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1. Una preliminare considerazione di sfondo. - 2. I fallimenti di mercato, istituzionali e sovrani e l’ordinamento europeo. - 3. La crisi economico finanziaria quale “attivatore” di ultima istanza delle riforme istituzionali: il “nuovo” intervento pubblico. - 4. Un breve catalogo dei fallimenti di mercato e delle “cure” apprestate nel contesto europeo. - 5. Fallimenti istituzionali e cure nel contesto europeo. - 6. Dei fallimenti sovrani e delle loro “cure”.
Ad un giurista – per formazione spesso incapace di penetrare i “misteri” profondi dell’economia e al tempo stesso naturalmente portato a soffermare lo sguardo sulla patologia dei comportamenti – la crisi sembra porsi al punto di intersezione di fallimenti di mercato, fallimenti istituzionali e fallimenti sovrani. E sembra anche che, pur in un contesto contrassegnato da forti spinte riformiste (come sempre accade a valle delle crisi e degli scandali, che hanno – come è noto – come principale merito proprio quello di aprire una “finestra stretta” per processi di riforma da molto tempo attesi) ciò che non ha funzionato nella “condotta di vita” del “corpo” politico, economico e sociale in tempi di normalità (azzardo morale e “veduta corta” dei mercati; scarsa qualificazione della spesa pubblica e privata, inadeguatezza e velleitarismo in una prospettiva di medio e lungo termine dell’iniziativa economica pubblica e privata; errati incentivi, sussidi e corruzione come fattore distorsivo del mercato; scarsa disciplina di bilancio ed eccesso del debito pubblico e, in molti casi, anche privato) abbia in verità ancora continuato a non funzionare a dovere in tempi di crisi. Ne sono esempio taluni “nuovi” fallimenti di mercato e istituzionali nella gestione delle crisi. a) Anzitutto, l’indiscriminato salvataggio di tutte le banche in area EU, con i conseguenti perversi riflessi sui fallimenti sovrani (v. Irlanda) e sulle condizioni di concorrenzialità del mercato bancario paneuropeo che, dopo i grandi sforzi istituzionali e di mercato del passato volti alla sua effettiva instaurazione, mostra ora “fallimenti” proprio in relazione agli interventi di salvataggio pubblici intervenuti senza che la disciplina europea degli aiuti di stato in materia offrisse un quadro di riferimento sufficientemente rigoroso e restrittivo. Si è trattato, del resto, di un primo esempio di come risposte pubbliche emergenziali alla crisi rischino di scontare i limiti propri dell’agire della paura. La legislazione “da panico” è essa stessa un frutto avvelenato della crisi e dei fallimenti che ne sono stata causa. b) Poi, i velleitari interventi pubblici di moral suasion alle banche a non razionare il credito in un contesto pur obiettivamente contrassegnato dall’inaridimento della [continua ..]
I fallimenti di mercato, istituzionali e sovrani, nel contesto europeo, mi paiono anche una “proxi” piuttosto chiara dei difetti e dei costi associati al timido self restraint comunitario successivo al conseguimento del mercato interno e dell’unione monetaria. A dispetto della quantità di interventi legislativi in materia di mercato finanziario succedutesi dal 1999 in poi (basti pensare alle 42 misure regolatorie previste dal FSAP) e a dispetto della centralità politica assunta dall’obiettivo dell’instaurazione di un mercato finanziario integrato europeo, il decennio appena trascorso ha visto l’Europa ostaggio di miopi nazionalismi che hanno nei fatti impedito di conseguire – sul piano del tempestivo ridisegno e apprestamento delle istituzioni di governo dei mercati finanziari – gli assetti istituzionali resi necessari dalla rapida integrazione dei mercati e dall’incremento di scala degli operatori. Il decennio è stato così contrassegnato da una paradossale coesistenza di alti costi di regolamentazione e, al tempo stesso, significativa permanenza di concorrenza tra ordinamenti (spesso negli spazi lasciati aperti da direttive che conservavano ampie discrezionalità attuative opzionali o alternative) e tra vigilanze. Regulatory and supervisory competition in laxity, dunque, pur nel contesto di una furia regolatrice, purtroppo tuttavia maldiretta rispetto all’effettivo governo del rischio e tutela dell’interesse pubblico. A riguardare quella disciplina oggi, la regolamentazione appare principalmente connotata da finalità facilitative della operatività transfrontaliera delle imprese (polarizzata cioè sul “passaporto” europeo) più che al fine di definire il più stringente e rigoroso paradigma di comportamento delle imprese e dei mercati. Grave errore politico e istituzionale è risultato, nel contesto della revisione dei Trattati, la mancata previsione di autorità di vigilanza europee. Non sorprende dunque, in assenza di una chiara base giuridica nel Trattato, come troppo lento e insufficiente sia stato il processo di convergenza e di coordinamento tra le autorità nazionali di vigilanza nel contesto dei comitati di livello 3 Lamfalussy, così come, addirittura all’indomani della crisi e del rapporto De Larosière, troppo timido – seppur figlio di soluzioni [continua ..]
