Articoli Correlati: scelte fondamentali - politica legislativa - indicazioni - principio - riforma - diritto societario - 2003
1. La società come strumento giuridico dell'organizzazione d'impresa. Contratto e istituzione come alternative sistematiche - 2. Ragioni e limiti del pan-contrattualismo della tradizione dottrinale del diritto societario italiano. L'opzione sistematica di neo-istituzionalismo debole, anche in ragione delle scelte normative della riforma del 2003 - 3. Una verifica: il pan-contrattualismo moderno (la teoria del nexus of contracts). Critica - 4. La funzione dei diversi tipi societari nell’ordinamento italiano - 5. Il modello-base della società per azioni e la sua conferma, in linea di massima, nella riforma - 6. La riforma del 2003 come tentativo di modernizzazione del sistema delle imprese in Italia. Condivisione degli scopi e critiche sulla tecnica legislativa - 7. L'ampliamento dell'autonomia statutaria: critica degli ideologismi e funzioni effettive - 8. (Segue). Ridimensionamento e funzione del principio: nuove norme imperative nell’'organizzazione e apertura a costruzioni innovative nei rapporti di investimento - 9. L'estensione dell’ambito di applicazione della responsabilità limitata: l'atto unilaterale di destinazione come espressione del favor per gli investimenti imprenditoriali - 10. La tendenziale rigidità dell'organizzazione interna della s.p.a.: la separazione dei poteri fra gli organi societari - 11. (Segue). La nuova dislocazione dei rimedi invaliditivi contro le irregolarità interne. L'illusione della sussidiarietà del rimedio risarcitorio - 12. L'ampliamento dei modelli organizzativi di governo societario offerti all'autonomia privata - 13. L'allargamento delle basi finanziarie dell'impresa azionaria - 14. Il rafforzamento del diritto di recesso - 15. La disciplina dell’'impresa di gruppo - 16. Le cooperative: mutualità prevalente e non - 17. L'ammissibilità della trasformazione eterogenea e il principio di continuità dell'impresa - 18. Il 'filo rosso' della riforma: la prevalenza dell'interesse all'efficienza della gestione imprenditoriale - 19. Il silenzio del legislatore sulla nozione di interesse sociale e sul problema della Corporate Social Responsibility. Compatibilità di questa teoria con la nozione di interesse sociale come interesse alla gestione efficiente dell'impresa - NOTE
Argomento di questo corso sarà la società per azioni. Questa figura giuridica, secondo un giudizio generalmente condiviso, è «lo strumento giuridico più adeguato per la creazione e l’esistenza della grande impresa e, quindi, per la industrializzazione e lo sviluppo economico» [[1]]. È, peraltro, un dato di comune esperienza che l’istituto giuridico della “società” costituisce la forma giuridica abituale di organizzazione non solo della grande impresa, ma anche di quelle medio-piccole [[2]], e che la disciplina in materia offre ai privati la possibilità di scegliere fra diversi tipi di società, tradizionalmente (e non solo in Italia) classificati nelle due grandi categorie delle “società di persone” e delle “società di capitali”. Si può dunque cogliere intuitivamente un collegamento funzionale tra la disciplina delle società e l’esigenza di efficiente gestione delle imprese. È però altrettanto intuitivo che la realtà delle imprese è molto articolata e differenziata, e che la disciplina societaria tende a seguire questa realtà economica, e a tale scopo presenta a sua volta una ricca serie di articolazioni e di differenziazioni interne. Ci si deve allora chiedere se esistano principi e concetti generali propri dell’intero diritto societario, desumibili dal codice civile e dalla legge di riforma del 2003, ed atti a fornire criteri di orientamento nell’interpretazione delle diverse disposizioni di legge. Dalla lettura dell’art. 2247 c.c. vediamo che la società è stata inquadrata sistematicamente, dal legislatore (che in ciò ha seguito l’antica tradizione romanistica), come un tipo di contratto: un tipo negoziale legale caratterizzato dalla circostanza che «due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». La società appare dunque, essenzialmente, come un accordo di cooperazione fra individui, un contratto di durata avente come oggetto la gestione collettiva di un certo progetto economico, produttivo o anche solo speculativo, e come scopo la divisione finale del guadagno derivante dall’attuazione di tale progetto. In questa prospettiva i contraenti iniziali (soci) rimangono domini [continua ..]
