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1. Disciplina della presidenza e “procedimentalizzazione” dell’amministrazione nel nuovo diritto azionario. - 2. Funzione del presidente. Direzione dei lavori: il rapporto presidente-c.d.a. - 2.1. (Segue): il rapporto presidente – singoli consiglieri. - 2.2. (Segue): deroghe ai poteri presidenziali. - 3. Convocazione del collegio: il rapporto presidente-collegio. - 3.1. (Segue): il rapporto presidente – singoli consiglieri. - 3.2. (Segue): deroghe ai poteri presidenziali. - 4. Fissazione dell’ordine del giorno e controllo dell’informazione endoconsiliare: il rapporto presidente-collegio. - 4.1. (Segue): il rapporto presidente-singoli consiglieri. - 4.2. (Segue): deroghe ai poteri presidenziali. - 5. Obblighi del presidente e monitoring del consiglio. - 5.1. (Segue): riflessi applicativi. - 6. Attribuzione di deleghe gestionali al presidente e adeguatezza degli assetti organizzativi. - NOTE
Nel perseguire la “procedimentalizzazione” dell’amministrazione di s.p.a., la riforma delle società di capitali (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, attuativo della legge 3 ottobre 2001, n. 366) ha dedicato particolare attenzione alla figura del presidente del c.d.a., al quale vengono oggi riconosciuti sia poteri-doveri di “coordinamento” sia poteri-doveri di “propulsione” dell’azione collegiale [1] e, al contempo, negati poteri individuali in tema di gestione dell’impresa [2]. Nonostante la sua indubbia modernità [3], tale disciplina resta peraltro muta, o risulta ambigua, con riferimento a diversi aspetti di particolare rilevanza nella prospettiva prescelta dalla riforma: su alcuni dei quali preme qui soffermarsi. Innanzitutto, restano irrisolti interrogativi, per molti versi tradizionali, circa la ripartizione dei poteri organizzativi tra presidente e altri consiglieri di amministrazione. Problemi che emergono in tutta la loro rilevanza soprattutto nelle fattispecie di organi amministrativi a composizione eterogenea, tipiche delle società di maggiori dimensioni; e che sono particolarmente complessi, non soltanto perché devono essere distintamente analizzati con riferimento a ciascuno dei poteri tipici del presidente, ma anche perché devono osservarsi sia dal punto di vista del rapporto presidente – collegio, sia nella prospettiva del rapporto presidente – singolo consigliere. Inoltre, l’indagine non può limitarsi alla ricostruzione del modello legale, dovendosi valutare anche i margini a disposizione dell’autonomia privata al riguardo. In secondo luogo, questioni in larga parte nuove emergono a proposito della derogabilità dei poteri presidenziali tipici. Si tratta di un profilo che interessa soprattutto le realtà di minore dimensione e/o di tipo familiare, dove la “procedimentalizzazione” dell’agire collegiale può essere avvertita come un costo eccessivo o come una struttura non necessaria. Interessi, questi, che militano nel senso di semplificare convenzionalmente il modello legale o dal punto di vista della articolazione oggettiva della attività deliberativa o, in modo meno dirompente, sotto il profilo della titolarità delle competenze di organizzazione della collegialità. Un ulteriore, nuovo risvolto problematico si coglie poi sul piano [continua ..]
