La pronuncia in commento concerne un tema controverso e costantemente al centro del dibattito nazionale e internazionale: i patti parasociali. La sentenza offre numerosi spunti di approfondimento con riferimento al problema dell’interpretazione dei patti, nonché a temi ulteriori con portata sistematica: la tutela costituzionale della proprietà nell’impresa, il principio di ragionevolezza, il principio di correlazione fra potere e rischio, la configurabilità di diritti particolari nella s.p.a. e l’operatività di principi generali nella disciplina del recesso.
CASSAZIONE CIVILE, I Sezione, 10 luglio 2018, n. 18138 – Campanile Presidente – Dolmetta Relatore – P.M. (conf.) – I.D. c. H.S.
Conferma App. Trieste, 29 giugno 2015
Patti parasociali – Società per azioni – Interpretazione – Intenzione dei contraenti – Causa concreta
(Artt. 1322, 1362 ss., 2341-bis c.c.)
Eventuali successivi mutamenti negli assetti proprietari della società non incidono sull’efficacia di un patto parasociale stipulato fra coniugi, che trova la sua causa giustificativa negli accordi di divisione di una comunione sciolta per effetto della separazione personale dei medesimi. (1)
Patti parasociali – Società per azioni – Principio di tutela della proprietà privata – Principio di ragionevolezza – Principio di correlazione fra potere e rischio
(Artt. 42 Cost., 2341-bis c.c.)
Il patto parasociale, stipulato per cinque anni e con un contenuto determinato (avente ad oggetto il tema delle cariche sociali) non viola i principi di tutela della proprietà privata ed il principio di c.d. correlazione fra potere e rischio. Non viola nemmeno il principio di ragionevolezza, perché le regole fissate con il medesimo non vengono a incidere sul potere di controllo relativo all’agire dell’apparato amministrativo che la legge attribuisce all’assemblea dei soci. (2)
Patti parasociali – Società per azioni – Recesso – Giusta causa di recesso – Tipizzazione delle cause di recesso
(Artt. 1322, 1362 ss., 2285, 2341-bis, 2437 c.c.)
Al recesso da un patto parasociale stipulato fra soci di società per azioni non può applicarsi il principio generale di cui è espressione l’art. 2285, comma 2, c.c. (recesso per giusta causa), atteso che la previsione dell’art. 2437 c.c. tipizza la giusta causa in una serie di ipotesi tassative. (3)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
emessa dalla Corte di Appello di Trieste in data 29 giugno 2015. Al ricorso resiste H.S., che ha depositato un apposito controricorso. Entrambe le parti hanno inoltre depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
A base di queste richieste, la signora I. ha rilevato che, nel luglio 2012, era stata deliberato un aumento del capitale sociale della s.p.a. Alfa, in ragione delle esigenze imprenditoriali di questa, che portava lo stesso da Euro 208.000,00 a Euro 4.208.000,00; che ella aveva sottoscritto tale aumento anche per la parte lasciata inoptata in ragione della mancata sottoscrizione da parte del signore H.; che, in conseguenza di ciò, ella deteneva ormai il 97,30% del capitale della Alfa, mentre la partecipazione di H. era scesa alla percentuale del 2,5%.
Nel costituirsi in giudizio H.S., oltre a chiedere la reiezione delle domande attoree, siccome ritenute infondate, ha in via riconvenzionale chiesto la condanna di I.D. al pagamento della somma di un milione e mezzo di Euro a titolo di penale (secondo quanto contrattualmente stabilito), per avere la stessa tenuto in tre distinte situazioni, tra l’ottobre e il dicembre 2012, comportamenti divergenti dalle prescrizioni contenute nel patto parasociale e in violazione delle stesse.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo (ricorso, p. 13) assume: “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.”. Il secondo motivo (p. 18) assume: “violazione e falsa applicazione dell’art. 2341 bis c.c., comma 1, con riferimento all’art. 1325 c.c., comma 2 e art. 1418 c.c., comma 2. Omesso esame di fatti decisivi ai fini del giudizio”.
Il terzo motivo (p. 22) assume: “violazione del principio costituzionale di ragionevolezza e dell’art. 42 Cost. laddove viene negato un effetto oggettivo diretto su un patto parasociale avente finalità di stabilizzazione di governo della società, stipulato da un socio che successivamente acquisisca una maggioranza superiore al 95% del capitale sociale”.