La tradizione della cultura giuridica italiana (almeno quella dell’ultimo mezzo secolo) è però, come si è già detto, pan-contrattualistica. La ragione di fondo di questa scelta, nella storia delle idee, sta nel fatto che la teoria istituzionalistica era stata fatta propria dalle culture giuridiche totalitarie, nazista e fascista, e che la cultura giuridica posteriore al codice del 1942 si è formata in un quadro ideale di contrapposizione alle idee dominanti nella cultura giuridica dei regimi precedenti. Col tempo però è avvenuto che alcune impostazioni teoriche di quella cultura giuridica storicamente sconfitta (si pensi alla valorizzazione delle “clausole generali”) siano state rivalutate in un contesto culturale ben diverso [[7]]. C’è da chiedersi se lo stesso non possa avvenire anche con le teorie dell’impresa e della società. È interessante allora ripercorrere le argomentazioni razionali che tradizionalmente hanno portato, anche per la s.p.a., a respingere l’ipotesi istituzionalistica. Le ragioni principali mi sembrano così riassumibili: (i) il timore che, in una concezione istituzionalistica, l’impresa sia snaturata rispetto alla sua vocazione di organizzazione destinata a produrre profitti e venga invece investita di finalità “sociali”, altruistiche, o comunque di pubblico interesse, a detrimento dell’efficienza gestionale [[8]]; (ii) il timore che, in una concezione istituzionalistica (e proprio per l’allargamento della gamma di interessi che la società sarebbe chiamata a curare), i titolari di posizioni di potere all’interno dell’organizzazione d’impresa vedano rafforzata la propria posizione, al punto da potere agire arbitrariamente, senza quell’insieme di contrappesi e di controlli che nascono dal dovere rispettare i diritti degli azionisti/padroni dell’impresa. Ambedue questi argomenti (diversi e complementari, e tali da cogliere, potrebbe dirsi, due facce della stessa medaglia) sono, a mio avviso, superabili. In fondo, il punto cruciale (e unitario) della critica sta nel pensare ad una corrispondenza biunivoca fra teoria istituzionale e concezione “sociale” dell’interesse dell’impresa: da qui la preoccupazione che, in una prospettiva istituzionalistica, si realizzi uno snaturamento della finalità di profitto [continua ..]
A questo punto può essere utile un confronto con la nota teoria, di matrice americana, che costruisce sistematicamente la società non come “un contratto” ma come un “nexus of contracts” [[15]]. Espressione felice nell’evidenziare che una società non è altro che una complessa struttura giuridica, funzionale all’efficiente gestione di un’impresa, e che tale gestione si regge su un reticolo di contratti, tra cui quelli di cui sono parti gli azionisti-investitori hanno un ruolo centrale, ma non esclusivo (il reticolo di contratti comprende anche quelli con lavoratori, fornitori, clienti, ecc.). Questa base descrittiva può essere però utilizzata per diversi esiti “normativi”. Da un lato, la teoria del nexus of contracts, nell’attribuire pari dignità ai contratti con lavoratori, consumatori, ecc., può apparire come una ripresa di proposte istituzionalistiche “forti”, cioè volte a superare l’idea della società come contratto egoistico-lucrativo fra azionisti [[16]]. Tuttavia, nella sua formulazione originaria e più rigorosa (Alchian/Demsetz), la teoria è stata proposta con intenti diversi, e proprio per combattere come finzionistiche le teorie (compresa quella di Coase), che parlano dell’impresa come di una realtà stabile sopraindividuale, e per rivendicare invece un approccio all’analisi dei problemi societari come problemi di interrelazioni individuali [[17]]. Da qui anche la principale proposta costruttiva, derivante da questa teoria, cioè quella di considerare tendenzialmente come norme disponibili da parte dei privati tutte le norme di diritto societario. In questa accezione propria, la teoria in questione non mi sembra convincente. Né quando viene utilizzata per negare ideologicamente la possibilità di concepire l’impresa come realtà sociale stabile sopraindividuale (e, per contro, rivendicare un metodo di analisi del fenomeno che potremmo qualificare come individualismo radicale, o “ontologico”), né anche quando sostiene – come già ricordato – l’opportunità di interpretare tendenzialmente come norme di carattere dispositivo tutte le norme di legge disciplinanti la società per azioni. I passaggi da ultimo accennati inducono a toccare, sia pure fugacemente, alcuni [continua ..]
Nel sistema complessivo del diritto societario italiano [[21]], i diversi tipi di società, offerti dall’ordinamento, sembrano dunque destinati a coprire al meglio, con modelli giuridici differenziati, le possibili differenti realtà imprenditoriali: (i) le società di persone, le cui regole di organizzazione sono molto duttili e che possono nascere anche da una semplice collaborazione di fatto fra individui, sono in grado di coprire anche le attività occasionali o scarsamente organizzate, e comunque caratterizzate dalla collaborazione stabile fra più individui partecipanti all’attività d’impresa; l’impostazione contrattualistica è dunque per esse quella più congrua, benché nulla escluda che i soggetti interessati possano autonomamente irrigidire, con scelte dell’atto costitutivo, l’organizzazione interna della società [[22]]; (ii) nell’ambito delle società di capitali, la s.p.a. è invece tipicamente destinata a coprire organizzazioni produttive stabili, in cui la gestione dell’impresa è affidata ad amministratori professionali: l’impostazione istituzionalistica – nel senso “debole” sopra precisato – è quella più idonea a ricostruire in modo coerente la relativa disciplina; (iii) la società a responsabilità limitata costituisce invece un modello di società di capitali “intermedio”, molto duttile [[23]], in cui, fermo restando il principio di responsabilità limitata del patrimonio sociale, la disciplina prevede ancora regole organizzative di base di tipo istituzionale, ma consente poi all’autonomia privata (a differenza di quanto è sancito per la s.p.a.) di derogarvi, così dando vita a s.r.l. ad impronta fortemente personalistica [[24]]. L’ordinamento italiano offre dunque, ai soggetti privati che vogliano avviare o sviluppare determinate attività d’impresa, una vasta gamma di opzioni organizzative. In linea di massima, la libertà di scelta fra queste diverse opzioni organizzative è da ritenere costituzionalmente protetta, come parte integrante della libertà di iniziativa economica (art. 41, 1° comma, Cost.). Ciò non impedisce però che il legislatore, nel rispetto dei criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, possa imporre dei [continua ..]