L’analisi dei profili testé selezionati deve muovere dalla considerazione che il presidente del c.d.a. è una figura preposta ad assicurare il funzionamento per un verso ordinato e, per altro verso, dialetticodell’organo collegiale: è questa l’impostazione più coerente, perlomeno ove si accolga – come a nostro avviso è preferibile – l’idea che la funzione della collegialità nel contesto societario in esame [4] risiede nella promozione della unitarietà dell’amministrazione pluripersonale [5], intesa non soltanto come “coerenza” dell’azione ma anche come “partecipazione” alla stessa da parte di tutti gli amministratori [6]. Se in quest’ottica si comprende l’attribuzione al presidente di ampi poteri direttivi [7] (il cui scopo specifico è di assicurare un ordinato ed efficiente svolgimento delle riunioni), resta da stabilire in quale modo si atteggi al riguardo il rapporto tra il presidente e gli altri membri del collegio. Sembra infatti che il dato normativo non contenga indicazioni decisive in proposito: sebbene l’art. 2381, 1° comma, c.c., attribuisca al presidente il potere di coordinamento dei lavori senza menzionare espressamente alcun ruolo in proposito da parte degli altri componenti del collegio [8], ciò non può essere risolutivo, se è vero che non si può attribuire valore ermeneutico assoluto all’argomento a contrario. Tali limiti del dato normativo sono poi confermati da una lettura delle indagini finora condotte in proposito, la quale lascia emergere un quadro non armonico, soprattutto per quel che riguarda il rapporto presidente – collegio. È a tutt’oggi ancora attuale, infatti, la tradizionale questione circa la natura “originaria” o “derivata” dei poteri del presidente rispetto a quelli del plenum. Per la verità il problema va circoscritto, escludendone il profilo concernente la fase di proclamazione del risultato: rispetto alla quale è pacifica l’“originarietà” dei poteri presidenziali, poiché il collegio non è in condizione di accertare autonomamente il risultato della propria attività deliberativa [9]. Per il resto, la questione è aperta. Al riguardo, è da rilevare [continua ..]
Meno problematica risulta, invece, la posizione dei singoli componenti del collegio. È chiaro, in particolare, che riconoscere un ruolo diretto nella materia del coordinamento dei lavori ai singoli consiglieri di amministrazione (un ruolo non mediato, cioè, dalla deliberazione del plenum) significherebbe tradire le esigenze basilari sottese alla disciplina di questo profilo dell’attività collegiale: infatti, considerato che lo scopo di tale normativa è quello di assicurare l’ordinato e regolare svolgimento delle riunioni, è naturale che le necessarie attribuzioni siano riservate ad una figura unitaria; figura che – salve le competenze sovraordinate del consiglio [18] – deve quindi essere uni-personale, non “diffusa”. Pertanto, si deve escludere che in questo ambito siano riconosciute dalla legge, o riconoscibili statutariamente, competenze in capo ai singoli consiglieri di amministrazione, quantomeno in linea di principio. Il problema è più complesso, tuttavia, per quel che riguarda il potere di rinviare l’adunanza. È infatti astrattamente pensabile che ciascun consigliere abbia il diritto o il potere di ottenere il rinvio dell’adunanza, al fine di poter approfondire la conoscenza delle materie all’ordine del giorno [19]. Al riguardo, è necessario distinguere tra la disciplina legale e il ruolo dell’autonomia privata. Per quanto riguarda il primo profilo, sembra che la soluzione negativa si imponga, perlomeno ove si accetti che la funzione del principio di collegialità è, in questo contesto, quella di assicurare l’unitarietà dell’amministrazione, e quindi si escluda che le istanze partecipative dei singoli consiglieri, pur importanti, abbiano un ruolo preminente nella ratio dell’istituto: da tale angolazione, infatti, è logico escludere l’applicabilità analogica della norma (art. 2374 c.c.) che riconosce un siffatto diritto ai soci, poiché se quest’ultima si giustifica nella libertà (del voto e quindi anche) del diritto all’informazione [20], nel caso dell’amministratore l’informazione in vista dell’attività consiliare è oggetto di un obbligo giuridico [21]. Sebbene tali rilievi non escludano, di per sé, la validità di una clausola [continua ..]
