<p>Il giudizio civile di Cassazione di Ricci Albergotti Gian Franco</p>
Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Sez. III – Osservatorio di diritto societario della crisi di impresa (di Giovanni Carmellino)


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SOMMARIO:

Le condotte e le responsabilità degli organi sociali nella crisi di impresa - 1. La disciplina della crisi dell’impresa nel codice civile. - 1.1. Incentivi e legislazione societaria. - 1.2. Le crisi d’impresa. - 1.3. Gli indici della crisi. - 1.4. I controlli delle società come strumenti di tempestiva rilevazione della crisi d’impresa. - 2. La rinnovata disciplina in tema di gestione. - 2.1. Il principio di corretta amministrazione e l’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili. - 2.2. Flussi informativi. - 3. La disciplina dell’organo di controllo. - 3.1. La vigilanza propriamente detta. - 3.2. Segue. Poteri e doveri. - 3.3. Chiose sul potere di convocazione dell’assemblea. - 3.4. I controlli nelle s.r.l. - 4. Le responsabilità degli organi amministrativi e di controllo nella gestione della crisi d’impresa. - 4.1. La responsabilità dell’organo gestorio. - 4.2. La responsabilità degli organi di controllo. - 5. Le funzioni degli organi societari nelle crisi di impresa: una proposta. - NOTE


Le condotte e le responsabilità degli organi sociali nella crisi di impresa

1. La disciplina della crisi dell’impresa nel codice civile.

Quello della ricostruzione delle dinamiche comportamentali degli organi di governo dell’impresa societaria in crisi rappresenta un tema di considerevole interesse e di centrale attualità; ciò nonostante, sebbene qualche contributo sia già rintracciabile in dottrina [1], è solo nell’ultimo periodo che la letteratura si è spesa alacremente in un lavoro ricognitivo volto a individuare gli obblighi incombenti sui gestori e sui loro controllori di fronte ai primi segnali rilevatori di un dissesto imprenditoriale in fieri [2]. Invero l’opera ricostruttiva si confronta, in negativo, con l’assenza di norme o for­mule che insegnino come evitare, affrontare e gestire il critico passaggio rappresentato dalla crisi aziendale [3], e, in positivo, con la incerta qualificazione del dissesto imprenditoriale quale momento patologico (nel senso di processo che, se non contrastato, determina la progressiva distruzione di valore [4]) o, al contrario, fisiologico (rappresentante dunque una mera fase dell’attività di impresa [5], tutt’altro che eventuale [6]). A me pare che questi assunti rappresentino lo zero cartesiano della presente indagine, diversamente operando le condotte degli organi sociali, gli obblighi e le relative responsabilità se inserite in quella che si vuole ancora considerare una tensione aziendale nient’affatto naturale, o, viceversa, in un momento normale del ciclo dell’impresa: in questa ultima ipotesi, difatti, alcuna opera ricostruttiva andrebbe effettuata, operando la disciplina dell’agire societario senza alcuna torsione interpretativa; diversamente, se è ancora vero (come ritengo) che la crisi sostanzi una infezione dell’apparato imprenditoriale, il comparto normativo ordinario andrebbe modellato, dal punto di vista esegetico, in funzione di siffatta eventualità, non essendo sufficienti le regole proposte dal legislatore. In primo luogo, siffatta attività credo debba prendere le mosse dalla analisi delle norme dettate in tema di funzioni degli organi societari e di rapporti tra gli stessi, così come disciplinate dal codice civile e dalle leggi speciali, presupponendone poi assunzioni certe da declinare nell’azione dei gestori e dei controllori nella fase in cui pare sorga – come ritengo – l’obbligo di accesso spontaneo alle procedure negoziali di [continua ..]


