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1. Introduzione. - 2. L’ente pubblico. - 3. Il servizio pubblico. - 4. L’organismo di diritto pubblico. - 5. La società in house e mista. - 6. Natura e tipi di responsabilità. - 7. La corresponsabilità delle persone giuridiche nel codice civile e penale. - 8. Il d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231. - 9. La responsabilità amministrativa da reato ovvero per colpa d’organizzazione. - 10. L’ambito soggettivo della disciplina. - 11. Le ragioni giustificative delle esclusioni. - 12. Causa pubblica e missione privatistica degli enti ausiliari partecipati. - 13. La corruzione privata. - 14. Considerazioni finali e conclusive. - Bibliografia
Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha introdotto nell’ordinamento italiano uno speciale modello di responsabilità (formalmente) amministrativa a carico degli enti giuridici, per reati commessi, nel loro interesse o vantaggio, da persone che rivestono, presso detti enti, una posizione apicale o che siano comunque subordinate a queste ultime. Come si vedrà nel seguito, questo decreto ha suscitato un vivace interesse dottrinale, in ragione anche dei numerosi collegamenti interdisciplinari e di diritto comparato che esso involge. L’analisi proposta, che è stata condotta per grandi linee in considerazione della vastità e complessità dell’argomento, si prefigge lo scopo di coglierne i profili essenziali e la chiave di volta nella lettura del testo normativo, specie quanto all’applicabilità della figura nei confronti delle società in house e miste.
È constatazione ovvia, per quanto rilevante ai fini del tema proposto, che l’amministrazione italiana è articolata su tre grandi aree: lo Stato, gli enti locali, gli enti pubblici; l’ente pubblico si diversifica dallo Stato e dall’ente locale, a competenza generale, perché tendenzialmente ha come funzione un solo interesse pubblico. Non sempre la legge qualifica esplicitamente pubblico un ente, che può essere istituito o riconosciuto tale solo con lo strumento legislativo, a termini della legge 20 marzo 1975, n. 70: nell’assenza di una definizione normativa unitaria di ente pubblico, la dottrina ha tentato di individuare un possibile minimo comune denominatore, ravvisando pubblico l’ente la cui esistenza è considerata necessaria dall’ente territoriale, che vi intrattiene quindi rapporti connessi a tale ponderazione. Questa valutazione, all’evidenza, ha espressione pregiuridica o latamente politica, anche se giuridicizzata dall’atto normativo di manifestazione, come tale mutevole e fluida in relazione alle variabili giustificatrici (forme organizzative più flessibili, rafforzamento di talune tutele, interessi particolari o contingenti da perseguire): mettendo da parte l’argomento degli indici rivelatori della pubblicità, si è – cioè – in presenza di un’area magmatica, dai confini labili e sfuggenti, che non consente di approdare a conclusioni univoche. In questa cornice, un ulteriore elemento di confusione scaturisce dalla presenza di un’area del tutto contigua a quella degli enti pubblici, occupata dai c.d. enti privati di interesse pubblico, che a loro volta si segnalano per la incerta determinabilità di contorni e contenuto: in pratica, si assegna una qualificazione privatistica a figure in precedenza definite enti pubblici (c.d. privatizzazione fredda), lasciando però immutata la natura pubblicistica delle funzioni, i privilegi e una parte dei controlli ai quali erano sottoposte, in tal modo conservando i benefici del pubblico ed acquisendo i vantaggi del privato. Il quadro è ulteriormente complicato dal diritto comunitario, per il quale è in linea di massima ente pubblico il soggetto, munito di personalità giuridica e deputato all’esercizio di funzioni caratterizzate da privilegi e poteri coercitivi (secondo una definizione analoga a quella prevalsa nel nostro sistema [continua ..]