Il quarto motivo (p. 28) assume: “violazione del principio di buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto con conseguente rilevabilità d’ufficio del fatto allegativo della stessa quale exceptio doli generalis”. Il quinto motivo (p. 32) assume: “violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c. Omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Il sesto motivo (p. 36) assume: “omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati fatti oggetto di discussione tra le parti; omessa considerazione di condizione implicita del patto (presupposizione). Violazione e falsa applicazione dell’art. 1467 c.c. e del principio ad esso sottostante”.
Il settimo motivo (p. 40) assume: “violazione e falsa applicazione dell’art. 2285 c.c. in quanto espressione di un principio generale del diritto societario applicabile anche ai patti parasociali”. L’ottavo motivo (p. 43) assume: “falsa applicazione dell’art. 1384 laddove la sentenza di merito non ravvisa elementi per la riduzione della penale prevista per violazione del patto”.
6.1. In quest’ottica di fondo, il primo motivo censura la sentenza della Corte territoriale, assumendo la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale”. In particolare, nell’assegnare al patto in questione la specifica funzione di regolare il “solo aspetto gestionale della società con attribuzione di maggiori poteri all’H.”, la sentenza ha violato – secondo la prospettiva svolta dalla ricorrente il canone interpretativo dell’art. 1363 c.c., nonché quello dell’art. 1362 c.c. L’uso corretto del criterio dell’interpretazione sistematica indica con chiarezza – così si osserva – che il contenuto essenziale del patto è quello di prevedere un “regime di controllo congiunto della società da parte dei due coniugi separati”. “La presenza dell’H. in c.d.a. è prevista come solo possibile ... e non come necessaria”: “solo nel caso in cui H. si autonomini esponente componente del c.d.a. è altresì previsto” che lo stesso ne divenga presidente e disponga di deleghe gestionali. In sostanza, si tratta – così si precisa – di un elemento accessorio, di taglio unicamente “eventuale”. Da ciò – aggiunge ancora il motivo – la “piena plausibilità dell’interpretazione che ritiene il patto di stabilizzazione del governo societario logicamente e funzionalmente collegato a un certo assetto proprietario, che sussisteva al momento della conclusione dell’accordo stesso e che poi è venuto meno dopo l’operazione di aumento del capitale”.
6.2. Agganciandosi a tale ultimo rilievo, il secondo motivo osserva che – al tempo della confezione del patto – l’assetto proprietario della Alfa s.p.a. “vedeva una partecipazione quasi-paritaria” dei parasoci al capitale sociale. Questa caratteristica, comportando una “partecipazione pressoché paritaria al rischio di impresa”, giustificava senz’altro la costruzione, a mezzo della convenzione parasociale, di un regime di controllo congiunto. Ha dunque errato – prosegue il motivo – la sentenza impugnata a individuare la causa concreta del patto in esame nella funzione di governo societario orientato a favore di H.S. In realtà, la causa concreta dello stesso stava nella previsione di un controllo congiunto sulla base di una posizione proprietaria e di rischio imprenditoriale “pressoché paritaria”. Di conseguenza, prosegue il motivo, la funzione del patto e la sua causa concreta non possono non venire meno nel caso cessi la situazione di “condivisione” dell’investimento e del rischio d’impresa. Secondo quanto propriamente avvenuto nella fattispecie concreta: a seguito dell’aumento del capitale del maggio 2012, investimento e rischio facendo per il 97,30% capo a “un unico socio e solo per il 2,5% capo all’altro”.
6.3. “Diversamente ragionando”, continua la ricorrente, la “Corte triestina legittima un effetto del patto come strumento di deprivazione dell’effettivo esercizio dei poteri assembleari”: in tal modo “violando il principio generale dell’ordinamento che vieta lo svuotamento dei poteri assembleari”. Ma ancora prima violando – così incalza il terzo motivo – il principio di ragionevolezza, “che ha prima di tutto un rango costituzionale”. Lo stravolgimento dei rapporti tra le partecipazioni dei due parasoci, che è stato determinato dalla vicenda dell’aumento di capitale, è di dimensione tale che il permanere degli effetti del patto, dichiarata dalla Corte territoriale, produce – così si afferma – “uno squilibrio tale da smarrire ogni connotato di ragionevolezza”.
E viola altresì – sottolinea ancora la ricorrente – il “principio costituzionale di tutela della proprietà privata (cfr. art. 42 Cost.)”: in esito alla vicenda dell’aumento, il socio che detiene “una partecipazione quasi totalitaria” si vede “vincolato da obblighi assunti nel patto nei confronti dell’altro socio ... che ora detiene il 2,5%” del capitale.