Proseguendo lungo la linea di ricerca qui prescelta, resta da vedere in che misura sia consentito all’autonomia privata derogare alle competenze legali del presidente del consiglio di amministrazione. Anche a tal proposito, il dato normativo è poco concludente: esso, infatti, affidando il rinvio all’autonomia privata ad una clausola di salvezza delle previsioni statutarie “diverse”, non chiarisce se le clausole fatte salve siano solo quelle integrative del modello legale oppure anche quelle in deroga allo stesso [24]. E anche a tal proposito gli interpreti sono divisi, discutendosi tra una tesi che ammette tout court la derogabilità delle norme di legge [25] e una tesi più restrittiva [26]. Al riguardo, sembra in linea di principio più convincente l’ipotesi più restrittiva. Sembra sicuro, in primo luogo, che debbano considerarsi illegittime clausole che abroghino, in tutto o in parte, i poteri di direzione delle riunioni consiliari oggettivamente considerati (dall’accertamento della legittimazione degli intervenuti fino alla proclamazione del deliberato), poiché si tratta di momenti essenziali dello svolgimento dell’attività collegiale [27]. Né si potrebbe correttamente addurre in contrario un generico richiamo all’autonomia privata, poiché – se è vero che la radice contrattuale della s.p.a. rende inevitabile un confronto con tale principio (oltretutto in diversi aspetti valorizzato dalla riforma) – è altresì vero che esso trova (tutt’ora) un limite nel principio di tipicità delle società (art. 2249 c.c.) [28]. In secondo luogo, non sembra ammissibile nemmeno una clausola che sottragga al presidente tali funzioni per assegnarle ad altra carica all’interno del collegio (es. amministratore delegato, consigliere più anziano), poiché in caso contrario verrebbe frustrato il senso minimo della istituzione del presidente. Questa, infatti, sembra imposta dalla legge [29] in quanto figura dotata (quantomeno potenzialmente) di una legittimazione assembleare specifica, necessaria in considerazione della importanza di uno svolgimento corretto delle riunioni: valore, questo, che non potendo essere tutelato attraverso una attribuzione “diffusa” dei poteri organizzativi ad [continua ..]
Procedendo nell’analisi dei poteri di coordinamento, occorre soffermarsi sulle questioni poste dal potere di convocazione, cominciando dal profilo del rapporto presidente – collegio. Sebbene il dato normativo sia silente, e nonostante il punto non risulti essere stato particolarmente approfondito tra gli interpreti [32], non sembra particolarmente problematico, alla luce delle riflessioni precedenti, delineare una soluzione alla questione. In particolare, una volta ammessa la sovranità del collegio sulla direzione dei propri lavori, coerenza vuole che analoga posizione esso rivesta con riguardo alla propria convocazione: anche sotto quest’ultimo profilo, infatti, si pongono gli stessi problemi di coerenza ed efficienza dell’amministrazione che sono sottesi alla prevalenza delle deliberazioni del plenum sulle decisioni del presidente in tema di svolgimento dell’attività consiliare; né sembra che il collegio si trovi nella impossibilità di auto-convocarsi, quantomeno in assoluto [33]. In mancanza di dati normativi contrari, ne consegue che – alla stregua dello stesso modello legale (essendo superfluo, allora, l’intervento statutario in proposito) – l’interesse partecipativo degli altri amministratori è tutelato anche con riferimento alla possibilità di determinare (a maggioranza) modo, tempo e luogo della convocazione del collegio.