Anche la nozione di servizio pubblico non ha ancora ricevuto definizione normativa: questa categoria generale è tuttora oggetto di discussione in dottrina, mentre l’inquadramento giuridico dei servizi pubblici locali si rinviene nell’articolo 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (ora, art. 112 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, concernente il testo unico sugli enti locali), che li ha individuati in quelli «che abbiano per oggetto la produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali». Non è certo il caso di tracciare la storia della contrapposizione ottocentesca tra servizi pubblici nazionali (in via indicativa: postali, elettrici, ferroviari, marittimi, aerei ed aeroportuali) e servizi pubblici locali (in linea esemplificativa, mercati, trasporti, illuminazione, pompe funebri), caratterizzati dalla c.d. privativa (monopolio), cui ha fatto seguito l’evoluzione indotta dal sistema concessorio e degli incaricati di pubblico servizio (banche pubbliche, radio e poi televisione) sino agli enti pubblici economici ed alle partecipazioni statali (Iri, Eni, Efim, Agip). Ancora, attraverso le successive privatizzazioni, l’emergere di regimi pubblico-privato (nella gestione come nell’uso del territorio), la disarticolazione funzionale di essi in sottosistemi territoriali (in particolare, per sanità, scuola, università), con un graduale passaggio da una loro concezione soggettiva (per cui servizio pubblico è quello tipizzato da attività materiale svolta da una pubblica amministrazione nei confronti della c.d. utenza), ad una oggettiva (secondo la quale invece il servizio pubblico è caratterizzato da attività che di per sé sono di interesse pubblico, perché intrinsecamente dotate di rilevanza pubblicistica, attesa la generalità degli interessi che sono dirette a soddisfare e che possono essere realizzati direttamente o indirettamente, attraverso l’attività di privati, a prescindere quindi dalla qualificazione del soggetto cui va imputata tale attività). Rinviando su tali argomenti alla bibliografia riportata, il problema che si tenta di affrontare in questa sede è piuttosto, nel multiforme groviglio normativo causato in materia dai plurimi interventi legislativi, la conformazione data dalla giurisprudenza [continua ..]
Agli scopi in considerazione, neppure possono essere ricavate indicazioni precise dall’ordinamento comunitario, che registra la difficoltà di definire un parametro unitario di pubblica amministrazione, a causa sia della disomogeneità dei sistemi giuridici degli Stati membri, sia dell’approccio di tipo sostanziale-funzionale che vuole la medesima nozione adattata alle esigenze sottese alle diverse normative di settore in materia di libera circolazione delle merci o dei servizi o delle persone. Peraltro, a ben vedere, neanche può soccorrere la formula comunitaria dell’organismo di diritto pubblico, che tende a restringere e non ad allargare il concetto di pubblica amministrazione: infatti, qualificare in tal senso una persona giuridica non equivale ad attribuirle (o a presupporre) la titolarità di poteri pubblicistici o una nuova natura addirittura intesa come termine di identificazione, ma comporta soltanto che quel soggetto è tenuto all’osservanza di una certa normativa (come nel caso del contraente negli appalti di lavori, forniture e servizi). Tuttavia, uno sguardo sia pure fugace e schematico deve muovere dalla definizione di organismo di diritto pubblico fornita dall’art. 2 del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 65 (che ha sostituito la corrispondente norma del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157), disposizione poi recepita nel d.lgs. 17 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), secondo la precisazione datane in linea pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 CE, dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee con varie decisioni sulle caratteristiche di “organismo di diritto pubblico” e “amministrazioni aggiudicatrici”, in relazione alle direttive CEE n. 92/50 del 18 giugno 1992 e n. 97/37 del 14 giugno 1993 (sentenze: 10 novembre 1998 in causa C-360/96-Gemeente, 15 gennaio 1998 in causa C-44/96 – Mannesaman, con analoghe affermazioni in 10 maggio 2001 n. 223 relativa all’Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano e 27 febbraio 2003, n. 373). Alla luce di quanto precede, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 7 aprile 2010) hanno da ultimo affermato che la definizione di organismo di diritto pubblico è nozione autonoma del diritto comunitario e che l’art. 3, 26° comma, del ricordato d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 deve [continua ..]
