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1. Le modifiche apportate dalla riforma del 2003. - 2. L'evoluzione storica del dato normativo: la formulazione originaria del 1942 e l'attuazione della direttiva 68/151 - 3. L'abrogazione dell'art. 2384-bis c.c. e l'attuale regime di opponibilità dell'oggetto sociale: un tentativo di argomentazione giuseconomica. - 4. L'art. 2475-bis c.c. e la rappresentanza delle s.r.l. - 5. L'art. 2476, 7° comma, c.c. e la responsabilità dei soci di s.r.l. - 6. L'art. 2384, 2° comma, c.c. è un caso codificato di exceptio doli generalis? - 7. L'elaborazione teorica sull’exceptio doli generalis, una breve divagazione di carattere storico: i concetti di 'agire intenzionalmente in danno' e conoscibilità del pregiudizio. - 8. Una vicenda istruttiva: la recezione in Italia della Convenzione di Ginevra del 1930: l'art. 21 della legge cambiaria. - 9. Il requisito dell'animus, tra tesi 'intenzionaliste' e tesi 'oggettiviste'. Gli attuali contorni della figura del dolus praesens. - 10. Conclusioni. - NOTE
La riforma del diritto societario del 2003 ha attribuito un nuovo assetto all’impostazione del Codice civile in tema di opponibilità ai terzi delle limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori; questo intervento intende analizzare quale sia stata l’effettiva portata di tale innovazione [1]. Il nuovo 1° comma dell’art. 2384 c.c. – il 2° comma è rimasto invece sostanzialmente immutato – stabilisce che “il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale”. Abrogato l’art. 2384-bis c.c., che prevedeva l’inopponibilità ai terzi di buona fede degli atti estranei all’oggetto sociale (ovvero, a contrario, che la società poteva opporre ai terzi l’invalidità dell’atto solo se riusciva a dimostrare la consapevolezza di tale estraneità). Con una significativa inversione di rotta, il nuovo sistema sembra essersi orientato nel senso di far gravare sempre sulla società (e quindi sui soci) il danno derivante dagli sconfinamenti e dalle infedeltà dei soggetti cui sia stata affidata la rappresentanza della società [2], anche quando la controparte sia stata in grado di riconoscere il vizio di potere rappresentativo. È evidente allora che, nel nuovo assetto normativo, il secondo comma dell’art. 2384 c.c., costituisce l’unico appiglio normativo sulla base del quale ci si potrebbe in ipotesi opporre all’agire scorretto dei terzi che dovessero approfittare dell’agire ultra vires (o al di fuori dei limiti posti dallo statuto) degli amministratori. L’evidente maggior rilievo che questo strumento assume rispetto al passato induce a interrogarsi sulla sua concreta portata applicativa. Ad opinione di chi scrive, appare lecito dubitare dell’effettiva adeguatezza di un everriculum malitiarum che, almeno ad una prima lettura, subordina il proprio operare a una prova diabolica come quella della “intenzionalità” [3]; ciò almeno fino a quando si continui a concepire l’intenzionalità nel senso di una consapevole e volontaria intenzione di nuocere. Tutto ciò senza dar spazio ad una più attenta considerazione delle circostanze concrete, da cui sarebbe possibile desumere una oggettiva conoscibilità e prevedibilità delle conseguenze [continua ..]
