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La tutela dei creditori generali e particolari in caso di costituzione di patrimoni destinati ai sensi degli artt. 2447-bis ss. c.c. rappresenta una problematica nuova che, se da un lato ripropone a livello «generale» alcune questioni fallimentari che già la giurisprudenza teorica e pratica aveva avuto modo di affrontare con riguardo alla separatezza patrimoniale delle società d’intermediazione mobiliare autorizzate alla gestione personalizzata di portafogli d’investimento – si pensi, in proposito, alla questione (ora espressamente disciplinata dall’art. 156 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) degli effetti di comportamenti di gestione che «violino le regole di separatezza fra uno o più patrimoni destinati costituiti dalla società e il patrimonio della società»; in tal caso l’art. 156 dispone ora che «il curatore può agire in responsabilità contro gli amministratori e i componenti degli organi di controllo della società ai sensi dell’art. 146 della presente legge», adottando peraltro una soluzione meno ampia di quella prefigurata dall’art. 209 dell’originario progetto di riforma della legge fallimentare che prevedeva invece espressamente il superamento della separatezza patrimoniale, disponendo che «la società e i suoi amministratori rispondono illimitatamente per tutte le obbligazioni sorte con riferimento all’affare oggetto del patrimonio destinato le cui regole di separatezza risultano violate» – dall’altro lato presenta problemi del tutto peculiari. L’impressione complessiva che si trae dalle norme di diritto positivo dedicate alla materia – in attesa che si formi, anche in funzione suppletiva in relazione alle numerose incompletezze regolatorie, un diritto giurisprudenziale in materia – non è tuttavia incoraggiante: la tutela dei creditori, per come legislativamente descritta, appare insufficiente e tale da necessitare di svariati correttivi (se possibile, già in sede interpretativa e applicativa). Si pone inoltre l’interrogativo – né retorico né privo di rilievo pratico – se, malgrado gli eventuali correttivi interpretativi, la disciplina in esame sia comunque idonea a superare il vaglio di costituzionalità e di compatibilità con la [continua ..]
Al fine di meglio semplificare l’analisi, conviene misurare la tutela dei creditori nel caso di costituzione di patrimoni destinati: i) nella fase genetica del patrimonio destinato, con riguardo ai creditori sociali anteriori; ii) durante lo svolgimento dello specifico affare, con riguardo alla tutela dei creditori sociali e ai creditori particolari del patrimonio destinato; iii) in caso di incapienza del patrimonio destinato e/o insolvenza della società, con riguardo ai creditori sociali e ai creditori particolari del solo patrimonio destinato. È inoltre necessario distinguere tra patrimoni destinati di tipo a) (tra quelli descritti dall’art. 2447-bis, 1° comma, c.c.) (c.d. «operativi») e patrimoni destinati di tipo b) (c.d. «finanziari»). Nel primo caso siamo dinanzi ad una sorta di scissione endosocietaria e cioè ad una forma di «segregazione patrimoniale nella segregazione» (il patrimonio destinato costituisce infatti una forma di segregazione patrimoniale di «secondo grado» rispetto alla segregazione di «primo grado» rappresentata dalla stessa società). Nel secondo caso siamo dinanzi ad una particolare forma di garanzia sui proventi di un affare a servizio di un prestito il cui scopo è il finanziamento di quello specifico affare.
Conviene prendere le mosse dai patrimoni destinati di tipo a). Quanto alla tutela dei creditori anteriori nella fase genetica di un tale patrimonio destinato, l’art. 2447-quinquies prevede che, decorso il termine previsto per l’opposizione, «i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare né, salvo che per la parte spettante alla società, sui frutti o proventi da esso derivanti». La disposizione, nel mentre sancisce il principio di separatezza patrimoniale, pone una serie non trascurabile di questioni ai fini che qui interessano. Essa sembra configurare infatti l’opposizione come unico strumento di tutela dei creditori sociali anteriori (salvo che non ricorrano le condizioni per l’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria, della quale si dirà infra nel trattare anche dei rimedi fallimentari). Ciò avviene, si direbbe, seguendo il modello della riduzione volontaria del capitale sociale prevista dall’art. 2445 il quale, come è noto, nell’attuale formulazione, non subordina più la delibera dell’assemblea alla condizione che il capitale risulti esuberante per il conseguimento dell’oggetto sociale e si limita a prevedere che «la deliberazione può essere eseguita soltanto dopo novanta giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione. Il tribunale, quando ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori oppure la società abbia prestato idonea garanzia, dispone che la riduzione abbia luogo nonostante l’opposizione». Da questo modello la disciplina dell’art. 2447-quater si discosta tuttavia per la previsione di un termine più breve (di sessanta giorni), tratto dalla disciplina della fusione e della scissione (artt. 2503 e 2506-ter, ultimo comma). È questo tuttavia l’unico elemento di disciplina della fusione e scissione che il legislatore richiama in materia. In tema di patrimonio destinato infatti, da un lato non si prevede (assai poco opportunamente) alcunché circa la possibilità di anticipare gli effetti della delibera di costituzione nei casi, previsti invece dall’art. 2503 per la fusione e scissione, «che consti il consenso [continua ..]