Il patto parasociale stretto tra I.D. e H.S. viene posto in essere nel contesto dello scioglimento di una comunione legale tra coniugi avvenuto a seguito della loro separazione personale. Esso fa parte, correlativamente, degli accordi di divisione del compendio che all’epoca era in comunione. Lo stesso, dunque, si confronta con una tematica di “assetti proprietari” – e di equilibrio nella divisione –, che si manifesta decisamente diversa da quella circoscritta al possesso di una società e in sé stessa assai più ampia, perché assume a proprio perimetro l’intero asse dei beni caduti in comunione.
In questa complessa fattispecie – formata dall’accordo di separazione, con scioglimento della comunione legale e divisione del compendio – risiede, conseguentemente, la causa concreta del detto patto parasociale, quale parte di questo tutto. Ed è veramente sintomatico al riguardo che – come pure segnala la sentenza impugnata – I.D., nell’avviare il contenzioso giunto adesso all’esame di questa Corte, abbia ritenuto di chiedere, in via di estremo subordine, la “modifica della condizione di separazione tra i coniugi”.
Contro la permanente efficacia del patto in questione neppure possono valere, d’altro canto, gli ulteriori rilievi che la ricorrente muove adducendo la mancanza di meritevolezza, in quanto tale (ovvero a prescindere da ogni altro profilo della fattispecie concreta), di un patto parasociale operante tra una maggioranza del 97,30% del capitale sociale e una minoranza del 2,50%. Rilievi che, si è già richiamato (n. 6.3.), consistono nella violazione: del principio generale che vieta lo svuotamento dei poteri assembleari; del principio di ragionevolezza; del principio di protezione della proprietà privata.
Per accertare, infatti, che la prosecuzione di efficacia del patto parasociale in questione non violi uno dei principi assunti dalla ricorrente si mostra sufficiente la rilevazione dei seguenti tratti che connotano le regole proprie del patto medesimo. Un primo dato consiste nella temporaneità del medesimo, che viene a fissarsi in una durata quinquennale. Secondo quanto è stato accertato dalla Corte territoriale (il testo della clausola si trova riportato nel ricorso a p. 8). In relazione all’ipotesi di eventuali proroghe del patto, cui pure accenna il testo della clausola, la parte finale della norma dell’art. 2341 bis c.c. assicura, d’altro canto, che i patti parasociali a termine, com’è quello presente, possono in ogni caso essere rinnovati solo al tempo della loro scadenza, a seguito di apposita manifestazione di volontà.
Un altro aspetto, da tenere in adeguata considerazione al riguardo, è che il patto in discorso si concentra – per quanto è stato fatto oggetto di discussione tra le parti nell’ambito del presente giudizio sul solo tema delle cariche sociali, di cui all’art. 2364 c.c., comma 1, n. 2. Sì che non ha in ogni caso luogo discorrere, in proposito, di svuotamento dei poteri dell’assemblea, né di compressione esorbitante del diritto di proprietà.
Ancor più in particolare è da rilevare, anche a proposito del rispetto del principio di ragionevolezza, che le regole poste dal patto in questione non vengono a incidere sul potere di controllo che sull’agire dell’apparato amministrativo la legge attribuisce all’assemblea dei soci. Come, inter alia, in punto di approvazione del bilancio di esercizio e di potere decisionale circa l’azione di responsabilità verso gli amministratori (di là, dunque, dal tema relativo alla definizione dei limiti di revoca di costoro per giusta causa).
Ad avviso della ricorrente, simile affermazione comporta condivisione dell’opinione tradizionale per cui la struttura rimediale della “nullità può essere riferita alla genesi, mai all’esecuzione del rapporto”. Tale opinione – assume il motivo – deve essere rivista, proponendo argomenti in tale direzione.
Il quarto motivo, in particolare, rimprovera alla Corte triestina un errore di omissione: di non avere tenuto conto del fatto che “H., dopo avere votato l’aumento di capitale, non lo ha sottoscritto”. Considerato il forte peso economico dell’aumento in discorso, che per intero è stato sottoscritto da I., deve “qualificarsi come agire malizioso”, contro la buona fede oggettiva così assume questo motivo – la pretesa dell’H. di “conservare poteri gestionali, il cui rischio viene trasferito”, a mezzo l’avvenuto aumento, sul socio detentore quasi per l’intero del capitale sociale.