Le modalità di gestione dei servizi pubblici locali vengono qui prese in considerazione ai fini inerenti l’argomento proposto in trattazione, che deve essere piuttosto centrato sul mancato adeguamento dei modelli organizzativi previsti alle dinamiche attuali e sulle logiche di funzionamento loro sottostanti, per il migliore perseguimento dei fini istituzionali degli enti territoriali, anche attraverso apparati strumentali oppure tramite società di capitale. Pertanto, non si entrerà in merito all’armonizzazione dell’ordinamento interno sui servizi pubblici locali con i principi comunitari di tutela della concorrenza od ancora tra separazione della proprietà delle reti dall’erogazione del servizio e sui relativi processi di privatizzazione e liberalizzazione di alcuni servizi di interesse generale, ovvero sulle questioni di governance, ponendo in risalto solo gli aspetti funzionali al discorso della responsabilità degli enti collettivi. In precedenza, sull’esperienza della legge generale 29 marzo 1903, n. 103, l’art. 1 del r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 prevedeva una serie di servizi c.d. municipalizzati da gestire mediante aziende speciali ovvero in economia (ove la rilevanza del servizio non giustificasse il ricorso alla predetta forma), ovvero mediante concessione all’industria privata. La figura della società mista è stata introdotta nell’ordinamento degli enti locali, dall’art. 22 della legge 8 giugno 1980, n. 142, nell’ambito delle diverse modalità tipizzate di gestione dei servizi pubblici locali, come modello aggiuntivo e alternativo (cioè, in economia ed in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale o di una istituzione, tramite società a prevalente capitale pubblico locale se opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di più soggetti pubblici o privati, con riguardo ai singoli apporti di carattere finanziario, tecnico o commerciale implicati dallo specifico servizio). Sorvolando sulle successive variazioni alla legge n. 142/1990, vanno richiamate le modifiche apportate dall’art. 14 del d.l. n. 269/2003 all’art. 113 del t.u.e.l. (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), in particolare quanto alla distinzione tra servizi a rilevanza economica (d’interesse generale offerti in un determinato mercato a fronte del pagamento di un prezzo o [continua ..]
Entrando così nella materia della responsabilità, va subito rilevato come da una sua impostazione prevalentemente risarcitoria si sia passati a rimarcare la preponderante natura sanzionatoria o preventivo-afflittiva di essa e, quindi, a sottolinearne piuttosto l’effetto di deterrenza insita nella condanna più che la possibilità (o probabilità) di risarcimento del danno stesso. Come è noto, l’ordinamento riconosce diverse specie di responsabilità, che ai nostri fini è utile richiamare rapidamente. Responsabilità penale. A norma dell’art. 27 della Carta costituzionale, la responsabilità penale è personale. Secondo la tesi prevalente (Amorth, Nuvolone, Vassalli, Bricola), tale disposto non affermerebbe tanto il divieto di una responsabilità per fatto altrui, quanto il rilievo costituzionale del principio di colpevolezza. Cioè, il fatto reato, per poter condurre alla responsabilità, non solo deve essere riferibile materialmente all’autore, ma deve altresì risultare a lui imputabile sul piano soggettivo. Il dolo e la colpa, infatti, sono propri della persona fisica e la pena deve essere rapportata alla personalità del reo. In questo senso, l’ente – in quanto soggetto impersonale – non è responsabile perché non può rispondere per il comportamento (altrui) di un dipendente al quale, a norma dell’art. 43 del codice penale possa essere imputato dolo (evento dannoso o pericoloso preveduto e voluto come conseguenza della sua azione od omissione) o colpa (evento anche se preveduto, non voluto e causato da negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi oppure da regolamenti ovvero di ordini o di discipline). Responsabilità civile. Secondo il diritto comune, chiunque dolosamente o colpevolmente cagioni danno ingiusto, nel senso di meritevolezza dell’interesse leso, è tenuto a risarcirlo. Nell’ordinamento pubblico, se un funzionario o impiegato arreca danno ad un terzo estraneo alla pubblica amministrazione, la nostra Costituzione prevede (art. 28) che sia il funzionario sia la stessa amministrazione insieme, debbano risarcire il terzo del pregiudizio subito, e ciò in virtù del principio che la pubblica amministrazione deve sempre rispondere per i danni arrecati dai propri agenti. Per questa [continua ..]
