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1. Alcune osservazioni preliminari - 2. La nozione di responsabilità sociale dell’impresa: una prospettiva d’indagine - 3. Interesse sociale, interessi altri e doveri degli amministratori - 4. Interessi altri e loro compatibilità nel quadro dispositivo vigente - 5. Alcuni spunti di riflessioni dal Company Act 2006 del Regno Unito e dall’ordinamento statunitense - 6. Conclusioni: responsabilità degli amministratori e interessi altri - NOTE
Le riflessioni che seguono mirano a proporre una risposta all’interrogativo, molto chiaro nella sua formulazione, ancorché complesso nelle sue implicazioni, relativo alla possibilità che l’adozione di comportamenti socialmente irresponsabili o la violazione di norme che impongano la considerazione di interessi altri in quanto diversi da quelli dei soci costituiscano fonte di responsabilità giuridica per gli amministratori. La risposta al quesito impone di indagare una serie di specifiche questioni irriducibili alla apparente “incompatibilità” derivante dalla comparazione fra i sintagmi “responsabilità sociale dell’impresa” 1 e “responsabilità giuridica degli amministratori”. Sia consentito anticipare sin da ora che centrale appare l’attenzione al profilo della sanzione 2 e quindi alla possibilità che la violazione di regole (etico-)sociali 3 provochi conseguenze che abbiano la propria fonte regolamentare nell’ambito del diritto; in questo preciso contesto, alcuni studi sociologici 4 paiono orientati per la tesi negativa. Muovendo dal particolare al generale, l’aspetto da ultimo evocato pone all’attenzione il rapporto fra diritto e morale, la considerazione dei medesimi ambiti quali sistemi autonomi e autopoietici, ovvero la configurazione nei termini di assoluta connessione, secondo alcune ricostruzioni, necessaria 5. Un immediato riferimento alla disciplina interna consente di appurare la presenza di disposizioni specifiche che assegnano rilevanza a “precetti” non giuridici disponendo che quanto adempiuto sulla base dei predetti obblighi acquisisca definitività rispetto alla produzione degli effetti giuridici. Il quesito iniziale, sebbene il riferimento testuale attenga a una ipotesi differente, può considerarsi fornito di riferimenti normativi, tuttavia a-specifici e probabilmente inidonei all’espressione di un principio generale; non rientra nel tema d’analisi pertanto quello della liceità di comportamenti dei gestori, in conformità ai principi ai quali si è fatto riferimento, se non come ricognizione di un passaggio intermedio 6. Su questo generale modello di ragionamento s’inserisce la ricerca attinente alla verifica della legittimità e della opportunità 7 di [continua ..]
Più che proporre una definizione di CSR 10 è utile tracciare una prospettiva di indagine. L’andare oltre i confini della scienza giuridica che l’attenzione a questi aspetti porta con sé appare un dato acquisito. Parlare di responsabilità sociale dell’impresa significa puntare l’obiettivo su questioni che originano da differenti campi del sapere: quello economico, etico, sociologico, oltre che giuridico. L’empirica dimostrazione di quanto appena rilevato è fornita dalla concreta configurazione della CSR quale oggetto unitario dell’attenzione di studiosi di differenti discipline 11. L’approccio multidisciplinare si rileva pertanto fecondo ai fini dell’individuazione della ragioni del fenomeno; la scelta dell’analisi non può che essere, tuttavia, in questo contesto quella giuridica. Pertanto, per evitare che le concettualizzazioni che accompagnano di frequente la lettura del tema rimangano sulla soglia di generiche dichiarazioni di principio incapaci di fornire un criterio utile ai fini della concreta applicazione del modello, occorre chiedersi come le istanze etico-sociali – funzionalmente collegate in forza di un rapporto eziologico a questioni etiche più ampie e generali –, che generalmente stanno dietro la caratterizzazione dell’impianto teorico della CSR, possano nel concreto assumere rilievo per il diritto 12. E, inoltre, come ciò possa avvenire attraverso un livello di giuridicizzazione 13 differente rispetto a quello tradizionalmente assegnato alle stesse istanze. La responsabilità sociale dell’impresa è stata intesa quale integrazione su base volontaria dei problemi ambientali e sociali delle imprese e conseguentemente quale strumento in grado di legittimare un approccio long term all’interno del quale trovano collocazione valori etici utili al perseguimento degli interessi anche degli azionisti e in grado di fungere da oggetto di selezione da parte del mercato 14. Essa così concepita può rilevare anche ai fini della concretizzazione di una responsabilità da affidamento, in particolare negli ordinamenti in cui i diritti fondamentali trovano scarsa protezione 15. La conclusione di questo approccio considera le regole di correttezza quale [continua ..]