Il sesto motivo rimprovera alla Corte triestina un non diverso tipo di errore: quello di non avere tenuto conto della “mancata cooperazione, da parte dell’H., alla sottoscrizione dell’aumento di capitale, pure da lui votato in assemblea”. Secondo la ricorrente, si deve tenere conto che il patto parasociale era stato sottoscritto presupponendo la permanenza per tutto il periodo di suo svolgimento di una data proporzione tra la partecipazione dell’uno e la partecipazione dell’altro. Se avesse voluto far proseguire il rapporto – rileva in definitiva questo motivo – H. avrebbe dovuto sottoscrivere la parte di aumento a lui riservata: “trattandosi di contratti di durata stipulati quindi rebus sic stantibus, i patti parasociali continuano a essere rispettati e applicati dai contraenti sino a quando le condizioni e i presupposti di cui hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio rimangono intatti”.
In effetti, la norma dell’art. 2437 c.c. viene a tipizzare la “giusta causa” di recesso in una serie peculiari di ipotesi. Nell’ambito delle quali non rientra, in quanto tale, il genere delle delibere dell’aumento di capitale.
In particolare, lo stesso censura l’affermazione della Corte triestina, per cui “la I. va condannata al pagamento ... della somma complessiva di un milione e mezzo di Euro, non ravvisandosi elementi per la riduzione della penale prevista dalle parti, ragioni non esplicitate nemmeno dalla I.”. Rileva per contro la ricorrente che “dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo risulta con certezza che l’interesse patrimoniale attuale dell’H., in relazione ai risultati della gestione ..., era divenuto irrisorio”; né ha mancato di sottolineare – prosegue il motivo – contenuti e modalità del comportamento tenuto dell’H. nell’ambito della vicenda dell’aumento del capitale del luglio 2012. “Da qui” – si rileva ancora – un’“evidente sproporzione e iniquità della somma di Euro 1.500.000,00 liquidata dal giudice di merito, rispetto alla funzione della penale, che rimane esclusivamente quella di consentire una liquidazione preventiva e forfetario del danno patrimoniale subito dal creditore”.
È orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte che l’apprezzamento dell’eventuale eccessività della penale per inadempimento supponga – si tratti di richiesta di parte o di iniziativa d’ufficio – che le circostanze rilevanti per il giudizio di sproporzione comunque emergano dal “materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, quale risultante ex actis”, “senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio” (cfr., tra le più recenti Cass., 25 ottobre 2017, n. 25334; Cass., 19 ottobre 2017, n. 24732).
Non v’è dubbio, d’altro canto, che il materiale probatorio acquisito al processo, specie per iniziativa dell’attuale ricorrente, riveli la presenza di più elementi senz’altro rilevanti per la formulazione del giudizio di eventuale eccessività, elementi che la sentenza della Corte territoriale ha invece del tutto trascurato, senza motivazione.
Il riferimento va, in particolare, al comportamento nell’insieme tenuto da H.S., come espressivo del suo interesse rispetto all’adempimento delle prestazioni altrui (come riferito al tempo dell’adempimento, nonché, più latamente, al complessivo periodo di svolgimento del rapporto parasociale: cfr. Cass., 6 dicembre 2012, n. 21994) e come polarizzantesi, in buona sostanza, nella votazione in assemblea dell’aumento, della mancata sottoscrizione della quota riservatagli in opzione, delle successive dimissioni dalla carica di amministratore. Come pure si manifesta in se stesso rilevante il fatto che l’oggettiva necessità dell’aumento di capitale sia riconosciuta dallo stesso resistente (il quale discuteva solo circa le modalità in cui conformare lo stesso, stimando preferibile un aumento non immediato e inscindibile, come poi stabilito in assemblea, ma articolato in termini graduali).
Tanto più si manifestano rilevati gli indicati elementi, non appena si constati come la clausola penale, di cui alla clausola n. 7 del patto parasociale, specifichi una funzione propriamente risarcitoria (assai più di quella di pena privata d’ordine dissuasivo), come emerge dalla espressa previsione (in coda di formulazione) della risarcibilità dell’eventuale danno ulteriore.
P.Q.M.
La Corte accoglie l’ottavo motivo di ricorso, respingendo il primo, il secondo, il terzo, il quinto, il sesto e il settimo motivo di ricorso, assorbito il quarto. Cassa per quanto in motivazione la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla Corte di Appello di Trieste che, in diversa composizione, giudicherà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 24 aprile 2018.