Prima di passare all’esame delle principali opzioni di politica legislativa attuate dalla riforma del 2003, si deve ricordare che il legislatore si trovava di fronte un modello-base di disciplina della s.p.a., ricorrente su base comparatistica, e caratterizzato dai seguenti punti [[26]]: a) la personalità giuridica della società; b) la responsabilità limitata del patrimonio sociale per le obbligazioni derivanti dall’attività d’impresa (senza responsabilità personale sussidiaria di soci o amministratori); c) la suddivisione del capitale investito iniziale in azioni trasferibili, attribuite ai soggetti che costituiscono la società e poi destinate a circolare nei mercati finanziari; d) l’attribuzione del potere di gestione dell’impresa sociale ad un organo amministrativo distinto dalle persone dei soggetti fondatori; e) l’attribuzione ai soggetti investitori (assemblea degli azionisti) del ruolo di decisori di ultima istanza all’interno dell’organizzazione societaria. Questo modello-base era riscontrabile anche nella disciplina della s.p.a. dettata dal codice del 1942 e, come tale, può dirsi sostanzialmente confermato dalla riforma. Però, com’è ovvio, i vari punti elencati possono avere un diverso peso specifico ed una diversa estensione, nell’ambito della disciplina concreta. È in questa prospettiva che può essere meglio colto il valore delle scelte effettuate dal legislatore del 2003.
La riforma delle società di capitali del 2003 costituisce, per larga parte, un intervento di modernizzazione, e non di radicale modificazione, della relativa disciplina. Un intervento pervasivo, che ha comportato una revisione generale del testo previgente, spesso con intenti di consolidazione (o, di volta in volta, di correzione o di precisazione) di orientamenti giurisprudenziali correnti. Oltre ad affrontare numerosi dubbi interpretativi, aperti dalla vecchia disciplina, la riforma ha poi preso giustamente atto di fenomeni largamente affermati nella prassi (dai gruppi di società ai patti parasociali alla telematica) e ne ha fatto oggetto di disposizioni normative. In questi profili di modernizzazione, la riforma è generalmente apprezzabile nei contenuti, anche se non può dirsi tale da ridurre il peso complessivo dei dubbi esegetici trasferiti alla fase applicativa. Anzi, sin dai primi commenti si è potuto rilevare che il lavoro esegetico, imposto dall’entrata in vigore del nuovo testo, è di enorme portata. Infatti, non pochi dubbi interpretativi sono stati lasciati in eredità dal vecchio al nuovo testo, e nuovi dubbi interpretativi sono stati creati [[27]]. Sotto il profilo della certezza del diritto la riforma suscita dunque qualche giustificata delusione. Altrettanto deve dirsi, purtroppo, per la precisione terminologica, che lascia troppo spesso a desiderare [[28]]. Tornando ai contenuti, e cioè alle scelte di politica legislativa espresse dalla riforma, il giudizio può essere invece – come già sopra anticipato – complessivamente positivo. In questa sede, comunque, ci si deve limitare a considerare le principali fra queste scelte di politica legislativa, non senza sottolineare che le scelte innovative non sempre possono equipararsi alla posizione di nuovi principi fondamentali della materia. In qualche caso esse devono essere inquadrate sistematicamente, al contrario, come posizione di norme eccezionali.
Sotto il profilo delle scelte generali di politica legislativa la riforma è stata oggetto – soprattutto nei primi tempi dopo la pubblicazione – di alcune critiche piuttosto severe. In particolare, si è affermato che essa sarebbe carente con riguardo alla garanzia di trasparenza delle strutture di governo della società e all’esigenza di rafforzamento dei poteri di controllo degli azionisti sull’operato degli amministratori (con relativo rafforzamento della responsabilità di questi), nonché in ordine all’esigenza di razionalizzazione del sistema di controllo contabile. Viceversa, la riforma avrebbe mirato soltanto a un rafforzamento dell’autonomia statutaria in funzione del rafforzamento del potere dei gruppi di controllo dell’impresa [[29]]. Queste critiche sono, probabilmente, troppo severe, e possono essere applicate essenzialmente al fenomeno delle società quotate, per le quali, peraltro, la permanenza di una disciplina speciale e di una regolazione amministrativa del mercato dei capitali possono fornire una base adeguata per la tutela degli interessi esterni ai gruppi di comando. La riforma dev’essere, piuttosto, valutata soprattutto nella sua funzione di quadro normativo generale, destinato in primo luogo – anche se non esclusivamente – alle società non quotate [[30]]. In questa prospettiva vanno ora esaminate le scelte fondamentali di politica legislativa del legislatore del 2003, valutandone la coerenza rispetto all’intenzione dichiarata, e condivisibile, di fornire strumenti adeguati all’efficiente gestione di un’impresa medio-grande. 7.1. Un elemento costantemente sottolineato, nel dibattito sulla riforma, è stato quello della scelta compiuta a favore dell’ampliamento dell’autonomia statutaria [[31]], come strumento atto ad incentivare gli investimenti di capitali in società azionarie. In proposito, credo che debba essere anzitutto superato un equivoco, e cioè quello di qualificare questa linea ispiratrice della riforma in termini di liberismo e di deregulation, in contrapposizione ad un preteso dirigismo che sarebbe proprio di un diritto societario caratterizzato dalla prevalenza di norme imperative. In realtà, di liberismo può correttamente parlarsi con riguardo alla disciplina della libertà di iniziativa economica, intesa come facoltà di [continua ..]