Vale a questo punto chiedersi se sia possibile ampliare la nozione di “interesse sociale” 21. Di recente si è osservato che piuttosto che parlare di allargamento della nozione di interesse sociale sarebbe corretto riferirsi a differenti interpretazioni e proiezioni anche temporali dell’interesse dell’azionista all’investimento 22. Fuori dall’ambito di operatività del concetto starebbero le posizioni di rilevanza degli stakeholders; l’interesse sociale sarebbe rivisto nel senso della sua imputabilità agli azionisti attuali e futuri e sarebbe pertanto definibile quale interesse alla duratura presenza dell’impresa nel mercato 23. Come anticipato, la conseguenza dell’impostazione sarà la liceità di operazioni degli organi sociali in grado di pregiudicare gli interessi immediati degli azionisti alla massimizzazione del profitto o del valore delle azioni, se però volte a garantire la permanenza e la solidità dell’im-presa nel lungo periodo. La legittimità esclude la doverosità del contegno, nel senso della cura necessitata degli interessi degli stakeholders, in assenza di disposizioni in grado di avallare una tale lettura 24. L’evoluzione che ha accompagnato nel suo sviluppo storico la nozione di “interesse sociale” riconosce nella attenuazione della tradizionale disputa fra istituzionalismo e contrattualismo 25 una tappa essenziale 26: la cui evidenza, al di là delle specifiche argomentazioni che la sorreggono, è rappresentata dalla ricognizione dell’identità di soluzioni – di fronte a specifiche questioni poste – pur in presenza dell’adesione all’uno piuttosto che all’altro modello 27. Apparirebbe del resto una operazione riduttiva quella dell’assimilazione della concezione contrattuale 28 alla teoria dello shareholder value 29 e al necessario ed esclusivo perseguimento del vantaggio-profitto per i soci. L’accezione contrattuale implica la necessità di individuare il “fine” che la società intende perseguire per il tramite di un’indagine funzionale operata sulla base delle determinazioni contrattuali non necessariamente coincidenti con gli interessi dei soci in senso stretto 30. Maggiore consistenza assume, pertanto, il [continua ..]
La contrapposizione fra interessi dei soci 47 e interessi altri – indicando il rapporto di alterità rispetto alla posizione proprietaria –, non è vera e propria incompatibilità. È possibile individuare la presenza di interessi dei soci che si sostanzino per il tramite dell’attenzione e della cura di quegli interessi di altri soggetti facenti parte, a vario titolo, dell’impresa o in essa, con diverso grado, coinvolti. Interesse è anche la situazione vantaggiosa per altri soggetti non coincidenti col titolare dell’interesse stesso. Il soddisfacimento di un bisogno o la realizzazione di una utilità per il titolare non rappresentano presupposti imprescindibili per la composizione della nozione. Il quadro normativo sembra confermare questa lettura 48. Gli artt. 1174 e 1411 c.c. dispongono che la prestazione, sebbene suscettibile di valutazione economica, possa corrispondere anche a un interesse non patrimoniale del creditore 49; e inoltre (con riferimento al contenuto precettivo dell’art. 1411 c.c.) deve considerarsi ammissibile la stipulazione a favore del terzo purché corrispondente a un interesse dello stipulante 50. Da tali norme si desume il principio che qualifica giuridicamente rilevante l’interesse volto a soddisfare bisogni o a procurare utilità a soggetti differenti dal titolare. La definizione di interesse giuridicamente protetto si lega alla valorizzazione 51 convenzionale delle singole posizioni. Perché ciò possa avvenire, l’autonomia privata 52, e nello specifico l’autonomia statutaria che ne rappresenta una declinazione, deve preoccuparsi di dare tangibile rilievo giuridico attraverso gli atti fondativi o modificativi e comunque generalmente (auto-)normativi, nella composizione del concetto di interesse dei soci, alle posizioni di soggetti diversi dai soci medesimi che con graduazioni differenti assumono un contegno rilevante nello svolgimento dell’attività d’impresa. Rimane ineludibile, come accennato, una riconsiderazione del concetto di interesse, tradizionalmente inteso quale rapporto di tensione fra soggetto e bene 53. Ciò nel senso di riconoscere rilievo a posizioni che dal richiamato rapporto di tensione prescindono e che si palesano attraverso [continua ..]