1.1. Incentivi e legislazione societaria.

Le linee normative di fondo, difatti, che potrebbero assurgere a viatici regolamentari delle condotte degli organi societari in presenza di una crisi d’impresa trovano, secondo me, in primis, un dato comune e caratterizzate nel principio di “corretta amministrazione” [22], tant’è che l’espressa menzione tra le materie soggette alla vigilanza dei sindaci conferma la sua validità generale tipizzante e descrittiva del contenuto caratteristico delle prestazione degli amministratori [23], e la sua operabilità anche qualora la società non sia dotata di un organo amministrativo consiliare o non abbia, comunque, istituito la figura dell’amministratore delegato o del comitato esecutivo [24]. Da tali premesse si evince come quella della corretta amministrazione societaria e imprenditoriale sia una regola imperativa che accompagna tutte le fasi della vita imprenditoriale [25], e che va declinata soprattutto nella dinamica deficitaria: non mi pare un azzardo, infatti, applicare il detto principio anche nell’ipotesi del dissesto imprenditoriale, in seguito (o addirittura prima) del quale, i doveri degli amministratori – e degli organi deputati al loro controllo – cambiano [26]. Un tempo confinate nel perimetro disegnato, da un lato, dall’obbligo del rispetto della legge e dello statuto, e garantita, dall’altro lato, dal safe harbour della business judgment rule [27], la diligente gestione e la sfera di sindacabilità dell’operato degli amministratori oggi vanno analizzate con la lente d’ingrandimento dei principi di corretta amministrazione. Un ulteriore spunto dialettico può essere tratto dal riformato art. 2381 c.c., il quale impone l’adeguatezza dell’assetto organizzativo rispetto all’impresa, che gli amministratori con delega curano, quelli senza delega valutano, sul quale i sindaci sono chiamati a vigilare e che forma, inoltre, oggetto del flusso informativo da attivare all’interno dell’organo amministrativo [28], e tra i controllati ed i controllanti, diretto a rendere più agevole (ed obbligata perché consapevole) l’attivazione degli organi societari nelle situazioni di dissesto economico [29]. In altri termini, come correttamente rilevato in dottrina, vista la relatività del parametro di cui in parola, il canone dell’adeguatezza [continua ..]


1.2. Le crisi d’impresa.

Come detto sopra, in letteratura l’opinione dominante ritiene che l’insorgere della crisi sia da considerare come un fenomeno che caratterizza il ciclo vitale di tutte le imprese operanti in un mercato competitivo [48]. L’affermazione è da ritenere relativamente vera nella misura in cui, tuttavia, un determinato squilibrio, manifestatosi in forma lieve, venga affrontato con tempestività attraverso delle azioni correttive dirette ad interrompere o limitare fenomeni degenerativi e ad impedire la sconfinamento nel tracollo irreversibile [49]. In caso contrario, il fenomeno, da fisiologico, si tramuta in una patologia che va individuata e per la quale è necessario prescrivere, se presa in tempo, delle cure immediate. In quest’ordine di idee, il concetto di tempestività a cui ancorare tali interventi, nella materia che qui interessa, è quello che si colloca in un’area temporale diversa ed anteriore rispetto allo stato di insolvenza propriamente detto, e la cui individuazione risulta prodromica all’accoglimento di specifici strumenti di prevenzione, e alla individuazione di un’azione virtuosa degli organi sociali, sul presupposto che all’insolvenza si giunga a seguito di un graduale e progressivo peggioramento della condizione patrimoniale e reddituale dell’impresa [50]. Vari sono stati i tentativi di individuazione delle differenti tipologie di crisi aziendale: si è parlato di intensità [51] o di possibilità di risanamento [52], di crisi di legalità – non patrimoniali – e crisi patrimoniali [53]; un dato comune, ciò nonostante, è sicuramente rinvenibile nella tempestività dell’adozione di provvedimenti utili a ripristinare l’economicità della gestione, prima che la stessa comprometta seriamente la struttura finanziaria e patrimoniale dell’impresa, e nella adeguatezza di tali interventi. A prescindere dalla categoria che si voglia spendere, dunque, l’azione rapida, preventiva ed adeguata è, all’unanimità, considerata fondamentale per impedire il tracollo finanziario [54]. Si è più volte ripetuto che l’ordinamento italiano non ci consegna la definizione di stato di crisi [55], ma secondo la dottrina più autorevole esistono dei dati economici, da una parte, e normativi, dall’altra, dai [continua ..]