Diversamente si atteggia il profilo dei rapporti tra presidente e singoli consiglieri di amministrazione. Il riferimento è non tanto alla possibilità di riconoscere agli (ad) altri amministratori (o a gruppi più o meno cospicui di essi) un potere immediato di convocazione del collegio: nonostante non manchino precedenti nel diritto comparato né voci contrarie anche autorevoli [34], a tal proposito sembrano valere i rilievi già esposti riguardo al potere di direzione dei lavori consiliari, nel senso della necessaria unitarietà (e quindi uni-personalità o, tutt’al più, collegialità) della figura competente in materia, pena il rischio di incoerenza ed inefficienza dell’amministrazione. Mancando indicazioni legislative in senso contrario [35], è quindi da escludere il riconoscimento implicito nel sistema [36], come anche la riconoscibilità per statuto [37], di un potere di convocazione più o meno “diffuso” tra i consiglieri [38]. Ciò che qualifica il problema della convocazione del consiglio – e ne giustifica la trattazione autonoma – è il dato, già da più parti notato [39], che l’eventuale potere di intervento in proposito da parte di amministratori diversi dal presidente non si presenta in termini “monolitici”, ben potendosi immaginare uno scenario nel quale – ferma restando la competenza del presidente rispetto alla formalizzazione dell’atto di convocazione – ai singoli consiglieri spetti un diritto o un potere di iniziativa il cui esercizio comporti l’obbligo per il presidente di attivarsi per la convocazione del collegio. È controverso se tale assetto possa considerarsi implicitamente riconosciuto dallo stesso modello legale di organizzazione della collegialità consiliare, e l’opinione forse prevalente è orientata nel senso di una sostanziale autonomia del presidente nel valutare le eventuali istanze degli altri consiglieri di amministrazione [40]. La tesi contraria, peraltro, non soltanto è supportata da importanti esperienze straniere [41], ma è stata sostenuta nel nostro ambiente in una recente indagine che ha affrontato diffusamente la questione [42]. Giova osservare che tale articolazione della fase di convocazione assicura il carattere [continua ..]
Può derogarsi al potere presidenziale di convocazione del collegio? Anche con riferimento a questa questione gli interpreti sono divisi [49]. A nostro avviso – esclusa la rinunciabilità della convocazione come fase dell’attività collegiale in sé e per sé considerata, data la sua inerenza (nella società per azioni) alla inderogabile regola collegiale [50] – per quanto riguarda eventuali “traslazioni” di competenza, sembra che si debba pervenire ad una conclusione positiva, quantomeno tendenzialmente. Infatti, si può dubitare della essenzialità di tale potere alla funzione minima della presidenza, dato che il carattere concorrente (quindi non pienamente discrezionale) della competenza in esame rende meno pressante l’esigenza di un correttivo sul piano delle modalità di nomina del suo titolare (v. supra, par. 2.2). Tuttavia, non sembra potersi trascurare, innanzitutto, il fatto che l’eventuale attribuzione del potere di convocazione a figure eventuali o comunque (giuridicamente) “precarie” (come, ad es., l’amministratore delegato) possa pregiudicare la funzionalità del consiglio (il quale, ove la figura competente dovesse mancare o comunque venire meno, ad es. per la revoca della delega, potrebbe trovarsi nella impossibilità di operare) [51]. In secondo luogo, le clausole che sottraggano al presidente la competenza in punto di convocazione destano forti perplessità per quel che riguarda le società per azioni di maggiore rilevanza socio-economica (società quotate o aperte, ecc.) [52]. Prima di affrontare questo aspetto, è peraltro opportuno soffermarsi sui problemi posti dalla disciplina organizzativa volta alla propulsione dell’attività collegiale, dove le problematiche poste dal rilievo socio-economico qualificato della società sono più pregnanti.
Nella prospettiva della “propulsione” dell’attività consiliare (di promozione, cioè, della qualità e della rilevanza dell’azione collegiale) vengono in rilievo il potere di controllo dell’informazione consiliare e il potere di fissazione dell’ordine del giorno [53]. Poteri, questi, che possono essere trattati in modo contestuale, poiché non soltanto assolvono ad una unitaria funzione; ma, a ben vedere, si pongono similmente rispetto alle questioni interpretative al centro della presente indagine. Per quel che riguarda i temi legati al rapporto (legale e statutario) tra poteri del presidente e poteri degli altri componenti del consiglio di amministrazione (come gruppo o come singoli), l’analisi trae ulteriore giovamento dal fatto che i problemi posti dalle norme in tema di controllo dell’informazione e di ordine del giorno non sono sostanzialmente dissimili da quelli già affrontati a proposito della disciplina della convocazione del collegio. Non a caso si tratta di aspetti che spesso gli interpreti hanno toccato alquanto fugacemente in modo specifico. Quanto al rapporto tra presidente – consiglio di amministrazione, si può notare – pur in mancanza di indicazioni normative univoche e nonostante la apparente mancanza di approfondimenti sul punto – che sia per quanto riguarda la “adeguatezza” [54] dell’informazione consiliare sia per quanto riguarda la completezza dell’ordine del giorno, un modello di amministrazione coerente ed efficiente richiede la prevalenza delle deliberazioni del plenum (arg. ex art. 2381, 3° comma, c.c.). Del resto, una volta riconosciuto che il consiglio non sia assolutamente impossibilitato ad auto-convocarsi (v. supra, par. 3), non si vede perché esso non possa, contestualmente all’esercizio di tale competenza, provvedere a dirigere l’informazione necessaria a deliberare (in concreto, delegandovi, in surroga del presidente, il consigliere che abbia promosso la convocazione del collegio), nonché a fissare formalmente le questioni da affrontare nella riunione indetta [55]. Non ostando a ciò alcun dato normativo, si può concludere allora che l’interesse partecipativo degli altri amministratori sia tutelato anche con riferimento alla possibilità di (concorrere, a maggioranza, a) [continua ..]