Quanto alla tutela dei creditori durante lo svolgimento dello specifico affare, l’art. 2447-quinquies, 3° comma, prevede che «qualora la deliberazione prevista dall’art. 2447-ter non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato. Resta salva tuttavia la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito». Salvo dunque quanto sopra osservato e sempre che la delibera di costituzione non preveda più intense forme di garanzia della società, i creditori del patrimonio destinato hanno azione esclusivamente nei confronti del patrimonio destinato, purché – come precisa l’ultimo comma della medesima norma – l’atto dal quale deriva il credito «rechi espressa menzione del vincolo di destinazione allo specifico affare». Ne deriva che la prima e più importante garanzia per i creditori particolari del patrimonio destinato è dato dalla «congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare»: congruità che, con previsione innovativa, l’art. 2447-ter, lett. c) vuole che sia attestata nella delibera di costituzione mediante la redazione di un apposito piano economico-finanziario. Sennonché – anche a prescindere dal fatto che la «congruità» costituisce un parametro di difficile valutazione, come dimostra l’intenso dibattito che da tempo interessa la parallela questione della congruità o non manifesta inadeguatezza del capitale sociale – questa tutela rischia di rivelarsi poco più che illusoria. Da un lato, infatti, anche a voler ritenere, – come si dovrebbe, trattandosi di un vizio di non conformità alla legge – che l’eventuale inadeguatezza iniziale del patrimonio rispetto allo scopo determini una vera e propria causa di invalidità della delibera di costituzione, occorre considerare che i creditori particolari del patrimonio destinato non sono comunque legittimati a far valere tale causa di invalidità della delibera, potendo solo proporre l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori che abbiano dato luogo all’operazione [[2]]. Non è certo invece – malgrado gli sforzi, anche convincenti, compiuti dalla [continua ..]
Se l’insensibilità del patrimonio destinato alle pretese dei creditori generali della società posteriori alla costituzione di esso è dunque, seppur con i limiti e i dubbi di validità sopraindicati, assoluta (salvo che la delibera istitutiva, ove lo si ritenga possibile, non preveda diversamente), non altrettanto è a dirsi, come si è visto, dell’insensibilità del patrimonio sociale generale rispetto alle pretese dei creditori «particolari» del patrimonio destinato. Si è infatti dinanzi ad un’ipotesi di autonomia patrimoniale bilaterale imperfetta. Conseguentemente la massa dei creditori generali può trovarsi a concorrere pari passu con i creditori particolari sia perché la delibera di costituzione prevede «una responsabilità illimitata della società per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare» (come testualmente precisa l’art. 2447-septies, ultimo comma, richiedendo in tal caso che «l’impegno da ciò derivante risulti in calce allo stato patrimoniale e formi oggetto di valutazione secondo criteri da illustrare nella nota integrativa»: previsione questa che sembrerebbe peraltro da applicare estensivamente anche a tutte le ipotesi intermedie in cui la delibera di costituzione, pur non prevedendo una responsabilità illimitata in senso proprio della società, preveda ciò non di meno forme di garanzia per i creditori «particolari» del patrimonio destinato ulteriori rispetto a quelle di legge), sia perché gli amministratori hanno omesso, nel compiere l’atto in relazione allo specifico affare, di menzionare espressamente il vincolo di destinazione, sia infine perché l’obbligazione deriva da fatto illecito. A quest’ultimo riguardo giova osservare che, per quanto la disposizione sia stata introdotta al fine di assicurare adeguata tutela ai creditori involontari, la norma potrebbe avere «pericolose» (per i creditori generali della società) potenzialità «espansive», ove la si metta in relazione alla nuova disciplina in tema di direzione e coordinamento di società [[5]]. È bensì vero che quel sistema di regole è dettato con riguardo a relazioni intersoggettive; ciò non di meno esso, da un lato, mira a tutelare anche i creditori quando le [continua ..]