1.3. Gli indici della crisi.

Naturalmente, il segnale di allarme deve risultare riconoscibile all’orecchio dell’ascoltare, e, in questo senso, vengono in soccorso tutti quegli strumenti che permettono di aumentare il volume dell’emergenza. In primo luogo, a norma dell’art. 2428 c.c., la situazione aziendale complessiva contenuta nella relazione sulla gestione, depositata a corredo del bilancio societario, deve esprimere la rappresentazione della società, l’andamento ed il risultato della gestione, nel suo complesso e nei vari settori in cui ha operato, anche attraverso imprese controllate, con particolare riguardo ai costi, ai ricavi ed agli investimenti, nonché una descrizione dei principali rischi ed incertezze cui la società è esposta [77]: da ciò, risulta fattibile desumere un eventuale stato di crisi inteso quale situazione che pone in pericolo la prospettiva di continuità dell’impresa [78]. Un ausilio in questo senso può essere fornito dalla ricognizione degli indicatori finanziari, gestionali o di altra natura che, complessivamente, possono consentire di verificare se vi siano elementi tali da compromettere la continuità aziendale [79]. A mero titolo esemplificativo, un’anamnesi dell’impresa può fondarsi sulla eccedenza di capacità produttiva, su un livello di marginalità inadeguato, su uno sbilanciamen­to delle posizioni debitorie di breve termine rispetto a quelle di medio-lungo termine, su una situazione di sovraindebitamento rispetto ai flussi disponibili al servizio del debito, su carenze organizzative e di pianificazione della produzione, nonché sul deterioramento del merito di credito in relazione a fattori reputazionali [80]. A questa carrellata possono aggiungersi degli indici di carattere finanziario: la presenza di un deficit patrimoniale o di capitale circolante netto negativo; perdite operative o significative perdite di valore delle attività che generano cash flow [81]; mancanza o discontinuità nella distribuzione dei dividendi; incapacità di ottenere finanziamenti per lo sviluppo di nuovi prodotti ovvero per altri investimenti necessari [82]. Non sono da sottovalutare nemmeno dei sintomi di deficit, per così dire gestionale, quali la perdita di amministratori o dirigenti, di mercati fondamentali, di contratti di distribuzione e di concessione [83]. Pertanto, [continua ..]


1.4. I controlli delle società come strumenti di tempestiva rilevazione della crisi d’impresa.

L’organizzazione interna delle società si caratterizza per l’esi­stenza di una pluralità di organi sociali, ciascuno dei quali è investito di proprie funzioni e di proprie competenze: al vertice di tale organizzazione corporativa è posto l’organo amministrativo, cui è devoluta la gestione dell’impresa e che, nello svolgimento di siffatta prerogativa, si vede attribuiti dalla legge ampi poteri decisionali [93]. Sull’operato degli amministratori vigila l’organo di controllo, rappresentato dal collegio sindacale nel modello tradizionale, dal consiglio di sorveglianza in quello dualistico e dal comitato per il controllo della gestione in quello monistico: esso è chiamato a verificare l’osservanza, da parte dell’organo gestorio, della legge e dello statuto, nonché il rispetto dei principi di corretta amministrazione, al vertice dei quali la legge colloca la predisposizione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati all’oggetto ed alle dimensioni dell’impresa. In apertura si è detto che, con la riforma del diritto societario del 2003, si è assistito ad una «verticalizzazione» della direzione suprema dell’impresa: l’attribuzio­ne esclusiva del potere di gestione agli amministratori (art. 2380-bis), la qualificazione espressa delle deliberazioni assembleari in materia di gestione in termini di autorizzazioni (art. 2364, n. 5), e l’attribuzione (o l’attribuibilità) di competenze tradizionalmente assembleari al consiglio di amministrazione rappresenterebbero un chiaro segno in questa direzione [94]. Ma a tale verticalizzazione, peraltro in sintonia con una parte della dottrina [95], ritengo che sia seguito, in termini giuridici, anche un ampliamento dei doveri, di contenuto generico e specifico, gravanti sugli organi amministrativi e di controllo, e dei loro conseguenti ambiti operativi. Qualcuno [96], in materia di emersione della crisi, ritiene che, pur essendosi conclusa la stagione delle riforme in area giuscommerciale, persistano alcune aree che meriterebbero un intervento normativo nell’ottica della predisposizione di più efficienti strategie di prevenzione. Anche in materia fallimentare, l’ordinamento italiano ha seguito la strada di incentivare le soluzioni concordate della crisi, ma nell’er­rore di prospettiva, [continua ..]