Il punto da ultimo accennato merita qualche ulteriore riflessione. L’ampliamento dell’autonomia statutaria, che certamente c’è stato, non è generalizzato. La riforma contiene anche nuove norme imperative, che mancavano nella disciplina precedente [[41]]. Queste norme imperative riguardano, in primo luogo, la presenza (segnalata per primo, con grande merito, da V. Buonocore) di alcune disposizioni di principio, che il legislatore non ha avuto il coraggio, o la consapevolezza, di dettare come vere e proprie clausole generali, ma che emergono lo stesso con tale significato dal tessuto normativo: così il principio di adeguatezza organizzativa e quello di correttezza gestionale (supra, § 2), riassumibili in un principio più generale di tutela dell’efficienza produttiva dell’impresa. Altri principi possono essere confermati dalla disciplina tradizionale, come il principio capitalistico, che impone di garantire il potere decisorio di ultima istanza degli investitori. Questo insieme di principi (su cui la dottrina potrà, auspicabilmente, impegnarsi), pone altrettanti limiti all’autonomia statutaria, e consente di riconfermare, dopo la riforma, alcune soluzioni che, in passato, la giurisprudenza argomentava talora sbrigativamente dalla mancanza testuale di previsioni normative: per esempio, certe clausole sulle maggioranze assembleari, o sui compensi degli amministratori, o sull’attribuzione di poteri a soggetti estranei all’organizzazione societaria, ecc. Ma accanto a questi limiti all’autonomia statutaria derivanti dai principi fondamentali della materia (che meriterebbero un più ampio discorso), si deve segnalare, come precipuo limite imperativo rafforzato dalla riforma, quello della disciplina dell’organizzazione societaria, in senso stretto. Così, è oggi inderogabile il riparto di competenze fra assemblea e organo amministrativo (v. infra). Sono tassativamente indicati dalla legge i tre possibili modelli di organizzazione interna. Sono inderogabili le norme sui controlli, ecc. Sul punto gli interpreti sono sostanzialmente concordi [[42]], anche se non sempre sono chiaramente indicate le ragioni che stanno a fondamento dell’asserita imperatività di certe soluzioni normative [[43]]. A mio avviso, l’assunto relativo alla imperatività delle principali regole organizzative interne è [continua ..]
Una seconda linea direttrice della riforma riguarda l’estensione dell’ambito di applicazione della responsabilità limitata. Si muovono in tale direzione non solo la generalizzazione dell’istituto della società unipersonale e la riduzione del rischio di perdita della responsabilità limitata per il socio unico, nonché lo stesso istituto dei patrimoni separati di destinazione e la generalizzazione della responsabilità limitata nelle società cooperative, ma anche, e soprattutto, l’ammissione di elementi a forte caratterizzazione personalistica nella s.r.l. La riforma segna, sotto questo profilo, un passaggio importante nella progressiva erosione del principio della responsabilità patrimoniale generale (art. 2740 c.c.) e nell’affermazione della normalità della formazione di patrimoni separati a destinazione (lecita) precostituita, come espressione dell’autonomia privata. Tale fenomeno, contemporaneamente alla riforma, si afferma anche con le note discussioni relative all’adozione della figura del trust, già parzialmente sfociate nell’adozione dell’art. 2645-ter c.c. L’idea di fondo è quella per cui dare all’autonomia privata il potere di creare patrimoni separati a destinazione predeterminata, senza rischi di ulteriore responsabilità personale per il costituente il patrimonio separato, è uno strumento giuridico che favorisce le iniziative e gli investimenti. I terzi interessati non possono dirsi lesi da tale strumento, se la costituzione e la gestione del patrimonio separato sono fondate su principi di pubblicità e trasparenza. La disciplina delle società di capitali si inserisce coerentemente in questo ordine di idee. Con la riforma del 2003 scompare l’idea secondo cui la responsabilità limitata costituirebbe un privilegio di carattere eccezionale [[46]]. Se non vi fossero gli ostacoli dovuti al trattamento fiscale, la riforma potrebbe dare una forte spinta all’abbandono delle tradizionali figure di società di persone, dal momento che la nuova s.r.l. può presentare una struttura organizzativa tipica di tali figure, ma fruire al contempo del vantaggio della responsabilità limitata [[47]]. La ratio di questa linea di politica legislativa di favor per la separazione patrimoniale e la responsabilità limitata sta, ovviamente, nel favorire le [continua ..]