L’art. 2384 c.c., nella sua formulazione originaria del 1942, operava un semplice rinvio alla disciplina stabilita dall’art. 2298 c.c. per le società di persone, che ancora oggi prevede da un lato l’opponibilità ai terzi delle limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori purché pubblicate nel registro delle imprese o dai terzi in altro modo conosciute (in ciò facendo applicazione del principio generale espresso dall’art. 2193 c.c.), dall’altro l’opponibilità dell’estraneità all’oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori [4]. La linearità e uniformità del “vecchio” sistema, che sostanzialmente poneva a carico dei terzi l’onere di verificare la presenza di tali limitazioni, è stata complicata dalla recezione nel nostro ordinamento degli obblighi di armonizzazione imposti dal legislatore comunitario nell’art. 9 della Direttiva CEE 68/151. Con il d.P.R. n. 1127/1969 (che era intervenuto sugli artt. 2384 e 2384-bis) il nostro legislatore, avvalendosi della riserva concessa dalla citata direttiva, aveva confermato il limite dell’estraneità all’oggetto sociale, stabilendo che esso non sarebbe stato opponibile ai terzi in buona fede. Inoltre era stata posta un’ulteriore eccezione, non esplicitamente prevista dalla direttiva [5], consentendo di opporre ai terzi che avessero agito intenzionalmente a danno della società i limiti al potere di rappresentanza contenuti nell’atto costitutivo o nello statuto. In realtà il discorso sarebbe più complesso, poiché la citata norma comunitaria si limitava ad individuare nella mala fede (e non nell’agire intenzionalmente a danno) il presupposto per l’opponibilità ai terzi dell’estraneità dell’atto al solo oggetto sociale. Nondimeno, la dottrina maggioritaria ritiene che il requisito della buona fede costituisca un presupposto minimo dell’inopponibilità, che non escluderebbe la possibilità per i legislatori nazionali di utilizzare criteri più restrittivi a maggior tutela dei terzi che entrano in contatto con le s.p.a [6]. D’altra parte, si dimostrerà come la scelta di restringere i casi di opponibilità ai terzi, mantenuta (e forse ampliata nella sua nettezza) dalla riforma del 2003, sia del tutto coerente [continua ..]
Il quadro è rimasto immutato fino alla novella del 2003, che ha espressamente riconosciuto il carattere della generalità al potere di rappresentanza degli amministratori di società di capitali, oltre ad aver abolito il regime di opponibilità degli atti estranei all’oggetto sociale previsto dall’art. 2384-bis. Delle tre originarie discipline di opponibilità sopra citate, quindi, ne rimangono solo due: quella relativa all’invalidità della nomina (art. 2383, 5° comma) e quella relativa ai limiti previsti dallo statuto e, nella sua nuova formulazione, da una decisione degli organi competenti (art. 2384, 2° comma). Nonostante l’evidente intento della riforma, orientata nel senso di ridimensionare (e al limite di annullare) il limite al potere di rappresentanza degli amministratori costituito dall’oggetto sociale, la dottrina si è immediatamente divisa sulla possibilità di recuperare il disposto, o quantomeno la funzione, dell’art. 2384-bis mediante un’operazione interpretativa mirata a ricondurlo all’interno della fattispecie scolpita dall’art. 2384, 2° comma [7]. Anzi, si è andati anche al di là, sostenendo (superando l’irrilevanza attribuita dalla direttiva comunitaria alla pubblicazione dello statuto) che, malgrado la generalità del potere di rappresentanza, esso dovrebbe comunque essere interpretato in funzione dell’oggetto sociale che, in virtù della sottoposizione ad un regime di pubblicità legale, costituirebbe un limite anche per i terzi [8] senza necessità di provarne il dolo [9]. La lettera della norma è chiaramente orientata nel senso di rendere irrilevante il limite posto dall’oggetto sociale. Essa, infatti, prende in considerazione i soli limiti “posti dallo statuto o da una decisione degli organi competenti”. Inoltre, i nuovi artt. 2380-bis, 1° comma e 2384, 1° comma inducono la dottrina maggioritaria a ritenere si sia ormai attuata una vera e propria dissociazione tra potere di gestione – che si estende “a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale” – e potere di rappresentanza, definito senza riserve come “generale”. Da tale “generalità” discende l’impossibilità di opporre ai terzi qualsiasi limite al potere di rappresentanza degli [continua ..]