I tre poderosi “fallimenti” di mercato, istituzionali e sovrani hanno un tratto comune da tempo ovvio ai comparatisti: rendono evidente come l’intervento pubblico, in un mercato (finanziario) globale, “chiama” standard globali e non può essere limitato al livello nazionale e, almeno nel contesto dell’area Euro, richiederebbe decisi interventi centralizzati di tipo sostanzialmente federale (ne sono stata recente dimostrazione, a ben vedere, i regolamenti in tema di agenzie di rating e di mercati dei derivati). Le raccomandazioni e la soft law (quelle dei communiqués, di IOSCO e del Comitato dei Governatori, del FMI e del FSB) sono utilissimi nel delineare le tendenze globali e nell’orientare e dirigere il processo globale di regolamentazione. Si traducono tuttavia in azioni correttive concrete solo in presenza di interventi adeguati di implementazione tramite norme eteronome (“command and control rules”) e standard tecnici sia di vigilanza sia autodisciplinari in un coordinato circuito di “norm discovery” e di “norm selection” che integra una sorta di “ruota della regolamentazione”, in cui prospettive top down e bottom up coesistono così come coesistono – e offrono forza propulsiva alla ruota regolatoria – sia fonti istituzionali sia fonti di mercato, con la peculiarità che le istituzioni globali (pubbliche o di mercato), nel dettare standard globali, lo fanno con soft law, mentre le istituzioni nazionali o di macroarea, nel dettare regole imperative, lo fanno con limitazioni territoriali ampiamente “asimmetriche” rispetto ai fenomeni regolamentati. Vivante avrebbe detto che la natura delle cose si è ribellata al diritto. La tardività di risposta istituzionale rispetto ai concreti assetti di mercato ha in grembo, del resto, un frutto avvelenato. Quando l’istituzione non è pronta – nei suoi assetti “costituzionali” – a far fronte ai bisogni del mercato e interviene la crisi, la risposta istituzionale avviene ugualmente, in modo opaco e non trasparente, in via informale invece che nel quadro di regole formali e condivise. Se ne ha prova, mi pare, nell’area Euro, dove il recente precipitare degli eventi sul fronte dei fallimenti sovrani sembra aver decretato vita breve per la “tappa” intermedia contrassegnata dal t.f.eu. e [continua ..]
