di decisioni, quantitativamente significative, che autorizzi a predicare, fuori del richiamo di stile, anche nell’ordinamento italiano, l’esistenza di un autonomo dovere di buona fede degli amministratori. Non è dunque di poco momento che, nella ridotta epifania della casistica giurisprudenziale, una delle decisioni che pongono al centro la valutazione del comportamento secondo buona fede degli amministratori attenga proprio alla procedimentalizzazione dei lavori consiliari [70]. In tale decisione la buona fede degli amministratori costituiva il parametro entro cui ridurre ad unità [71] una serie di comportamenti degli amministratori che, muovendo dal difetto di istruttoria dei lavori del collegio, si articolava nell’omissione di valutazioni esterne acquisite nel corso del procedimento, fino a sfociare nella violazione della disciplina del regolamento del consiglio di amministrazione che imponeva di trasmettere tempestivamente una documentazione idonea ad assumere la decisione [72]. Questa impostazione – che privilegia lo schema del processo attraverso cui si perviene alla decisione (e, quindi, le componenti oggettive e soggettive di tale percorso) – rappresenta una vena carsica nella giurisprudenza che, con il trascorrere del tempo, incrementa le proprie apparizioni in superficie. Si deve infatti rilevare che, sotto il mantello della verifica del rispetto da parte dell’am­ministratore dell’obbligo di diligenza accompagnato dall’ovvio riconoscimento della insindacabilità delle scelte di gestione alla luce dei risultati raggiunti (c.d. business judgement rule), si nasconda la costruzione di un set di regole proprie della razionalità procedurale delle scelte di gestione che rappresenta, alla luce delle considerazioni sopra svolte, comparativamente anche il cuore dell’impiego del duty of good faith da parte di giudici e dottrina americana. Una prima evidenza è riconducibile alla tematica della vincolatività per gli amministratori dei programmi di amministrazione che essi, all’interno dell’organo di gestione, autonomamente si danno [73]: non è chi non veda come la materia sia apparentabile con quella appena esaminata della cogenza di regolamenti interni al consiglio. Gli amministratori subiscono un vincolo decisionale parziale in conseguenza della dichiarazione preventiva [continua ..]


7. Note minime in tema di standard, test e clausole generali nell’ambito della 'procedimentalizzazione' della decisione: inside the 'black box' of the board’s business decision.

Non costituisce, ovviamente, finalità di queste brevi considerazioni sull’evoluzione del dovere di buona fede applicato all’agire degli amministratori di società per azioni negli Stati Uniti formulare osservazioni definitive, quanto piuttosto rendere noti i contorni – qui inevitabilmente complessi – di un dibattito che, rispetto alla quantità degli scritti americani, ha avuto scarsa eco nella dottrina italiana. A questo scopo, tuttavia, si potrebbe ritenere opportuno svolgere alcuni ulteriori rilievi che muovano da un più generale campo prospettico. Nel motivare tale intento si trova agevole giustificazione nel fatto che il tema fin qui brevemente analizzato appaia come una foresta di specchi: previsioni generali in ordine ai doveri degli amministratori (duty of loyalty and care) che si riempiono di contenuto mediante valutazioni in ordine alla buona fede che, a sua volta, si sostanzia di ulteriori doveri descritti tramite formulazioni generali od ulteriori clausole generali (duty of candor, duty of monitor): al­l’ap­pa­ren­za l’indeterminatezza che si estende con proiezione geometrica. Nel procedere in tale tentativo si utilizzeranno due ordini di riferimenti. Il primo procede da alcune osservazioni, ormai risalenti di cui, peraltro, non è necessario sposare il sostrato assiologico [85]. La prima, tra esse, appare quasi ovvia ed attiene alla circostanza che allorquando ci riferisca alle clausole generali o agli standard – come accade negli ordinamenti di common law – gli studi si riferiscano, in prevalenza, al momento dell’ap­pli­cazione giurisdizionale, cioè al lavoro del giudice; tuttavia, in primo luogo, è quasi evidente che il potere determinativo di esse/i appartiene «ai soggetti che procedono alla loro attuazione spontanea» [86]. La seconda di tali osservazioni attiene al ruolo di reciproca integrazione e potenziamento tra standard ed elementi valutativi che provengono da aree culturali estranee al diritto e portatrici di esperienze diverse [87]. Tale ultimo riferimento appartiene alla logica della decisione applicata agli amministratori i quali assumono decisioni – per le natura imprenditoriali e quindi rischiose – in condizione di conoscenza incompleta. La domanda che sorge spontanea concerne, dunque, la possibilità di vagliare, in sede giurisdizionale – [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2011