Com’è noto nel sistema anteriore alla riforma del 2003 la disciplina della rappresentanza delle s.r.l. non era caratterizzata da profili di specialità: l’art. 2487, 2° comma, c.c. limitandosi a rinviare alla corrispondente disciplina dettata per le s.p.a. dagli artt. 2384 e 2384-bis c.c. Con il nuovo art. 2475-bis il legislatore delegato ha abbandonato la tecnica del rinvio dettando una disposizione il cui tenore letterale in parte si discosta da quello dell’art. 2384. Infatti, mentre quest’ultimo espressamente definisce come generale “il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina”, la norma dettata in tema di s.r.l. si riferisce al potere di rappresentanza tout court, senza indicarne la fonte. Ciò induce la dottrina prevalente a ritenere che nella s.r.l., a differenza che nella s.p.a., il potere di rappresentanza costituisca una conseguenza necessitata della posizione di amministratore, così come nelle società di persone ai sensi dell’art. 2266 c.c. [25]. Sarà poi obbligo degli amministratori, a norma dell’art. 2475, 2° comma che richiama l’art. 2383, 4° comma, c.c., indicare nel registro delle imprese a quali di essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o congiuntamente, senza che tale dato normativo possa essere considerato sufficiente ad argomentare una natura volontaria del regime di rappresentanza delle s.r.l., come invece accade nelle s.p.a., dove per espressa scelta del legislatore il potere di rappresentanza degli amministratori è generale in quanto attribuito dallo statuto o dalla deliberazione di nomina. Ciò chiarito, il problema si pone allora per quanto riguarda il regime di opponibilità ai terzi di tali indicazioni, se cioè esse possano essere in ogni caso opponibili o se invece il regime sia quello più restrittivo di cui all’art. 2475-bis, 2° comma [26]. Del pari, non facendo la norma in questione espresso riferimento all’oggetto sociale, si ritiene possibile suggerire la medesima soluzione proposta per le s.p.a. [27]. Nel primo caso il problema è abbastanza delicato, poiché, ad opinione di molti, l’indicazione stessa dei soggetti muniti del potere di rappresentanza, nonché la previsione di una rappresentanza congiunta, [continua ..]
Nella disciplina delle s.r.l., il requisito della “intenzionalità” è richiesto anche dall’art. 2476, 7° comma, c.c. ai fini della configurazione di una responsabilità, solidale con quella degli amministratori, dei soci “che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”. Rinviando alle trattazioni specifiche sul tema per la (dibattuta) questione sistematica circa l’ambito di applicazione della norma in questione [34], mette conto qui soffermarsi sulla reale portata di tale requisito, per poi vedere se le conclusioni cui è giunta una parte della dottrina possano valere a supportare quanto appena osservato sull’opponibilità dei limiti al potere di rappresentanza al terzo che, appunto, abbia intenzionalmente agito a danno della società. Infatti, a differenza di quanto accaduto per la previsione dell’art. 2475-bis, il punto ha sollevato divergenze interpretative tutt’altro che trascurabili. Si è così discusso se lo stato soggettivo evocato dalla norma vada riferito all’atto di decisione o autorizzazione [35], o se invece esso debba avere ad oggetto il compimento da parte degli amministratori degli “atti dannosi”, con l’ulteriore differenziazione tra chi ricollega l’intenzionalità al danno-evento [36] e chi ritiene sufficiente la consapevolezza delle conseguenze pregiudizievoli dell’immistione nella gestione [37]. La prima opzione interpretativa, basata sull’assimilazione della fattispecie designata dall’art. 2476, 7° comma, al più generale sistema della responsabilità aquiliana, comporta una sostanziale abrogazione del dato normativo. Questo risultato non appare coerente con le finalità perseguite dal legislatore che, come in ogni caso in cui ha utilizzato l’avverbio in questione, ha inteso evidentemente restringere il campo di applicabilità di una fattispecie foriera di responsabilità [38]. È però pur sempre vero che l’utilizzo del requisito dell’intenzionalità per “ridurre” una fattispecie è compiuto dal legislatore non tanto in ipotesi, come quella in esame, di norme attributive di responsabilità per danni, assolvendo piuttosto allo scopo di impedire che una tutela particolarmente [continua ..]