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1. Il caso - 2. I primi due gradi del giudizio - 3. La pronuncia della Suprema Corte - 4. La prospettiva "oggettiva" della ricorrente: patti parasociali e assetti proprietari - 5. La soluzione accolta dalla Suprema Corte: il patto parasociale fra i coniugi (più che soci) - 6. Patti parasociali: fra diritto comune e principi societari - 7. L’intenzione degli aderenti al patto - 8. Il recesso - 9. Il principio capitalistico e i diritti cc. dd. particolari nelle s.p.a. - NOTE
La pronuncia in commento è di notevole interesse (al pari di quelle rese nei precedenti gradi del giudizio [1]): non solo concerne un tema controverso e costantemente al centro del dibattito nazionale e internazionale (i patti parasociali), ma è altresì originale per gli argomenti utilizzati e per la conclusione cui perviene. Non risulta, infatti, che vi siano precedenti giurisprudenziali che abbiano affrontato il fenomeno con un’analoga (o, quanto meno, con una così esplicita) chiave di lettura [2], la quale pone in evidenza la possibile contrapposizione fra sistema a soggetto e sistema ad attività [3]. La sentenza, inoltre, offre numerosi spunti di approfondimento con riferimento a temi ulteriori rispetto ai patti parasociali e con portata sistematica: la tutela costituzionale della proprietà nell’impresa, il principio di ragionevolezza, il principio di correlazione fra potere e rischio, la configurabilità di diritti particolari nella s.p.a. e l’operatività di principi generali nella disciplina del recesso [4]. Particolarmente originale, poi, è il percorso logico seguito dalla ricorrente e i numerosi argomenti cui ha fatto ricorso nei primi due gradi di giudizio, nonché nell’impugnazione innanzi alla Suprema Corte. Appare opportuno, anzitutto, muovere dal richiamare in sintesi la vicenda che ha dato àdito al contenzioso fra le parti. Nel caso sul quale si è pronunciata la Suprema Corte, due soggetti coniugati in regime di comunione legale, in sede di accordo di separazione personale convenivano, fra l’altro, che le azioni di una s.p.a. di cui erano soci venissero divise e, nella specie, che fosse assegnata una quota di partecipazione al capitale sociale rispettivamente pari al 45% alla moglie, la sig.ra I.D., e al 50% al marito (H.S.). Per completezza, si precisa che il titolare della residua partecipazione al capitale sociale, pari al 5% (che è risultata poi definitivamente annacquata, in ragione della mancata sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale di cui si dirà) era un terzo soggetto. Nel medesimo verbale di separazione, è stato stipulato un patto parasociale, avente ad oggetto la nomina dei membri del consiglio di amministrazione, dei sindaci e del presidente del consiglio di amministrazione (nonché l’attribuzione a quest’ultimo di [continua ..]
Nel giudizio di primo grado, il Tribunale di Trieste ha accolto la domanda principale formulata da parte attrice e ha dichiarato la nullità del patto parasociale «a motivo del sopraggiunto venire meno della sua causa concreta» [5]. L’attenzione è stata focalizzata sul venir meno del significato e dell’obiettivo perseguito attraverso il patto, il quale non sarebbe stato più funzionale rispetto agli interessi delle parti in ragione «della profonda variazione della entità delle partecipazioni societarie rispettivamente detenute dai soci» all’esito dell’operazione di aumento del capitale sociale. La sentenza, oggetto di critiche (non del tutto condivisibili) in dottrina [6], è innovativa ed ha numerosi meriti: il giudice, lungi dal ricorrere a formule stereotipe ed astratte, perdendo di vista le specifiche istanze di protezione [7], ha svolto una valutazione degli interessi in gioco al di là delle “etichette”. Per giungere a tale risultato, ha fatto ricorso alla teoria della “causa in concreto”. Due sono state le obiezioni mosse al percorso argomentativo seguito: detta teoria sarebbe stata utilizzata impropriamente (anche per vizi sopravvenuti, non solo per quelli genetici) [8] ed erroneamente, perché il patto parasociale stipulato fra i coniugi sarebbe privo di un’autonoma causa, avendo la funzione tipizzata dall’art. 2341-bis c.c. («stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società») [9]. Tali critiche non appaiono convincenti. Sotto il primo profilo, parte della dottrina si è già espressa in merito a obiezioni di tenore analogo, in passato mosse nei riguardi dell’utilizzo della teoria della causa concreta di fronte a fatti (al pari di quelli di specie) sopravvenuti rispetto alla conclusione del contratto [10]. È stato rilevato, in proposito, che non viene in considerazione un «ricorso (…) in se stesso scorretto» allo strumento, bensì una «semplificazione concettuale», quale «scorciatoia argomentativa», che appare «opportuna» e «più che legittima» [11]. È stato, inoltre, rilevato che simili obiezioni paiono incorrere in un’indebita confusione fra vizio e rimedio [12]. Non da ultimo, la [continua ..]