Le prospettive di comparazione 63 sono feconde, anche limitandosi a una lettura minimalista, in una visione de iure condendo. Il compito del giurista si arricchisce così di funzioni propositive e prospettiche rispetto a soluzioni migliorative non solo dell’efficienza del sistema, ma anche della sua strutturazione assiologica 64. Gli ordinamenti stranieri possono rappresentare in questa ottica uno stimolo efficace, ferme restando quelle differenze che fanno sì che le valutazioni si arrestino di necessità su soglie puramente didascaliche. Di qui l’associazione della valutazione storica dell’evoluzione nel tempo degli ordinamenti al fine di compiere un controllo circa la rispondenza delle diverse impostazioni dogmatiche rispetto alle concrete scelte storiche. Nell’ordinamento inglese il Company Act del 2006 65 ha dato nuovo vigore al dibattito relativo alla impostazione essenzialmente istituzionalistica che questo sistema avrebbe assunto 66. Norma centrale è la sec. 172 67: essa innova rispetto al tradizionale riferimento del “common law duty” al “the best interest of the company” 68. La norma da un lato obbliga gli amministratori al compimento di ogni condotta idonea a garantire il successo della società a beneficio dei suoi componenti 69 (e non della company); dall’altro collega funzionalmente all’obiettivo individuato in astratto una serie di criteri fra i quali quelli relativi all’attenzione alle conseguenze nel lungo termine delle decisioni, agli interessi dei lavoratori dipendenti della società, al necessario miglioramento dei rapporti commerciali della società con fornitori, consumatori e altri soggetti, all’impatto sulla comunità, sull’ambiente e sulla reputazione della società medesima 70. Le disposizioni in una valutazione d’insieme appaiono uscire nettamente da una impostazione legata esclusivamente al tradizionale paradigma dello shareholder value. Le prospettive minimaliste 71 negano il rilievo di un approccio pluralista 72 limitandosi a parlare di versione attenuata del paradigma, riassunta dalla formula Enlinghted Shareholder Value 73. Più nello specifico, si osserva che “the non shareholder interests do not have an indipendent value in the [continua ..]
La disamina della sindacabilità 97 delle scelte dei gestori e delle decisioni dei medesimi segue di necessità ad alcune riflessioni preliminari in materia di contemperamento di interessi. La dialettica ricorre fra l’attenzione a non disincentivare l’assunzione dei rischi che fa parte della fisiologia dell’attività svolta a mezzo delle società e la cura adeguata per una platea di soggetti che possono essere nel concreto pregiudicati dallo svolgimento generico dell’attività medesima – e, più nello specifico, dagli atti di gestione che di quest’ultima ne costituiscono l’espressione più concreta 98. Proprio in tema di responsabilità degli amministratori, le nuove regole (quelle della riforma) eliminano il richiamo al vincolo di mandato rispetto al concetto di diligenza. Questa appare invece commisurata “alla natura dell’incarico e alle … specifiche competenze” degli amministratori (art. 2392, 1° comma, c.c.) 99. La nuova disposizione, lungi dall’oggettivare una figura del buon amministratore, fa piuttosto riferimento a elementi allo stesso tempo oggettivi e soggettivi racchiusi, rispettivamente, nel riferimento alla “natura dell’incarico” e alle “specifiche competenze” vantate dal singolo amministratore 100. La vecchia previsione di cui al secondo comma dell’art. 2392 c.c., riguardante l’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, è sostituita dalle più puntuali previsioni di cui agli artt. 2381 e 2391 c.c. Da queste disposizioni emerge l’obbligo di cura in capo agli organi delegati dell’“adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società” 101. Nozione quest’ultima che assume un ruolo fondamentale e che incrocia di fatto ulteriori competenze. Sussiste, infatti, un obbligo di valutazione dell’adeguatezza (art. 2381, 3° comma, c.c.), più correttamente, della sua concretizzazione nello specifico assetto societario: obbligo che deve riconoscersi in capo al consiglio di amministrazione e agli organi delegati. Il collegio sindacale, infine, deve vigilare sulla persistenza del rapporto e sul corretto funzionamento (art. 2403 c.c.). La rapida lettura del nuovo quadro normativo esclude la presenza di importanti novità rispetto [continua ..]