Più complesso è il problema posto dal rapporto tra presidente e singoli consiglieri di amministrazione, sebbene tale maggiore complessità non sia stata sempre avvertita nelle indagini in materia. Anche sotto tale profilo la necessità di contemperare la partecipazione (arg. ex art. 2381, ult. comma, c.c.) [56] con la coerenza e l’efficienza dell’amministrazione porta ad escludere ipotesi (sistematiche o statutarie) di attribuzione (più o meno) “diffusa” di competenze piene in materia. Ciò che, tuttavia, non esclude la ammissibilità di clausole statutarie che attribuiscano ai singoli consiglieri di amministrazione poteri “rafforzati” di interazione col presidente in tema di informazione, eventualmente circoscrivendone l’ambito soggettivo di fruizione attraverso parametri quantitativi o qualitativi: si pensi, ad es., al lead independent director (o presiding director), figura di origine anglosassone ma ampiamente conosciuta anche dalla prassi delle società quotate italiane, nelle quali ha, tra l’altro, il ruolo di collaborare con il presidente del consiglio di amministrazione affinché il suo compito di controllo dell’adeguatezza informativa sia adempiuto correttamente, senza essere pregiudicato dall’assunzione di incarichi esecutivi [57]. Per altro verso, le suddette istanze lasciano senz’altro prefigurare forme di condivisione di determinazioni in ultima analisi rimesse al presidente (i.e., potere di chiedere l’integrazione dell’informazione o dell’ordine del giorno stabiliti dal presidente): forme che, anzi, nella materia ora in esame sono particolarmente apprezzabili, poiché non solo comportano una minore ingerenza nella coerenza d’amministrazione rispetto alle iniziative in tema di convocazione, ma addirittura possono contribuire alla coerenza e all’efficienza dell’azione in quanto consentono di valorizzare al meglio le riunioni già indette completandone l’informazione e l’orizzonte tematico nonché rendendo superflua la fissazione di ulteriori consessi ad hoc [58]. Tuttavia, la questione è resa per altro verso più delicata dalla necessità di coordinamento tra gli eventuali poteri “integrativi” dei consiglieri e il potere di convocazione spettante [continua ..]