Una terza linea di politica legislativa della riforma del 2003 sta nella ridefinizione del ruolo dell’organo amministrativo nella s.p.a., come titolare esclusivo del potere di gestione dell’impresa sociale. È stata in proposito attuata – sul punto ci si è già soffermati nel § 8 – una divisione di poteri interna, in cui l’assemblea è titolare del solo potere normativo e di quello di scelta dei “governanti” dell’impresa, nonché di poteri di controllo (in senso lato) limitati all’approvazione del bilancio e all’azione di responsabilità. L’assemblea non ha invece alcun potere, né di determinazione né di indirizzo, sulla gestione dell’impresa. Solo indirettamente e parzialmente una funzione di indirizzo può essere attribuita dallo statuto attraverso la previsione di autorizzazioni assembleari per singoli atti o categorie di atti. A questa scelta di riduzione delle competenze si accompagna, coerentemente, l’altra scelta volta a limitare la conflittualità interna in materia di deliberazioni assembleari. Questa limitazione della tutela invalidativa è poi accompagnata da una maggiore ampiezza dell’ambito di applicazione del diritto di recesso e da una maggiore tutela patrimoniale del socio recedente. Nelle direzioni segnalate, la nuova redazione degli art. 2377 ss. (ivi compresa la disciplina della nullità, che riduce drasticamente l’ambito di rilevanza di certi vizi, rispetto agli orientamenti giurisprudenziali previgenti) è coerente nei contenuti, anche se la redazione tecnica lascia a desiderare, sia per la precisione concettuale sia per la chiarezza complessiva delle disposizioni [[52]]. In ogni caso, credo che la scelta per la conservazione delle deliberazioni assembleari sia effettivamente un principio fondamentale della nuova disciplina, come tale suscettibile di applicazioni espansive, anche in relazione a profili non espressamente disciplinati dal legislatore (ad esempio: per le deliberazioni dell’assemblea generale, assunte in violazione delle prerogative dell’assemblea speciale, la tesi della semplice annullabilità mi sembra oggi sistematicamente più forte, rispetto alla tesi tradizionale della inefficacia, accertabile sine die).
La nuova disciplina dell’assemblea (sia per ciò che attiene alla riduzione delle competenze, sia per ciò che attiene alla riduzione dei rimedi giudiziari esperibili contro le deliberazioni) esprime una scelta di politica legislativa volta a favorire le ragioni dell’organizzazione su quelle del contratto. I soci non sono considerati domini dell’affare sociale, come vorrebbe una logica puramente contrattualistica, bensì cives di un’organizzazione imprenditoriale; dotati di forti diritti di partecipazione (ed anche, all’occorrenza, di abbandono della posizione societaria e di risarcimento del danno), ma non di poteri di governo dell’impresa [[53]]. Nello stesso senso possono essere lette anche le nuove norme in materia di trasformazione, che (esprimendo un’altra scelta fondamentale di politica legislativa) ammettono senza limiti la c.d. trasformazione eterogenea con deliberazione a maggioranza; nonché la chiara opzione del legislatore della riforma per riportare sotto l’ambito di applicazione del principio di maggioranza materie che in passato erano state spesso valutate come soggette al principio di unanimità (modifiche statutarie delle clausole sulla circolazione delle azioni, revoca della liquidazione). Punto di emersione finale di questa scelta, volta a limitare i poteri di voice degli azionisti, per ragioni di stabilità dell’impresa sociale, è la forte affermazione del principio di conservazione delle deliberazioni assembleari, con la riduzione della legittimazione all’impugnativa, la tendenziale riconduzione della disciplina della nullità ad una sorta di annullabilità aggravata, la netta volontà di precludere il ricorso al rimedio dell’inesistenza [[54]]. Tali scelte a me sembrano razionali e coerenti, anche se talora sono state affermate in modo tecnicamente discutibile (si pensi al dato testuale dell’art. 2379, che porterebbe, a prima vista, a riconoscere la possibilità di sanatoria per qualsiasi delibera ad oggetto illecito o impossibile). Così pure, appare ingenua, e foriera anche di sviluppi interpretativi discutibili, la pretesa di convertire automaticamente i rimedi invalidativi a favore degli azionisti in altrettante pretese risarcitorie [[55]]. Queste critiche alla tecnica legislativa adottata non inficiano comunque la validità delle scelte di fondo della riforma, [continua ..]
Sempre in tema di disciplina dell’organizzazione societaria, conviene tornare ancora su un punto centrale, già accennato nel § 7, che è quello dell’ampliamento dei modelli organizzativi offerti all’autonomia privata. Questa scelta politico-legislativa può essere certamente condivisa, in linea di principio. Si può invece dubitare della chiarezza degli intenti del legislatore, nel disegnare i diversi modelli alternativi, come pure della proprietà e della precisione di molti punti della relativa disciplina. Un dubbio di fondo può formularsi, in primo luogo, per la scelta del modello ordinario. Non credo che sia molto appropriata la corrente definizione di questo come modello “tradizionale”. Il modello veramente tradizionale è quello che comprende, accanto all’organo amministrativo, un organo di controllo contabile, con poteri estesi al controllo ex post di legalità complessiva della gestione. L’attuale modello ordinario prevede, invece, quattro organi, con la presenza di un organo di controllo esterno (revisore contabile) e con un organo di controllo interno, composto da membri indipendenti (in senso forte) e inamovibili. L’attuale art. 2403 rafforza l’indicazione dei contenuti di questa funzione di controllo indipendente, configurandola, più chiaramente che in passato, come una funzione di controllo non solo della legalità, ma anche dell’efficienza della gestione [[60]]. Si tratta (a differenza che negli altri modelli) di una funzione di controllo “pura”, cioè puramente censoria, non accompagnata da funzioni di indirizzo o consultive. Se a ciò si aggiunge che il collegio sindacale ha il potere (che viene poi a configurarsi come potere-dovere) di impugnare le deliberazioni illegittime dell’organo amministrativo (art. 2388, 4° comma), di esercitare l’azione sociale di responsabilità (art. 2393, 3° comma) e di denunziare al tribunale eventuali gravi irregolarità degli amministratori (art. 2409, 7° comma), ne viene fuori un modello organizzativo molto complesso, con un organo censorio indipendente ed inamovibile, titolare di forti poteri-doveri e di connesse responsabilità. Un modello che mi sembra adatto soprattutto per grandi imprese, che coinvolgono notevoli interessi di stakeholder [[61]]. Ciò nella pratica non viene molto [continua ..]