Ciò premesso, si impone a questo punto una lettura preliminare ai modelli di diritto interno che hanno preceduto il d.lgs. n. 231 e che hanno costituito paradigma normativo in tema di responsabilità amministrativa degli enti. Un iniziale richiamo va fatto al combinato disposto degli artt. 185, comma 2 del codice penale e all’art. 2049 del codice civile: dispone infatti il primo che «ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui»; recita invece il secondo che «I padroni ed i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti» (alla luce dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza espressasi sull’art. 2049, la norma determina una responsabilità indiretta, di natura oggettiva, ove sussista un nesso di causalità necessaria tra il comportamento dell’agente e le mansioni affidategli). Sempre nel codice penale, si rinviene, all’art. 197, un secondo precedente in tema di corresponsabilità delle persone giuridiche, ai sensi del quale «gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le Regioni, le Province ed i Comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza, o l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità del colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta» (è bene notare che, perché sussista una responsabilità dell’ente, può anche essere sufficiente che il reato sia stato commesso nel suo interesse, senza alcuna valutazione però circa la sussistenza o meno di una qualche “colpa d’organizzazione”). Un ulteriore meccanismo di responsabilità indiretta è previsto dall’art. 6, 3° comma della legge 24 novembre 1981, n. 689 sul sistema delle sanzioni amministrative, a tenore del quale «se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di [continua ..]
Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, intervenuto a disciplinare la responsabilità degli enti collettivi «per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato», rappresenta quindi l’epilogo di un lungo cammino volto a contrastare il fenomeno della criminalità d’impresa, attraverso il superamento del principio, insito nella tradizione giuridica nazionale, societas delinquere non potest e nella prospettiva di omogeneizzare la normativa interna a quella internazionale di matrice prevalentemente anglosassone, ispirata al c.d. pragmatismo giuridico ed al principio che non deve essere consentito di trarre profitto da un crimine (seppure d’altri). La legge delega 29 settembre 2000, n. 300, infatti, ha ratificato e dato attuazione alla Convenzione OCSE 17 dicembre 1997 (sulla lotta contro la corruzione dei funzionari pubblici stranieri), che – all’art. 2 – obbligava gli Stati aderenti ad assumere «le misure necessarie, conformemente ai propri principi giuridici, a stabilire la responsabilità delle persone morali» per i reati evocati nella stessa Convenzione: questa, però, non è l’unico strumento internazionale al quale si è ispirato il legislatore delegante nel formulare il testo della citata legge n. 300 (art. 11). In contemporanea, difatti, al di là delle generiche indicazioni offerte dalla Convenzione OCSE, è stata data attuazione anche al secondo protocollo della Convenzione PIF (sulla protezione degli interessi finanziari), il cui art. 3 dettava, in tema di responsabilità degli enti, direttive più puntuali, distinguendo due ipotesi: a seconda che il reato fosse stato commesso da soggetti in una posizione dominante (basata sul potere di rappresentanza, sull’autorità di prendere decisioni, sull’esercizio del controllo in seno alla persona giuridica) ovvero da soggetti in posizione subordinata (che, per carenza di sorveglianza o controllo da parte dei soggetti apicali, avessero reso possibile la perpetrazione del reato a beneficio della persona giuridica). L’art. 11 della legge delega, pur nel recepimento delle indicazioni degli strumenti internazionali, ha dotato il nuovo illecito di un volto dai contorni ancora più precisi, contemperando i profili di generalprevenzione, primario obiettivo della responsabilità degli enti, con «le garanzie che ne devono rappresentare il [continua ..]