Meno significative le analogie che, con i temi già affrontati, si riscontrano per quanto riguarda le questioni relative alla derogabilità dei poteri presidenziali in tema di informazione e fissazione dell’ordine del giorno, sebbene – come si vedrà tra breve – anche a tal proposito non manchino del tutto punti di contatto. Resta fermo, peraltro, che anche sotto tale profilo l’analisi dei due poteri può procedere in modo unitario. Sul punto la dottrina è fortemente divisa. In particolare, da un lato, vi è chi ritiene che i poteri in questione possano non soltanto essere imputati diversamente rispetto al modello di default, ma possano anche essere del tutto rimossi [64]. Dall’altro, vi è chi è dell’avviso opposto su entrambi i punti [65] o, perlomeno, ritiene che, sebbene sia possibile sottrarre le competenze in esame al presidente per attribuirle ad altri, le stesse non possano essere in sé e per sé eliminate in quanto parti essenziali del modello legale di organizzazione della collegialità nel profilo “evoluto” che questa ha assunto con la riforma [66]. In verità, le risposte finora prospettate con riferimento ai problemi in questione sembrano peccare di massimalismo. Certo sembra, in primo luogo, che le competenze presidenziali in tema di controllo dell’informazione consiliare e di fissazione dell’ordine del giorno si caratterizzino rispetto al resto dei poteri tipici ex art. 2381, co. 1°, c.c. per il fatto di non rispondere ad esigenze indissolubili dal modello della collegialità consiliare in quanto tale: una disciplina volta ad assicurare un’equilibrata distribuzione dell’informazione amministrativa tra tutti i componenti del consiglio, risponde ad esigenze proprie di fattispecie organizzative “sofisticate”, al di fuori delle quali l’applicazione delle stesse si rivela eccessivamente gravosa o superflua (arg. ex art. 2381, 5° comma, c.c.) [67]. D’altra parte, non si può negare che la introduzione di regole a garanzia di un profilo “evoluto” della collegialità consiliare non risponde ad interessi del tutto privati. In particolare, quando le caratteristiche (funzionali e/o strutturali) e le dimensioni dell’impresa sollecitino interessi generali, questi devono [continua ..]
Particolarmente delicato è il quesito circa l’estensione oggettiva dei poteri del presidente, giacché – trattandosi certamente di poteri-doveri – implica quello concernente la delimitazione del rischio di responsabilità connesso alla carica e, in particolare, del rischio di responsabilità per violazione di obblighi specifici di comportamento [77]. Il problema riguarda soprattutto l’esercizio dei poteri di controllo dell’informazione fornita dai delegati al collegio e di fissazione dell’ordine del giorno. Si tratta di stabilire, per un verso, se il potere-dovere di sovrintendere ai flussi informativi sia circoscritto all’informazione pre-consiliare oppure si estenda all’informativa periodica prescritta dalla legge (artt. 2381, 5° comma, c.c.; 150, t.u.f.) e/o dallo statuto [78]. Per altro verso, occorre determinare se il potere presidenziale di fissare l’ordine del giorno possa e debba esercitarsi (tendenzialmente) rispetto alle sole materie di competenza esclusiva del collegio (perché non delegabili e/o non delegate) oppure si estenda anche alle materie rientranti nella competenza dei delegati (e da questi effettivamente esercitate in autonomia). È chiaro, poi, che tali problemi – postulando un ruolo di controllo del presidente rispetto ai delegati – si pongono nella sola ipotesi che il presidente non sia titolare di deleghe gestorie [79]. In sostanza, si tratta di stabilire se il ruolo del presidente – in ogni caso servente rispetto all’attività del collegio – si caratterizzi prevalentemente in relazione all’attività deliberativa oppure in ordine all’attività di vigilanza (o “valutazione”: art. 2381, 3° comma, c.c.) svolte da quest’ultimo. Al riguardo, i dati normativi non contengono indicazioni univoche. Ciò è evidente per quanto riguarda il potere di fissare l’ordine del giorno, ma non sembra meno sicuro per la competenza in tema di flussi informativi: infatti – se è vero che la norma circoscrive il compito redistributivo del presidente all’informazione endo-consiliare funzionale alla trattazione delle “materie iscritte all’ordine del giorno” – è vero anche che nulla costringe a ritenere che tale nesso funzionale debba [continua ..]