Avverso la sentenza di appello è stato proposto ricorso per cassazione da I.D. La Suprema Corte non ha condiviso le soluzioni interpretative addotte da questa a supporto dei motivi “sostanziali” di impugnazione, accogliendo soltanto l’ottavo motivo del ricorso, fondato sulla falsa applicazione dell’art. 1384 c.c. nella parte in cui la sentenza di merito non avrebbe individuato gli elementi per la riduzione della penale prevista per violazione del patto. Ha quindi cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la controversia alla Corte di Appello di Trieste per la valutazione circa l’eccessiva onerosità della penale. Per quanto la Corte di Cassazione non abbia ritenuto suscettibili di accoglimento i motivi di impugnazione di I.D., addivenendo a una diversa conclusione (analoga a quella a cui era giunta la Corte di Appello), vi è un minimo comune denominatore nei ragionamenti seguiti dalla Corte e dalla ricorrente: l’interpretazione del patto quale criterio di analisi della vicenda. In entrambi i percorsi, infatti, il patto viene interpretato utilizzando il criterio (soggettivo) dell’intenzione dei contraenti, ma, nella prospettiva della ricorrente, prevale la dimensione dell’“attività” che caratterizza il fenomeno societario; mentre, nella prospettiva della Corte di legittimità, si fa leva sulle intenzioni degli aderenti al patto anche in una dimensione personale.
Secondo la ricorrente, gli stipulanti sono soci (più che coniugi) e la funzione del patto è quella di consentire un controllo congiunto della società. La circostanza che il patto (per quanto dovesse essere inteso come soluzione di composizione dei contrasti) fosse stato stipulato in funzione (del governo) della società – in un contesto di partecipazione (pressoché) paritetica al capitale sociale – comporta che il verificarsi di una modifica rilevante nell’assetto proprietario determina il venir meno del patto stesso. Del resto, la mancata sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale, mediante l’esercizio del diritto di opzione, poteva essere un indice di disinteresse, da parte di H.S., a mantenere l’investimento nella società (stante l’annacquamento che ne sarebbe derivato in termini partecipativi) e a conservare (direttamente o indirettamente) un ruolo gestorio in ragione della stipula dei patti parasociali. La tesi di fondo è che l’alterazione sopravvenuta della misura di partecipazione di ciascun socio al capitale sociale aderente al patto reca quale conseguenza la cessazione degli effetti del patto parasociale (primo, secondo e terzo motivo del ricorso). Gli argomenti invocati da I.D., per confutare la soluzione accolta dalla Corte di Appello, sono – si è detto – plurimi: i) la violazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c.; ii) il venir meno della causa concreta del patto; iii) la violazione dei principi costituzionali di tutela della proprietà privata e di ragionevolezza; iv) il principio di correlazione fra potere e rischio. In particolare, la ricorrente invoca il criterio di interpretazione sistematica [17], rappresentando l’esigenza di evitare di attribuire significati incoerenti alle diverse pattuizioni del patto, tenuto altresì conto di tutti gli accordi raggiunti fra le parti [18]. Non sussisteva – secondo la sua ricostruzione – alcun diritto, in capo al marito, di essere amministratore della società, dovendo detta carica essere intesa in stretto collegamento (non già con la “persona” di H.S., ma) con la partecipazione sociale detenuta (pari al 50%): i coniugi non intendevano, contrariamente a quanto ravvisato dalla Corte di Appello, riservare a H.S. [continua ..]
La Corte di Cassazione pone in rilievo che la designazione di H.S., quale Presidente del consiglio di amministrazione, non ha carattere secondario ed è a tutela del medesimo H.S., perché assicura a quest’ultimo una posizione che prescinde dalla partecipazione al capitale sociale detenuta, spiegandosi in funzione dell’“origine” del patto, da collocare in fase di divisione dei beni caduti in comunione legale. L’accento è posto, appunto, sul fatto che l’accordo extra-statutario fra i due coniugi (più che soci) si giustifica alla luce degli accordi ancillari alla separazione fra i medesimi in funzione della continuità della gestione dell’impresa (non tanto della stabilizzazione degli assetti). Il suo contenuto tiene, cioè, conto anche della divisione dei beni operata a seguito dello scioglimento della comunione dei beni causato dalla separazione. Il passaggio fondamentale nella sentenza qui commentata, che ben sintetizza quanto ora rilevato, è quello in cui sottolinea che «la stessa idea di stringere un patto parasociale» può «facilmente trovare la sua giustificazione fuori dalla nuda ottica del rapporto corrente tra le parti in relazione agli assetti proprietari». Secondo la Suprema Corte, pertanto, la causa concreta del patto parasociale si coglie – nel caso di specie – nella fattispecie costituita dall’accordo di separazione, con scioglimento della comunione legale e divisione del compendio. Ne discende che – secondo i giudici di legittimità – il mutamento degli assetti proprietari non ha alcuna incidenza sul patto parasociale che rinveniva la propria ragion d’essere in una dimensione personale dei coniugi.