Questo modello di responsabilità è stato costruito dal legislatore in modo (formalmente) amministrativo a carico degli enti giuridici, per reati commessi, nel loro interesse o vantaggio, da persone che rivestono, presso detti enti, una posizione apicale o che siano comunque subordinate a queste ultime, ma insorge per connessione con la realizzazione di un reato commesso da costoro (anche se ignoti), tra quelli tassativamente indicati dal legislatore: si tratta di una metodica protesa, da un lato, ad impedire l’attribuzione di una responsabilità su base meramente oggettiva, e, dall’altro, a stimolare l’ente ad innalzare il livello interno di vigilanza. Sostanzialmente ha però natura parapenale, in modo da rendere incisivo l’intervento penalistico in materia economica, essendosi la sola responsabilità civilistico-risarcitoria rivelata insufficiente ad arginare fenomeni di allarme sociale alla luce del fatto che, per una società, può essere conveniente mandare allo sbaraglio persone interposte, rischiando il meno possibile: il criterio di imputazione soggettiva è infatti congegnato in modo tale da ascrivere all’ente una responsabilità amministrativa dipendente da reato come effetto di una colpa della sua struttura organizzativa. Il decreto legislativo in commento ha struttura aperta, nel senso che il novero dei reati di cui esso si occupa è soggetto a progressivo ampliamento, come accaduto nel corso di questi ultimi anni, in cui sono state aggiunte o riviste le iniziali figure criminali e le relative sanzioni elencate: il risultato ovviamente è di disorganicità tra le numerose fattispecie criminose richiamate, che sono le più varie, ma il cui scopo è essenzialmente quello di attenzionare gli enti sulla loro incidenza nel corso dell’attività d’impresa e che implica una specifica mappatura dei concreti rischi tra quelli elencati in cui possa incorrere l’impresa stessa. L’art. 17 esclude l’applicazione delle sanzioni interdittive quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti circostanze: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il [continua ..]
L’ambito soggettivo di applicazione della disciplina sulla responsabilità degli enti collettivi per gli illeciti commessi dai propri dirigenti e dipendenti è delimitato dall’art. 1, che per l’appunto individua i potenziali destinatari delle peculiari sanzioni amministrative previste dai successivi artt. 9 e ss., ma, a fronte dell’ampia ricomprensione degli enti a soggettività privata (2° comma), sta una ristretta cerchia di enti dotati di soggettività pubblica: il comma 3, infatti, statuisce che le disposizioni contenute nel testo normativo in parola «non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale». Il che equivale a dire che sono soltanto gli enti pubblici economici (nell’accezione di enti che svolgono attività economico-commerciale, non già di forma organizzatoria oramai recessiva nello scenario pubblico nazionale) a dover rispondere per i reati eventualmente commessi a proprio vantaggio. Nondimeno è evidente il rilievo della disciplina in discorso per l’interesse pubblico, incidendo essa sui soggetti pubblici che sovente si trovano nella condizione di gestori di attività lucrative e di tipo imprenditoriale: si pensi, solo per un riferimento di immediata percezione, alle aziende municipalizzate o agli enti finanziati dallo Stato o alle farmacie comunali, a maggior ragione quindi per quanto concerne le società strumentali e partecipate che erogano servizi. Come afferma testualmente l’art. 2201 c.c., gli enti pubblici c.d. economici si contraddistinguono in quanto «hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale»: essi, sostanzialmente, perseguono finalità pubblicistiche utilizzando strumenti di diritto privato (contratti in luogo di provvedimenti) e, pertanto, si distinguono dagli enti c.d. di amministrazione per il carattere non autoritativo del proprio agire. Ciò comporta che la loro attività è assoggettata pressoché esclusivamente al diritto comune delle imprese, anche se la gestione finanziaria (ove si tratti di enti collegati allo Stato, che vi contribuisce in via ordinaria) è sottoposta al controllo della Corte dei conti ai sensi della legge 21 marzo 1958, n. 259. Assume perciò rilevanza in questo ambito [continua ..]