In caso di insolvenza del patrimonio destinato di tipo a), il legislatore del d.lgs. n. 6/2003 non ha ritenuto di dettare alcuna disposizione specifica. A ciò ha invece provveduto il legislatore della riforma del diritto concorsuale il quale, come è noto, abbandonando con il c.d. maxiemendamento l’impostazione prescelta dall’originario progetto di riforma (che, in conformità all’indirizzo maggioritario in dottrina aveva previsto all’art. 200 del progetto che «le disposizioni sulle procedure di composizione concordata della crisi e di liquidazione concorsuale si applicano anche ai patrimoni destinati ad uno specifico affare limitatamente al caso previsto nell’art. 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice civile»; coerentemente l’art. 206 prevedeva altresì che «il tribunale nomina distinti commissari giudiziali o curatori se la procedura di composizione concordata della crisi o di liquidazione concorsuale riguarda sia la società che il patrimonio destinato; il tribunale può nominare il medesimo curatore se tale scelta appare opportuna ai fini della regolazione dell’insolvenza della società») non ha espressamente previsto la soggezione al fallimento del patrimonio destinato. L’art. 156 si limita infatti a prevedere che «se a seguito del fallimento della società o nel corso della gestione il curatore rileva che il patrimoni destinato è incapiente provvede secondo le regole della liquidazione della società in quanto compatibili». La norma omette di considerare l’ipotesi del patrimonio incapiente ove la società non sia fallita (e dunque non vi sia alcun curatore) e omette altresì di utilizzare l’espressione «patrimonio destinato insolvente», preferendole l’altra – finora inconsueta nel lessico societario – di «incapiente». Si ritiene ciò non di meno, prevalentemente, che la disciplina così introdotta sia espressione di un principio generale applicabile anche nel caso in cui il patrimonio destinato sia incapiente mentre la società non sia insolvente e che il legislatore abbia voluto escludere in ogni caso (anche in quello della insolvenza del patrimonio destinato) l’apertura di una procedura concorsuale sul patrimonio destinato. Sennonché l’applicazione della disciplina sulla liquidazione [continua ..]
In caso viceversa di fallimento della società con patrimoni destinati, ove il patrimonio destinato, a differenza della società insolvente, non sia incapiente, l’art. 155 prevede che «l’amministrazione del patrimonio destinato previsto dall’art. 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice civile è attribuita al curatore che vi provvede con gestione separata. Il curatore provvede a norma dell’art. 107 l. fall. alla cessione a terzi del patrimonio al fine di conservarne la funzione produttiva». Questa disposizione conferma che il legislatore considera il patrimonio destinato normalmente come un aggregato patrimoniale a finalità produttive capace di circolazione, e dunque come un’azienda (o un ramo d’azienda) riferito ad un’impresa (o ad un ramo d’impresa) connotato dalla responsabilità limitata (rendendo in tal modo ancor più evidente la contiguità tipologica di esso con l’impresa a responsabilità limitata di cui alla XII direttiva comunitaria in materia societaria). Alla cessione dovrebbe applicare di conseguenza anche la disciplina in tema di trasferimento d’azienda. Naturalmente, «se la cessione non è possibile, il curatore provvede alla liquidazione del patrimonio secondo le regole della liquidazione della società in quanto compatibili» (la legge di riforma non contiene invece più l’ulteriore precisazione, che era invece presente nel progetto di riforma in coerenza con il colà previsto assoggettamento a fallimento del patrimonio destinato, che se nel corso della gestione il curatore rileva tuttavia che «il patrimonio destinato è divenuto insolvente, presenta ricorso per l’apertura della procedura di liquidazione concorsuale»). L’art. 155 prevede infine che «il corrispettivo della cessione al netto dei debiti del patrimonio o il residuo attivo della liquidazione sono acquisiti dal curatore nell’attivo fallimentare della procedura della società»: la non perspicua formulazione letterale potrebbe qui indurre a domandarsi, se la norma intenda vietare che i debiti del patrimonio destinato siano fatti oggetto di cessione. In verità sembra preferibile intendere la norma nel senso che, ove sia ceduto il solo attivo relativo al patrimonio destinato, i proventi risultanti dalla cessione sono prioritariamente [continua ..]