Diverse, e assai significative, sono le questioni applicative sollecitate dalle ipotesi appena sostenute. È allora opportuno, onde chiarire la logica delle riflessioni qui offerte, svilupparne quantomeno alcune in questa sede. In primo luogo, dalle riflessioni sin qui condotte sembra emergere una particolare caratterizzazione dell’obbligo di agire informato del presidente. Infatti, tale obbligo, essendo espressione-specificazione del criterio di amministrazione diligente, deve essere concretizzato alla luce (anche) della “natura dell’incarico” ricoperto dal singolo amministratore (art. 2392, 1° comma, c.c.) [87], risentendo così della “perizia” allo stesso (in certa misura) richiesta [88]. Né sembra incoerente ritenere che la posizione del presidente del consiglio di amministrazione, pur non assurgendo al rango di organo autonomo, integri i presupposti di un “incarico” nel senso inteso dalla norma in riferimento [89]. Sulla base di tali premesse sembra allora legittimo affermare che se, in generale, per il consigliere “non esecutivo” (privo di particolari incarichi) l’obbligo di agire informato comporti il dovere di esaminare con attenzione ed eventualmente approfondire le informazioni “spontaneamente” fornite dai delegati (nonché di acquisire le informazioni ulteriori necessarie per assumere iniziative deliberative in merito alla delega anche al di là dei rimedi resi necessari dalla valutazione delle informazioni “spontaneamente” fornite dai delegati) [90]; per quanto riguarda il presidente, l’obbligo di agire informato sembra richiedere un’informazione regolare [91], indispensabile per consentirgli di adempiere all’obbligo di coordinare i flussi informativi consiliari e di adeguatamente fissare le materie all’ordine del giorno [92]. In concreto, la vigilanza del presidente si deve concentrare soprattutto sulla adeguatezza e sul funzionamento del sistema di controllo interno: è infatti attraverso quest’ultimo che la adeguatezza del flusso di informazione endo-consiliare viene assicurata in una grande società per azioni [93]-[94]. E analogamente si deve dire per quel che riguarda la vigilanza sulla gestione del rischio e, in particolare, sulla implementazione delle strategie (arg. exart. 2381, [continua ..]
Una volta prefigurato un simile rapporto dialettico tra presidente e organi delegati, si comprende l’opportunità di riflettere sul problema del cumulo dei ruoli di presidente e di amministratore delegato nelle società di maggior rilievo. Al riguardo, non sembra offrire spiragli il testo dell’art. 2381, co. 1°, c.c., il quale – non vietando espressamente il cumulo di deleghe – sembra legittimare tale assetto [98]. D’altra parte, sono falliti ulteriori tentativi di introdurre una regola contraria [99]. Giova sottolineare che si tratta di scelta tutt’altro che irragionevole. Infatti, le valutazioni in merito non possono prescindere dagli inconvenienti in termini di costi che una soluzione radicale del problema possa comportare: è chiaro, in particolare, che là dove dovesse escludersi la stessa liceità di un cumulo di ruoli, si delineerebbe un assetto probabilmente troppo gravoso per le società di minori dimensioni [100]. Non sembra, però, che la questione possa considerarsi definitivamente chiusa [101]. Le interpretazioni finora proposte al riguardo non risultano, invero, sufficientemente attente al problema. L’analisi più approfondita condotta in proposito si è invero limitata ad affermare che la soluzione formalmente recepita non è del tutto esente da pregi anche sotto il profilo della garanzia di effettività del ruolo presidenziale di propulsione dell’organo collegiale. In particolare, si è sottolineato, da un lato, come il cumulo di cariche implichi necessariamente una maggiore trasparenza della gestione per il presidente, avendo questi accesso diretto all’organizzazione aziendale in virtù delle deleghe ricevute. Dall’altro lato, si è notato come il conflitto di interesse a tale cumulo immanente possa essere efficacemente governato attraverso l’applicazione dei classici rimedi sanzionatori (revoca per giusta causa; azioni di responsabilità) previsti per lo scorretto esercizio delle funzioni presidenziali [102]. Pare tuttavia doversi obiettare, quanto al primo aspetto, che l’accesso all’informazione gestionale da parte del presidente del consiglio di amministrazione non è fatalmente legato all’assunzione di deleghe da parte del medesimo, perlomeno ove si acceda alla prospettiva qui sviluppata. Quanto poi [continua ..]