2. La rinnovata disciplina in tema di gestione.

Come detto in apertura, la riforma societaria ha insistito sulla attribuzione della gestione sociale in via esclusiva in capo agli amministratori e, data l’imprescindibilità di tale organo anche nelle s.r.l., le considerazioni che saranno di seguito svolte valgono anche per quest’ulti­mo [108]. Si è detto anche che, alla verticalizzazione del potere gestorio è seguita una maggiore ampiezza sia dei doveri degli amministratori che del loro ambito di operatività. In altri termini, sulla base della nuova disciplina degli obblighi degli amministratori e dei controllori, si tenterà di enucleare delle regole comportali virtuose ed obbligate in presenza di una situazione di destabilizzazione imprenditoriale che può compromettere la continuità aziendale, con effetti negativi per la società, soci, creditori, stakeholders e, in ultimo, per l’economia. Ciò spiega perché, a mio avviso, le norme in tema di gestione e controllo siano da collocare nell’alveo della normativa societaria tesa a tutelare degli interessi sia di matrice privatistica, sia di matrice pubblicistica.


2.1. Il principio di corretta amministrazione e l’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili.

La prima disposizione rilevante è contenuta nell’art. 2381 c.c., la quale, peraltro, contiene la quasi totalità delle norme che in questa sede rilevano in tema di gestione: ribadendo il principio della possibilità di delega, ad un amministratore delegato o ad un comitato esecutivo, di attribuzioni proprie del consiglio di amministrazione, al 5° comma è scritto che gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società sia adeguato alla natura e alle dimensione dell’impresa, e riferiscono all’organo delegante ed al collegio sindacale, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni e caratteristiche, effettuate dalla società [109]. Con la locuzione “adeguatezza dell’assetto organizzativo, contabile ed amministrativo della società” il legislatore pare si sia voluto riferire alla complessiva struttura interna dell’impresa, considerata non solo sotto l’aspetto prettamente organizzativo, ma anche sotto il profilo contabile ed amministrativo al fine di assicurare la permanente idoneità della struttura al servizio dell’operatività e dell’efficienza amministrativa e contabile [110]. La disposizione, che riecheggia quella contemplata nell’art. 149, 1° comma, lett. c), t.u.f., con riferimento ai sindaci di società quotate, va letta in relazione all’art. 2403 c.c., là dove è sancito l’obbligo di vigilare su tale adeguatezza, ed in relazione al 3° comma dell’art. 2381 c.c., che onera il consiglio di amministrazione di valutarla. Si può affermare, dunque, che il controllo sull’adeguatezza della struttura organizzativa, amministrativa e contabile sia oggi compito espressamente assegnato sia al consiglio di amministrazione come plenum, sia all’organo di controllo, anche se con tipologie diverse, di valutazione, il primo, di vigilanza, il secondo [111]. La ratio della disposizione in esame, secondo alcuni [112], andrebbe compresa alla luce anche dell’abrogazione del disposto del previgente art. 2392, 2° comma, c.c. che contemplava la responsabilità per omessa vigilanza sul generale andamento della gestione anche in capo agli amministratori non esecutivi: ora, al contrario, alla [continua ..]