Osservazioni analoghe possono farsi per un’altra, ed altrettanto condivisibile, intenzione del legislatore della riforma, cioè quella di allargare la gamma di strumenti a disposizione delle imprese azionarie italiane, sul piano dell’organizzazione del finanziamento dell’impresa [[78]]. Su questo piano, un errore di tecnica legislativa è stato quello di puntare sull’istituto degli strumenti finanziari atipici, senza poi dettare una disciplina di default degli stessi: le incertezze normative sono oggi tante da costituire disincentivo all’utilizzo del nuovo istituto. L’incertezza del legislatore è stata evidenziata anche dalle modifiche apportate al testo originario dell’art. 2346, senza con questo fornire un contributo di reale chiarificazione. La frammentaria disciplina degli strumenti finanziari partecipativi è, in realtà, distorta in radice dall’intento di consentire alle s.p.a., con lo stesso strumento giuridico, di raggiungere diversi scopi fra loro eterogenei: (i) attribuire diritti di partecipazione a soggetti che apportano opere o servizi; (ii) dare rilevanza statutaria a rapporti particolari con singoli finanziatori, che in passato potevano realizzarsi solo su base contrattuale e mediante patti parasociali (possibilità che, peraltro, rimane integra anche dopo la riforma [[79]]; (iii) consentire alle s.p.a. di emettere strumenti finanziari atipici destinati al mercato dei capitali [[80]]. In realtà, sarebbe stato più saggio distinguere la disciplina degli strumenti adatti a perseguire le prime due finalità e quella degli strumenti finanziari atipici destinati al mercato dei capitali. Per quest’ultima, fra l’altro, la distinzione, che il legislatore sembra avere voluto rimarcare, rispetto alla disciplina dei titoli obbligazionari, appare artificiosa. Oggi il titolo obbligazionario ha probabilmente perduto ogni connotato veramente essenziale (si pensi alle ipotesi di ammissibilità di obbligazioni irredimibili e di zero coupon bonds, che portano a ritenere non essenziali, se presi singolarmente, perfino gli obblighi di restituzione del capitale e di corresponsione di interessi). In questo quadro, appare irrazionale che l’applicazione agli strumenti finanziari della disciplina generale dei titoli obbligazionari (ben collaudata dall’esperienza) sia stata limitata, nella lettera dell’art. [continua ..]
Sul piano del rapporto della società con gli investitori, una ulteriore, e spesso sottolineata, novità ha poi riguardato il rafforzamento del diritto di recesso del socio. L’ampliamento dei casi in cui al socio è dato il diritto di recedere dalla società è stato voluto al fine di realizzare un più articolato sistema di pesi e contrappesi all’interno dell’organizzazione sociale. Tale scelta politico-legislativa è stata dettata dalla convinzione che, per prevenire scelte contrarie al buon andamento dell’impresa sociale, lo strumento in esame possa essere altrettanto e più efficace dei tradizionali rimedi invalidativi o risarcitori [[82]] e che, in ogni caso, esso sia uno strumento opportuno “per eliminare il conflitto endosocietario” [[83]]. In questa prospettiva, il rafforzamento dell’istituto del recesso nelle società di capitali esprime, in coerenza con altre scelte politico-legislative della riforma, l’intenzione legislativa di rafforzare e rendere più efficiente la struttura dell’impresa, e non certo quella di favorirne la dissoluzione in caso di divergenze fra soci. È corretto dunque anche affermare che l’ampliamento dei casi di recesso costituisce «il pendant dei maggiori poteri riconosciuti alla maggioranza» [[84]]. Da qui anche la convinzione, prevalentemente e ragionevolmente espressa dagli interpreti, in ordine alla inderogabilità delle norme che stabiliscono un contenuto minimo del diritto di recesso del socio [[85]]. In effetti, si è levata anche qualche voce preoccupata, secondo cui, in mancanza di un mercato azionario sviluppato e vitale, il rafforzamento dell’istituto del recesso potrebbe rivelarsi destabilizzante per molte imprese piccole e medie [[86]]. L’esperienza applicativa è ancora troppo scarsa per valutare la fondatezza di queste preoccupazioni, che però, intuitivamente (e in coerenza con il sentire della maggioranza dei commentatori), non sembrano condivisibili. La scelta legislativa di rafforzamento dell’istituto del recesso si è espressa sia in senso “orizzontale” (ampliamento delle cause di recesso) sia in senso “verticale” (garanzia di liquidazione del valore effettivo della partecipazione). La scelta di ampliamento delle cause di recesso è particolarmente [continua ..]