Nella decisione in commento si avverte chiaramente il problema della coesistenza, nei patti parasociali, di due profili che si intrecciano, in continua tensione fra loro: il diritto “comune” di provenienza (: il diritto privato), che graviterebbe attorno agli interessi dei “soggetti”, e il diritto di destinazione, che dovrebbe ruotare attorno a valori oggettivi [23]. È tradizionalmente acquisito che gli accordi extra-statutari sono privi di efficacia reale e sono assoggettati alle regole di diritto comune per quanto riguarda la loro interpretazione, efficacia, esecuzione [24]: sarebbero le stesse parti a voler escludere il loro rilievo organizzativo [25], la cui violazione sarebbe sanzionata mediante i rimedi che poggiano sul solo piano obbligatorio. Ne deriva che non può esservi interferenza fra la sfera sociale e quella parasociale, con la conseguenza che la delibera assembleare assunta in violazione dell’accordo non può essere invalidata, anche in ragione della tassatività delle cause di impugnazione [26]. A supporto, in dottrina, si osserva ancora che i patti, se avessero un impatto organizzativo, sarebbero soggetti al medesimo sindacato di validità previsto per le clausole statutarie, con la conseguenza che i soci non vi farebbero ricorso con la stessa frequenza [27]. In questi termini, nel nostro diritto, si pone ora l’art. 9, comma 6, del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175), il quale espressamente stabilisce che «il contrasto con impegni assunti mediante patti parasociali non determinano l’invalidità delle deliberazioni degli organi della società partecipata, ferma restando la possibilità che l’esercizio del voto o la deliberazione siano invalidate in applicazione di norme generali di diritto privato» [28]. Per completezza, tuttavia, bisogna dare atto che la ricostruzione tradizionale sembra entrare in crisi nei casi in cui ai patti abbiano aderito tutti i soci: in questa ipotesi, si discute circa l’operatività del principio secondo cui gli accordi extra-statutari siano inopponibili ai terzi. Nella specie, la circostanza che si trattasse di un patto parasociale fra coniugi ha oscurato detto profilo che, per contro, nel dibattito sul tema, assume un rilievo fondamentale: il carattere, appunto, omnilaterale [continua ..]
Nei percorsi argomentativi seguiti dalla Corte di Cassazione e dalla ricorrente – come anticipato –, si ricostruisce l’intenzione degli aderenti al patto, che viene, tuttavia, diversamente ricostruita: nel primo caso, in funzione del contesto personale e generale in cui si inserisce il patto, tanto che la Suprema Corte critica, in quanto “nuda”, l’ottica seguita da I.D. con riferimento al rapporto sussistente tra le parti in relazione agli assetti proprietari; nel secondo, in funzione dell’attività d’impresa. In entrambi i suddetti ragionamenti, si fa dunque riferimento alla volontà dei contraenti. L’opzione appare in linea con le soluzioni interpretative tradizionali, che ritengono applicabili ai patti parasociali le regole del diritto dei contratti: il patto parasociale, in quanto accordo di diritto comune, si assume soggetto alle previsioni di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. Non sembra esservi scelta fra interpretazione c.d. “soggettiva” e interpretazione c.d. “oggettiva”, considerato che la volontà dei contraenti è un criterio “soggettivo” di interpretazione (per quanto sia la stessa distinzione fra criteri oggettivi e soggettivi di interpretazione a formare oggetto di critica da parte di alcuni scrittori [42]). Al riguardo, è noto che si è soliti contrapporre le regole di interpretazione degli statuti societari a quelle in tema di contratti, dovendosi, per gli statuti, privilegiare una valutazione in astratto degli interessi di protezione giudicati rilevanti, identificati (finanche assolutizzati) nell’interesse dei soci futuri e dei creditori (e, quindi, un criterio oggettivo) [43]. Detta scelta è stata, tuttavia, messa in discussione [44]. In generale, critiche sono state sollevate in merito all’utilizzo di metafore (definite mistiche) sulla “natura” degli statuti societari o di soluzioni fondate sulla parificazione degli statuti alla legge. Si è sottolineato, così, che un tale modo di procedere, nel considerare quasi esclusivamente l’affidamento dei creditori e dei nuovi soci, trascura gli altri interessi bisognosi di protezione che possono esservi in concreto, soprattutto quelli dei soci fondatori, in violazione dell’opportunità di procedere con un contemperamento degli interessi in gioco [45]. Ed anche soltanto con [continua ..]