Com’è stato notato [41], la problematica circa il valore del requisito dell’intenzionalità, s’intreccia con quella più generale relativa all’ammissibilità nel nostro ordinamento di un rimedio volto a paralizzare l’esercizio scorretto di un diritto o, più precisamente, il cosiddetto “abuso di norme”, che si concreta nel momento in cui si sfrutta una posizione giuridica formalmente riconosciuta dall’ordinamento per perseguire uno scopo esorbitante da quella che è la sua normale funzione. A questo rimedio, causa la sua chiara somiglianza con uno strumento di origine romanistica, si suole unanimemente dare l’etichetta di exceptio doli (generalis o specialis), espressione che ultimamente è stata oggetto di particolare attenzione da parte di dottrina e giurisprudenza, culminate nella sua assunzione al rango di “rimedio generale dell’ordinamento“ in una recente sentenza della Suprema Corte [42]. Tanto più quando si consideri che gli studi dedicati all’esegesi dell’art. 2384, 2° comma, c.c. sono sostanzialmente concordi sulla possibilità di definire la norma che esso pone – la possibilità per la società di opporre le limitazioni ai poteri degli amministratori ai terzi che si provi “abbiano intenzionalmente agito a danno della società” – come un caso applicativo di exceptio doli. A opinione di chi scrive, invece, un’analisi delle caratteristiche proprie dello strumento cui si dà l’etichetta “eccezione di dolo”, almeno così come si è andato delineando nella prassi applicativa germanica e, in tempi più recenti, anche italiana, dovrebbe far dubitare della possibilità di ricomprendervi anche la fattispecie disegnata dalla norma in esame.
L’exceptio doli è stata definita, in un recente e completo studio ad essa dedicata, come la “possibilità, accordata dall’ordinamento, di opporsi ad un’altrui pretesa o eccezione che, sebbene in astratto fondata, è in concreto espressione dell’esercizio doloso o scorretto di un diritto, finalizzato alla realizzazione di interessi ritenuti non meritevoli da parte dell’ordinamento stesso” [43]. In Italia, ma in generale in pressoché tutti gli ordinamenti continentali di derivazione romanistica con l’eccezione di quello tedesco, l’exceptio doli praesentis del pretore ha conosciuto un lungo periodo di oscurità, durante il quale è stata considerata niente di più che un pallido ricordo dell’exceptio doli praesentis romana, e in cui se ne ammetteva la vigenza nei limiti delle poche norme che espressamente la prevedevano. È solo in tempi relativamente recenti che l’eccezione di dolo generale è stata “riscoperta” dalla dottrina e, in seguito, anche dalla stessa giurisprudenza, che, come detto, è arrivata a definirla un “rimedio di carattere generale, utilizzabile anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate”. Il dubbio riposa sull’espressione “agire intenzionalmente in danno” contenuta nella norma che, non a caso, è quella che ha provocato le più ampie oscillazioni in giurisprudenza e dottrina. Così, è significativo che alcune decisioni tendono a negare una particolare differenza tra consapevolezza di nuocere e intenzionalità di agire in danno [44]. Interessante poi è quella giurisprudenza che invece, per le banche, ha spesso ritenuto provata presuntivamente la “consapevolezza” basandosi sulla loro qualità di “operatore economico particolarmente qualificato” [45]. Altre decisioni, invece, forse anticipando quella che è stata la finalità perseguita dalla riforma del 2003, sono orientate nel senso di una maggiore valorizzazione del dato letterale della norma, attribuendo al dolo del terzo il carattere necessario dell’intenzionalità [46]. Anche in dottrina si riscontrano posizioni alquanto diversificate. Per alcuni “è sufficiente la volontà di assicurarsi un vantaggio esorbitante nella consapevolezza che l’atto è potenzialmente [continua ..]