Un altro importante filone della riforma, rispetto al quale le intenzioni del legislatore mi sembrano (oltre che condivisibili) realizzate in modo abbastanza coerente (anche se non privo di lacune), è ravvisabile – a mio avviso – nella disciplina dei gruppi. In proposito, si trattava di prendere atto dell’importanza centrale del fenomeno e di realizzare un giusto contemperamento fra l’esigenza di consentire il funzionamento dell’impresa di gruppo (e quindi di legittimare strategie comuni e sinergie fra le diverse società appartenenti al gruppo, sulla base di una direzione strategica unitaria) e quella di evitare ingiusti sacrifici agli interessi esterni di azionisti di minoranza e creditori. Le soluzioni adottate dal legislatore (trasparenza, motivazione delle decisioni, riconoscimento della legittimità dell’interesse di gruppo e del principio dei vantaggi compensativi, responsabilità della capogruppo) sembrano frutto di un serio sforzo volto ad affrontare il problema e meritano di essere messe alla prova, anche se sono state già oggetto di contrapposte critiche [[87]]. In tal senso, un cauto ottimismo può esprimersi proprio per la presenza, nella disciplina dei gruppi, di diverse disposizioni a contenuto elastico, che potranno dare fondamento ad una prassi applicativa atta a concretizzare correttamente l’indicazione di principio (del contemperamento di interessi) contenuta nella legge. Una opportuna lettura della disciplina dei gruppi, come volta ad esprimere indicazioni di principio e non norme eccezionali, potrà anche forse consentire di colmare le lacune più vistose del dato testuale, che possono vedersi almeno nella mancata considerazione degli interessi esterni nella disciplina della attività della capogruppo, nonché nella mancata considerazione delle situazioni in cui al vertice del gruppo vi sono una o più persone fisiche [[88]]. Sul piano sistematico, la disciplina dei gruppi (anche per l’inedita ampiezza data all’obbligo di motivazione di deliberazioni degli organi societari, nell’art. 2497-ter) costituisce comunque il punto di emersione più significativo di quello che sopra abbiamo chiamato “neo-istituzionalismo debole”, e che ci sembra presente nelle pieghe della riforma.
Un altro filone della riforma è costituito dalla nuova disciplina delle cooperative e dalla fondamentale distinzione fra cooperative a mutualità prevalente e non. In questa materia, si è riconosciuto che la riforma fa fare alla disciplina un grande passo avanti in termini di ricchezza dei contenuti della disciplina e di razionalizzazione della stessa [[89]]. La ratio fondamentale della riforma è stata subito definita come quella di «rimuovere gli ostacoli di natura strutturale, organizzativa e finanziaria che hanno sostanzialmente ostacolato un adeguato sviluppo economico delle imprese cooperative e ne hanno condizionato la competitività nel mercato» [[90]]. Con questa ratio sembrano coerenti alcune scelte di fondo della riforma, individuate nella riduzione dell’ambito delle cooperative fiscalmente agevolate e in una valorizzazione della mutualità “egoistica” [[91]], in un quadro di fondamentale continuità della disciplina dell’impresa. Allo stato delle mie scarse conoscenze in materia, posso solo esprimere una cauta propensione a condividere questa scelta del legislatore. Rimane però evidente la sensazione che, per rivitalizzare l’impresa cooperativa la si debba assimilare sempre più all’impresa capitalistica, così sancendo la vittoria storica di questo modello e il progressivo crepuscolo dell’ideologia solidaristica che stava alla base del movimento cooperativo. Ciò che mi sembra opportuno evidenziare è però anche un possibile sviluppo di ordine sistematico, che si collega all’avvicinamento funzionale – già noto a tutti nell’esperienza concreta – dell’impresa cooperativa a mutualità non prevalente e dell’impresa lucrativa. La disciplina delle società cooperative, che è per certi aspetti più precisa e dettagliata di quella della s.p.a., può oggi prestarsi anche ad applicazioni analogiche, per colmare certe lacune rimaste nella disciplina della s.p.a., su problemi che si presentano in modo analogo nelle due realtà. Penso, in primo luogo, proprio agli strumenti finanziari partecipativi (v., per esempio, l’art. 2526, 2° comma).