L’art. 11, 1° comma della legge n. 300/2000, nel prefigurare l’esclusione di talune figure soggettive dall’ambito applicativo della futura disciplina sulla responsabilità degli enti collettivi, faceva espresso riferimento a «lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblicipoteri». Secondo quanto si legge al par. 2 della “Relazione al d.l. n. 231 del 2001”, l’esclusione prevista per lo Stato si estenderebbe anche agli enti pubblici territoriali (Regioni, Province, Comuni), in quanto «oltre ad avere la titolarità di poteri tipicamente pubblicistici (si pensi alle attribuzioni delle Regioni in materia legislativa), l’equiparazione di questi enti allo Stato è suggerita da ragioni di ordine sistematico». Vi si afferma che sia appena il caso di evidenziare come, oltre agli enti economici che agiscono prevalentemente iure privatorum, numerosi altri sono gli enti pubblici che non esercitano pubblici poteri e svolgono attività a contenuto essenzialmente economico, dotati sostanzialmente di una disciplina negoziale, ma a cui leggi speciali hanno conferito natura pubblicistica per ragioni contingenti (ad esempio, gli enti associativi, come la Croce Rossa Italiana e gli Automobile Clubs d’Italia); nonché, ancor più significativamente, gli enti pubblici che erogano un pubblico servizio (fra cui le Aziende sanitarie, le istituzioni scolastiche e le Università). Discorso similare è fatto anche per gli enti lirici, o per gli istituti di patronato e di assistenza sociale, o per le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, o per l’Agenzia spaziale italiana, o per l’ente Ferrovie dello Stato, o per le autorità portuali, o ancora per i consorzi di bonifica, o le federazioni sportive, o per le società in mano pubblica, di cui la giurisprudenza più recente è venuta confermando la natura ancipite, ancorata cioè al carattere degli interessi di volta in volta concretamente perseguiti, o alla natura dell’attività di fatto posta in essere, in ossequio ad un criterio di ordine oggettivo (si pensi, per assimilazione, anche alle associazioni e fondazioni non lucrative, di volontariato e ONLUS). Di questa situazione, in breve, si prende atto nella medesima Relazione, ove però, constatata l’impossibilità di fornire un catalogo degli [continua ..]
La problematica connessa ai modelli di società in house e miste pone una serie di interrogativi, con particolare riferimento alla compatibilità della causa pubblica con la missione privatistica, circa l’equiparabilità all’Ente Pubblico, anche con riguardo ai profili di costituzionalità della disciplina e del riparto giurisdizionale delle controversie relative agli atti di gestione. Il Consiglio della Comunità economica europea (Reg. CE 2223/96, 25 giugno 1996), nel modificare il Sistema Statistico europeo, ha precisato, sia pure al limitato fine della disciplina settoriale esaminata, che sono da considerare Amministrazioni Pubbliche «tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di beni e servizi non destinati alla vendita, la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella ridistribuzione del reddito e delle ricchezze del paese». La Corte di Giustizia Europea, con la sentenza in causa C-18/2001 del 22 maggio 2003, ha ribadito che la natura non industriale o commerciale dei bisogni istituzionalmente soddisfatti può dirsi sussistente allorché si tratti di bisogni che da un lato sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di servizi e beni sul mercato e, dall’altro, al cui soddisfacimento lo Stato preferisce provvedere direttamente ovvero con modalità organizzative tali da consentirgli di mantenere un’influenza dominante; in coerenza, con la pronuncia in causa C-113/2007 del 26 marzo 2009, ha ritenuto che l’organismo europeo di controllo (Eurocontrol), incaricato di sviluppare un sistema uniforme di gestione del traffico aereo in Europa, sia un soggetto pubblico e non un’impresa in quanto le attività, per loro natura, le finalità e le regole a cui è sottoposto, connesse con l’esercizio di poteri di controllo e di polizia dello spazio aereo, sono tipicamente poteri pubblici e non attività economiche. La giurisprudenza amministrativa, a sua volta, da tempo ritiene che la veste imprenditoriale ed anche l’eventuale caratterizzazione lucrativa di un soggetto non ostano alla qualifica in termini di organismo di diritto pubblico, [continua ..]