La vicenda dell’art. 2384 è analoga a quella che ha avuto ad oggetto un’altra norma, l’art. 21 della legge cambiaria, che si reputa costituire un esempio di exceptio doli generalis, malgrado contenga anch’essa un espresso riferimento all’agire intenzionalmente in danno. La norma prevede che: «La persona contro la quale sia promossa azione cambiaria non può opporre al portatore le eccezioni fondate sui rapporti suoi personali col traente o con i portatori precedenti, a meno che il portatore, acquistando la cambiale, abbia agito scientemente a danno del debitore». In dottrina è stato costantemente affermato trattarsi di un’ipotesi codificata di exceptio doli generalis, tanto da essere spesso utilizzata, insieme ad altre, a riprova della teoria della sopravvivenza dell’istituto come principio informatore dell’ordinamento [81]. In realtà il discorso è più complesso e, forse, può essere rischiarato dalla ricostruzione della genesi di questo strumento. La norma, infatti, fu introdotta in Italia in esecuzione della Convenzione di Ginevra del 7 giugno 1930, uniformatrice della disciplina sulla cambiale e sul vaglia cambiario. Per quanto interessa, è utile interrogarsi sul significato della deroga prevista nel caso in cui “il portatore … [che] … abbia agito scientemente a danno del debitore”. Si tratta di una codificazione dell’exceptio doli e, in caso affermativo, si tratta di dolus praeteritus o di dolus praesens? In proposito, può essere utile dare conto della discussione svoltasi durante i lavori preparatori [82] e di redazione definitiva [83], all’esito della quale si giunse all’adozione dell’espressione “agire scientemente in danno” [84]. Discussione tutt’altro che lineare, basti pensare che durante la prima conferenza de l’Aja del 1910 fu previsto il requisito della semplice mala fede del portatore [85]; al contrario, con la seconda conferenza de l’Aja del 1912, fu richiesto il requisito della “intesa fraudolenta” (entente fraudolente) tra girante e giratario [86]. Nondimeno, nel Projet del 1929 del Comitato di esperti della Società delle Nazioni, si tornò al concetto di mala fede [87] del portatore, seppur limitata al momento dell’acquisto del titolo [88]; infine, con la Conferenza [continua ..]
Più volte, negli studi che si occupano di exceptio doli, si pone il quesito della rilevanza dell’animus, ossia dell’elemento soggettivo in cui versa la parte che scorrettamente utilizza gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico. Si è portato l’esempio paradigmatico dell’elaborazione ginevrina in tema di abusiva escussione del debitore cartolare, con il dibattito che si sviluppò in sede di redazione tra i sostenitori della tesi “intenzionalista” e i fautori di una considerazione “oggettiva” dell’abusività di tale comportamento. Si è visto come si cercò di raggiungere un compromesso nel ritenere rilevante la mala fede “al momento di acquisto del titolo”, con ciò però frustrando lo scopo di uniformazione dello strumento internazionale, poiché, almeno in Italia, tale espressione è sempre stata pacificamente intesa come un requisito della intenzionalità del comportamento scorretto. È indubbio però che ormai, sulla scia di un trend molto più ampio, la tendenza dottrinale appaia netta nell’affermare la vigenza dell’exceptio in conformità a presupposti esclusivamente oggettivi, anche se in realtà il punto non occupa mai più spazio di un rapido accenno o di una semplice proposizione assertiva [98]. In giurisprudenza, invece, fino a poco tempo fa, le cose erano molto più incerte; com’è stato osservato “il ricorso alla figura dell’eccezione di dolo generale ha trovato … campo di applicazione privilegiato in ipotesi in cui l’esercizio del diritto era avvenuto in maniera tendenzialmente maliziosa” [99]. Degna di nota, in quest’ambito, appare la prassi in tema di contratto autonomo di garanzia, in cui, all’agire malizioso, evidentemente molto difficile da provare nei rapporti internazionali in cui si svolgono normalmente questi contratti, si è preferito il concetto di agire oggettivamente abusivo, “addomesticato” dalla necessità di prove pronte e liquide. D’altro canto, com’è stato da più parti approfondito, nella sua tradizione storica più che millenaria e nella prassi applicativa sviluppatasi negli altri sistemi giuridici dell’Europa continentale, la figura del dolus praesens comprende non solo le ipotesi di [continua ..]
In conclusione di questo scritto si può dar conto del perché si ritiene non sia possibile qualificare la “valvola di sicurezza” contenuta nell’art. 2384, 2° comma, come exceptio doli. Le finalità perseguite dalla riforma del 2003, la necessaria distinzione tra dolus praesens e dolus praeteritus, l’argomentazione orientata alle conseguenze fornita dall’analisi economica delle situazioni concrete in cui è necessario applicare la norma (con la conseguente esigenza di interpretare restrittivamente il dettato normativo), l’impossibilità di considerare la formula “agire intenzionalmente in danno” come equivalente di una più ampia mala fede – declinata nel senso della oggettiva conoscibilità –, sono tutti indici che depongono a sfavore di una tale qualificazione.