Un’ultima scelta sistematicamente rilevante, che mi sembra anch’essa costituire indicazione di principio, è data dalla disciplina delle operazioni straordinarie. Questa è stata riscritta in funzione di un principio di continuità dell’impresa, al di là delle modifiche che la struttura giuridica dell’impresa stessa può subire, nel corso dell’attività. Questo principio, tradizionalmente affermato nella lettura della disciplina generale delle modifiche statutarie, incontrava però limiti, che il legislatore del 2003 ha voluto superare. In tal senso, un’indicazione, di valore in certo senso simbolico, è data dall’art. 2504-bis, che sancisce la continuità dei rapporti, anche processuali, delle società dopo la fusione (come a sancire che la continuità dell’impresa prevale sulla discontinuità della persona giuridica). La novità più importante, in questo campo, è però costituita dall’ammissibilità della trasformazione eterogenea. Qualsiasi organizzazione privata che abbia come proprio scopo l’esercizio di un’attività d’impresa può modificare a maggioranza le proprie norme organizzative fondamentali, sia per ciò che attiene alla destinazione dei risultati, sia per ciò che attiene all’eventuale assunzione di ruoli strumentali rispetto ad attività private distinte, svolte dai singoli soci. Lo scopo (lucrativo o meno) può essere modificato a maggioranza, con norma che difficilmente può conciliarsi con una prospettiva contrattualistica. Unica eccezione al nuovo principio di piena trasformabilità giuridica delle organizzazioni imprenditoriali è data dalla disciplina della trasformazione di comunione d’azienda in società, che richiede l’unanimità ed è quindi ricondotta alla norma civilistica generale relativa agli atti dispositivi nella comunione [[92]]: probabilmente si è dubitato che una diversa disciplina avrebbe creato dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo del rispetto del principio di uguaglianza fra proprietari; ma in tal modo si è incoerentemente fatta prevalere una logica proprietaria su quella della continuità dell’impresa. Comunque, nelle altre ipotesi, il principio della trasformabilità a maggioranza [continua ..]
A questo punto si può tornare al tema iniziale (supra, § 2) e ci si può chiedere se l’insieme di innovazioni salienti, contenute nella riforma del 2003, e sommariamente riassunte nei §§ precedenti, presenti un “filo rosso”, che consenta di inquadrarle in un disegno comune. Una risposta positiva mi sembra possibile: in tutte le norme richiamate emerge effettivamente l’idea di fondo della s.p.a. come strumento per la gestione efficiente di un’impresa stabilmente organizzata e destinata a durare nel tempo [[94]]. Il ruolo dei soci fondatori si può esprimere con grande autonomia, e perfino sbizzarrirsi nel creare categorie atipiche di azionisti ed altre connotazioni personalistiche, nelle originarie scelte statutarie. Ma, una volta che la società è costituita, essa, nell’intenzione del legislatore, “vive di vita propria”, analogamente a quanto potrebbe dirsi di una fondazione, che può essere fortemente segnata dalla volontà e dai sentimenti del fondatore, ma vive poi come organizzazione autonoma, vincolata al perseguimento di una funzione, sancita nell’atto costitutivo iniziale. Ai privati che preferiscono regolare i loro affari con modalità propriamente contrattuali, senza rinunciare al beneficio della responsabilità limitata, è data l’opzione della costituzione di una s.r.l. Nella disciplina dello svolgimento dell’attività sociale, la preoccupazione principale del legislatore è stata quella di non ostacolare la dinamica interna, rafforzando i poteri delle maggioranze e degli amministratori, ma al contempo rafforzando anche controlli (invalidità delle delibere del consiglio di amministrazione, allargamento dei casi di responsabilità, ecc.) e contrappesi (rafforzamento del diritto di recesso). Il principio di continuità dell’impresa, gestita in forma societaria, emerge poi come principio fondamentale, destinato probabilmente a futuri, importanti sviluppi sistematici [[95]].
Nei §§ precedenti si è detto più volte che una ricostruzione normativa in termini istituzionalistici deve intendersi non nel senso che la società sia strumento per la realizzazione di interessi sociali non egoistici, bensì nel senso che essa è strumento per l’efficiente gestione di imprese. Il punto merita ancora qualche precisazione finale. La legge di riforma del 2003, in effetti, non è intervenuta direttamente a definire la nozione di “interesse sociale”, né a sancire il grado di vincolatività dello scopo lucrativo della società, che è pure sancito, a chiare lettere, nella definizione generale dell’art. 2247 c.c. A tale proposito, deve ricordarsi che la tradizione del diritto societario italiano intende in senso forte lo scopo lucrativo: anche se da tempo si ammette che, sulla base di norme speciali, la struttura della s.p.a. possa essere talora utilizzata per attività non lucrative (purché sempre rette dal principio di economicità) [[96]], nella ricostruzione della disciplina della s.p.a. si afferma correntemente che l’«interesse sociale» [[97]], cioè il solo interesse legittimamente perseguibile da parte degli organi societari, è “l’interesse comune degli azionisti”, cioè la massimizzazione del valore delle azioni (valore pur sempre correlato all’attitudine della società a produrre lucro, anche se le diverse strategie aziendali possono proiettare tale obiettivo in prospettive temporali differenti). Queste conclusioni sono coerenti con un’ideologia liberista. In un celebre scritto (1970), Milton Friedman affermava che “The Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits”: i valori fondanti dell’impresa devono essere l’efficienza e il rispetto della legge; nessun altro fine può essere imposto surrettiziamente all’impresa. L’idea si inserisce perfettamente nel quadro ideologico generale del liberalismo, inteso come teoria della divisione dei poteri e dei ruoli sociali (M. Walzer) [[98]]. Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso queste idee erano minoritarie: l’ideologia prevalente era tendenzialmente anticapitalista e poco incline a riconoscere le ragioni dell’impresa. L’affermazione neoliberista degli anni seguenti avrebbe dovuto portare al trionfo delle [continua ..]