Un ruolo importante di tutela dei creditori naturalmente spetta, anche con riguardo ai patrimoni destinati, agli strumenti revocatori. Da un lato, tuttavia, la legge di riforma non sembra contenere alcuna disposizione espressa circa la revocabilità dell’atto istitutivo. Di talché, si confrontano in dottrina due orientamenti: un primo, che sembrerebbe preferibile, secondo il quale la costituzione del patrimonio può essere fatta oggetto di revocatoria ordinaria e, in caso di insolvenza della società, fallimentare in presenza delle condizioni generali cui sono soggette tali azioni. Chi segue questo indirizzo ritiene in particolare, quanto alla revocatoria fallimentare, che siano esperibili, ove si abbia riguardo all’elemento della «gratuità» dell’atto di devoluzione del patrimonio, l’azione di cui all’art. 64 legge fall. – secondo quanto la giurisprudenza da tempo ammette con riguardo alla revocatoria della costituzione del fondo patrimoniale o della destinazione patrimoniale in trust – ovvero, ove si abbia riguardo alla finalità dell’istituto consistente nel creare diritti di prelazione per debiti contestualmente creati, l’azione revocatoria, subordinata alla prova della conoscenza dello stato di insolvenza, prevista dall’art. 67 legge fall. Un secondo orientamento interpretativo nega invece l’esperibilità, nella specie, della revocatoria in base ad un preteso parallelismo con le fattispecie della riduzione del capitale e della delibera di scissione, enfatizzando il ruolo dell’opposizione dei creditori quale esclusivo strumento di tutela [[7]]. Dall’altro lato, l’art. 67-bis prevede che «gli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall’art. 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice civile, sono revocabili quando pregiudicano il patrimonio della società. Il presupposto soggettivo dell’azione è costituito dalla conoscenza della stato di insolvenza della società». Questa previsione – il cui esatto perimetro applicativo risente dell’ambiguo riferimento alla «incidenza» degli atti sul patrimonio destinato – richiede sia la prova del pregiudizio (determinandone così la chiara natura indennitaria) sia – contrariamente a quanto disponeva il progetto di riforma prima del [continua ..]
In termini affatto diversi si pone, infine, la questione inerente alla tutela dei creditori nel caso di patrimoni destinati di tipo b). Qui infatti si è dinanzi ad un modello finanziario di destinazione che attua una sorta di «project finance» e che viene attuato senza necessità di costituire un veicolo societario dedicato e risulta fondato su di un rapporto contrattuale di finanziamento esterno al rapporto societario, la cui incidenza sull’organizzazione sociale è limitata alla «canalizzazione» dei proventi dell’affare a servizio del debito. Come è stato efficacemente ricordato [[8]] «si tratta d’una conferma della crisi delle garanzie reali che, legate come sono ad una concezione statica dei beni, appaiono sempre meno adeguate ad un sistema economico che pone il suo baricentro non nel valore d’uso ma nel valore di scambio. Da qui la ricerca di nuove prospettive per la tutela del credito, che tende a spostarsi dai beni – oggi largamente mobilizzati e dematerializzati – all’attività cui quei beni sono strumentali ed aspira a superare le rigidità che nel nostro sistema caratterizzano le strutture formali della garanzia reale». Si tratta dunque di una fattispecie che sposta ulteriormente in avanti i confini della garanzia rispetto ad esempio alla già innovativa disposizione contenuta nell’art. 46 t.u.b. che aveva introdotto il privilegio speciale su beni mobili strumentali all’esercizio dell’attività d’impresa e senza spossessamento. La segregazione «in via esclusiva» dei proventi dell’affare a servizio del rimborso del debito non implica peraltro necessariamente che al rimborso non possa concorrere, in tutto o in parte, anche la società (come infatti risulta chiaro dal 2° comma, lett. b) e g) dal successivo 4° comma del medesimo art. 2447-decies), ma significa che: i) i proventi (siano essi l’integralità o solo parte dei proventi attesi) destinati al rimborso potranno essere utilizzati in via esclusiva solo a questo fine; e ii) il finanziatore, per la parte di rimborso per la quale ha acconsentito ad un regime di destinazione convenzionale dei proventi, non avrà azione sui beni della società, salvo il caso di garanzie specifiche all’uopo concesse dalla società ai sensi della lett. g) (che, [continua ..]