Può essere, a questo punto, forse non del tutto inutile passare brevemente in rassegna alcuni dei principali fallimenti, di mercato e istituzionali, in materia di mercati finanziari per menzionare le “cure” – o auspicate tali – nel contesto europeo. Prendiamo le mosse dai primi. Tra i fallimenti di mercato meritano menzione, tra gli altri, almeno quelli (i) della “veduta corta” e dunque degli effetti distorsivi determinati dall’adozione di paradigmi di comportamento di investimento o manageriali ispirati alla sola massimizzazione del profitto di breve termine, (ii) dell’eccesso di leva finanziaria e di indebitamento e, correlativamente, di manifesta inadeguatezza del capitale di rischio; (iii) della “ibridazione” tra mercato bancario e mercato dei capitali per effetto della “resistibile” ascesa di un modello originate to distribute; (iv) dell’imprudente disallineamento delle scadenze nella gestione della liquidità; (v) della complessiva sottovalutazione dei rischi sistemici nella valutazione sia interna sia da parte degli opinion makers del rischio di credito; (vi) della inadeguatezza funzionale del modello di gruppo per gestire in tempi di emergenza crisi di liquidità evitando fenomeni perversi sia di spill over e contagio sia di ring fencing; (vii) del “fallimento” del paradigma dell’investitore professionale o qualificato – al pari del wealthy individual – quale soggetto teoricamente capace di autoproteggersi per via contrattuale bilaterale nella relazione con l’industria finanziaria: emblematici in materia i casi sia dei derivati sottoscritti da enti locali o imprese piccole e medie sia degli investitori in fondi hedge o monetari. A fronte di questi fallimenti di mercato si sono avute sia risposte di mercato sia risposte istituzionali, le quali sono al momento alla ricerca del corretto punto di equilibrio nella loro concreta attuazione. Quanto al primo tema, sembra sufficiente richiamare l’enfasi dedicata sia dai partecipanti al mercato sia dalle autorità di vigilanza e dalla Commissione ai temi del rafforzamento dei presidi di corporate governance, con particolare attenzione alla miglior gestione dei presidi dei rischi, nonché al correlato tema della remunerazione e dell’allineamento degli incentivi rispetto ad una prospettiva di più lungo termine sia d’investimento [continua ..]
Può essere, ora, altrettanto non del tutto inutile passare brevemente in rassegna alcuni dei principali fallimenti istituzionali, in materia di mercati finanziari per menzionare le “cure” – o auspicate tali – nel contesto europeo. Possono menzionarsi, tra gli altri: (i) la regulatory e supervisory competition in laxity; (ii) gli effetti pro ciclici della regolamentazione; (iii) l’inadeguatezza dei meccanismi di intervento pubblico nella gestione delle crisi bancarie e finanziarie, in specie cross border; (iv) l’insufficiente ampiezza dell’area di regolamentazione e vigilanza nel settore finanziario, che ha lasciato esenti da regole e controlli operatori rilevanti, capaci di determinare addirittura rischi sistemici (shadow banking). Su ciascuno di questi temi sono state adottate, o sono in cantiere, risposte regolatorie. L’acquisita consapevolezza, all’indomani della prima ondata della crisi, dell’importanza del primo tema ha aperto la via, oltre che alla eliminazione di molte delle più importanti discrezionalità nazionali nell’attuazione della direttiva CRD, ad un maggior uso (finalmente!) dei regolamenti di primo livello invece che delle direttive come fonti di normazione primaria e alla importante riforma delle autorità di vigilanza europee intervenuta con i regolamenti 1093/2010/EU, 1094/2010/EU e 1095/2010/EU (unitamente alla c.d. direttiva di allineamento “omnibus 2010/78); esse tuttavia, conformemente alla base giuridica dell’art. 95 del Trattato (ora 114 t.f.eu.), sono state chiamate a svolgere, non senza ambiguità, una funzione di agenzia di regolamentazione delegata, non invece – come sarebbe stato auspicabile – anche quello della supervisione centralizzata, su base informativa e ispettiva, delle banche e degli intermediari finanziari di dimensione comunitaria. Unica eccezione la competenza di vigilanza prevista dai regolamenti in tema di agenzie di rating e controparti centrali nel mercato dei derivati. Prosegue dunque la nazionalistica difesa delle autorità “nane” nazionali pur in un contesto di mercato finanziario europeo integrato: e ciò con costi di coordinamento e fallimenti di tale coordinamento oltremodo significativi. L’esempio “barocco” dei collegi di supervisori chiamati a vigilare, con composizione a geometria variabile e farraginose regole per l’adozione [continua ..]