Tuttavia, in linea astratta di principio non è da escludere che altri enti, diversi da quelli contemplati dal d.lgs. n. 231, possano risultare compatibili con il meccanismo sanzionatorio ivi previsto per la commissione di illeciti di carattere penale. Anche in quanto, per effetto delle incisive innovazioni in atto che vanno interessando le amministrazioni pubbliche, sempre più interessate ad interagire con il mercato, magari nascoste da strutture strumentali o partecipate di promozione, sostegno e sviluppo, la distinzione dagli enti pubblici economici si mostra nella realtà sempre più labile. Il conseguente quadro di incertezze viene, di fatto, colmato dalla prassi applicativa del d.lgs. n. 231, che vede non solo società miste, ma anche aziende e società strumentali pubbliche farne applicazione, a volte su iniziativa degli stessi Enti soci pubblici che regolamentano in tal senso (vedi Regione Lombardia) o in via di sperimentazione (Unità Sanitarie Locali), alla luce della tendenza in atto a porre al centro dell’attività amministrativa il paradigma della responsabilità come fatto di azione, e non soltanto quale parametro della risarcibilità. Certamente anche l’ente pubblico può in ipotesi trarre profitto dall’illecito commesso da un proprio dipendente, ma l’esenzione degli enti a soggettività pubblica è unicamente frutto di una discrezionale scelta legislativa, per ragioni di gradualità e di compatibilità con la finanza pubblica allargata, cui non sono neanche estranei aspetti strutturali connessi all’appartenenza pubblica, senza scomodare la scriminante politica. Infatti, il sistema pubblico è già provvisto di proprie sanzioni interdittive e queste, incidendo sullo svolgimento dell’attività da parte dell’ente, non sembrano del tutto conciliabili con il carattere di necessarietà della stessa attività. Inoltre, le coeve normative sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e 18 agosto 2000, n. 267) hanno tracciato il principio secondo cui spettano ai dirigenti tutti gli atti di gestione, compresa l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni degli organi di governo [continua ..]
L’analisi condotta nei precedenti paragrafi, confortata dalle prime pronunce giurisprudenziali riguardanti l’attuazione della 231, evidenzia un aspetto sinora forse non particolarmente avvertito dalle imprese italiane, pubbliche e private: cioè,seppure la disciplina sia finalizzata alla prevenzione dei reati, tuttavia essa costituisce l’occasione per migliorare la qualità dell’organizzazione e l’efficienza aziendale (per il pubblico è da richiamare i sistemi di performance di cui al d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 in attuazione della legge delega 4 marzo 2009, n. 15). Infatti, l’attuazione di efficaci modelli di prevenzione dei reati è operazione complessa e passa attraverso una rivisitazione delle politiche d’impresa, dovendo il modello di prevenzione essere in grado di esprimere una governance societaria chiaramente improntata, non solo all’attiva prevenzione di episodi criminali, ma in generale orientata al rispetto della normativa vigente, specie fiscale, ambientale e lavoristica. In altre parole, l’applicazione del d.lgs. n. 231 non è una foglia di fico ovvero la panacea dietro la quale ripararsi: interventi di mera cosmesi, rivolti soltanto a creare uno schermo tra società e preposti ovvero preordinati solo a migliorare l’immagine esterna o commerciale dell’ente, saranno pertanto del tutto inadeguati ad escludere una potenziale responsabilità dell’impresa e, di conseguenza, del management che li ha posti in essere, nell’assenza di un valido ed efficace modello procedurale di governance. Questa conclusione è del resto coerente col presupposto stesso per l’imputazione di una responsabilità amministrativa all’ente, la cui “colpa d’organizzazione” potrà dirsi esente soltanto nel caso in cui l’ente dimostri di aver decisamente intrapreso il cammino, tutt’altro che agevole, verso una cultura del controllo e della prevenzione, abbandonando il campo dell’emergenza e della quotidianità, che allignano anche e soprattutto nel contesto pubblico.