Nella medesima prospettiva di oscillazione fra diritto comune e diritto societario, si colloca un’ulteriore questione affrontata nella sentenza in commento. La ricorrente ha invocato, infatti, l’operatività del rimedio del recesso dal patto parasociale, adducendo il ricorrere di una giusta causa costituita dall’alterazione degli assetti proprietari. In particolare, l’art. 2285 c.c. sarebbe norma espressiva di un principio generale di diritto societario: ne deriverebbe che il socio (in qualunque tipo sociale) ha sempre la possibilità di recedere dalla società per giusta causa e, quindi – si deve supporre, per analogia juris – dal patto parasociale. La Corte non ha condiviso la prospettata portata estensiva dell’art. 2285 c.c., in ragione della previsione di un elenco di cause tipizzate per l’uscita del socio di s.p.a. Secondo i giudici, la società di cui si discute ha la forma della società per azioni e di conseguenza «la regola di equiparazione (del parasociale al sociale) deve di necessità confrontarsi – più che con il principio generale dell’art. 2285 c.c. in quanto tale – con l’adattamento che del principio stesso ha fatto la disciplina specificamente vigente per la forma della società per azioni». Questo modo di argomentare costituisce un’ulteriore forma con cui si determina, sul piano interpretativo, un’incidenza del(la disciplina del) sociale sulla regolamentazione del parasociale. Al proposito è da rilevare che, secondo parte della dottrina, nelle s.p.a. il diritto di uscita non costituisce – contrariamente a quanto ritenuto da altra parte della letteratura – un meccanismo di monetizzazione dell’investimento o uno strumento di tutela del socio di minoranza: ma deve essere inteso come un rimedio mediante il quale ciascun socio può reagire di fronte a un mutamento delle condizioni iniziali dell’investimento [49]. Potrebbe esservi spazio, quindi, per una regola desumibile dalla disciplina sul recesso nelle s.p.a. che consenta il recesso anche per giusta causa. I percorsi individuati sia dalla Corte, sia dalla ricorrente sembrano, in ogni caso, un ulteriore indice di come si tenda ad applicare ai patti parasociali regole o principi di diritto societario: in contraddizione con la tesi, sopra ricordata, secondo cui gli [continua ..]
Come anticipato, secondo la ricorrente, il patto parasociale, se inteso come attributivo di un diritto (particolare) ad essere amministratore a prescindere dalla partecipazione al capitale sociale, potrebbe configurarsi illecito perché contrario al principio di collegamento fra proprietà e rischio. Due le riflessioni indotte da tale argomento: la prima sulla configurabilità del principio di collegamento fra proprietà e rischio in questo tipo sociale; la seconda sulla possibilità di ritenere che anche nella s.p.a. siano previsti diritti particolari ad personam. Nel sistema, vi sono numerosi indici normativi che inducono a reputare “in crisi” il principio di correlazione tra potere e rischio, che per alcuni sarebbe addirittura «solo un mito» [53]. La possibilità di assegnare le azioni in misura non proporzionale rispetto al conferimento [54], nonché di prevedere azioni con voto plurimo [55] o voto maggiorato costituiscono alcuni dati in tal senso, ai quali potrebbe aggiungersi l’istituto del record date. La portata della previsione di detti strumenti si coglie appieno qualora poi si sostenga la configurabilità di diritti particolari nelle s.p.a. La dottrina, anche nel panorama internazionale, si sta da tempo orientando in senso favorevole, tanto da considerare superata l’idea di una s.p.a. in cui le posizioni di coloro che partecipano all’iniziativa sono fungibili, dovendosi, per contro, parlare di modelli di s.p.a. [56]. Una simile prospettiva fa emergere la progressiva tendenza ad assottigliare la differenza fra i tipi di società: l’innegabile avvicinamento trova ormai pieno riscontro normativo. Infatti, se la s.p.a. può conoscere un processo di personalizzazione, la s.r.l. è stata ora munita di caratteristiche che dovrebbero agevolare la raccolta di risorse finanziarie(quali la previsione di categorie di quote o l’offerta al pubblico di prodotti finanziari) [57]. Ed anche il collegamento fra diritti particolari e patti parasociali sembra poter essere agevolmente colto: entrambi rappresentano tecniche di personalizzazione della s.p.a. [58].