2.2. Flussi informativi.

Nello stesso senso sembrerebbe andare pure l’obbligo della predisposizione di un sistema di flussi informativi endo-societari adeguati alle dimensioni ed alla natura dell’impresa: il più rilevante si sostanzia, senza dubbio, nel dovere di agire informati previsto nell’art. 2381, ultimo comma, c.c., secondo il quale ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società [129]. Nessun dubbio si manifesta sul ruolo centrale che la riforma ha inteso assegnare alla informazione e alla trasparenza, “sia come canone del buon amministratore, sia come strumento di tracciabilità dei comportamenti, anche al fine della ricostruzione dei profili dei responsabilità” [130]. Senza scendere nel merito dei problemi esegetici che la norma può porre [131], il primo dato che emerge dalla lettura della disposizione si colloca nella circostanza secondo la quale, nell’ambito della governance societaria, si deve dare attuazione ad un sistema di informazioni che deve intercorrere dagli organi delegati al consiglio di amministrazione [132]. La dottrina ritiene che si sia in presenza di un diritto individuale ad esercizio collettivo, diretto a consentire a ciascun consigliere di poter svolgere le proprie fun­zioni in modo consapevole, al quale è correlato il dovere degli organi delegati di rendere, in sede consiliare, le informazioni supplementari richieste [133]. Questa scelta trae linfa da una tendenza già emersa nella giurisprudenza anteriore alla riforma la quale aveva ribadito più volte il principio secondo cui, ferma l’insindacabilità delle scelte gestionali [134], erano soggetti a responsabilità gli amministratori che, per aver omesso le necessarie attività preliminari di verifica e di acquisizione delle informazioni necessarie o utili per il tipo di decisione da assumere, avevano dimostrato una condotta negligente nelle modalità con cui la decisione stessa era stata presa [135]. Dall’ampia formulazione usata dal legislatore, si è formato il convincimento secondo il quale l’agire in modo informato costituisca una clausola generale il cui contenuto precettivo si estende ad ogni aspetto dell’attività degli amministratori, a partire dalla formazione della volontà collegiale: i [continua ..]


3. La disciplina dell’organo di controllo.

Con la riforma del 2003, si sa, il legislatore ha voluto separare il controllo sulla gestione da quello contabile, mostrando la volontà di rendere più penetrante l’attività di vigilanza sulle società di capitali, per sua natura assai complessa [153], ed ha introdotto un’articolazione dualistica dei controlli simile a quella disciplinata dal t.u.f. per le società quotate [154]. Il collegio sindacale è, in sintesi, passato da organo di controllo eminentemente contabile a organo di verifica dell’efficacia e dell’efficienza, sia pure sotto un profilo di adeguatezza e non di successo economico, della struttura organizzativa della società e dell’impresa [155]. D’altronde, non può essere sottaciuto che il rapporto tra controllati e controllori, sulla base delle spinte dei dibattiti dottrinali e giurisprudenziali [156], sia stato oggetto di profondi ripensamenti, soprattutto in ordine alla natura del controllo del collegio sindacale, il quale oscillava tra la mera legalità ed il merito. Sebbene una sintesi fosse stata raggiunta nei termini di controllo di legittimità sostanziale [157], nel nuovo contesto normativo la disputa, secondo alcuni [158], appare di scarso significato, dato che il nuovo art. 2403 c.c. e l’art. 149 t.u.f. impongono esplicitamente al collegio il compito di vigilare sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, vale a dire di verificare che l’attività sociale sia svolta secondo le regole elaborate dalla scienza aziendalistica ed i principi elaborati dalla prassi [159]. Siffatte considerazioni, calate nella realtà imprenditoriale in crisi, continuano a scontare, a mio giudizio, le teorie ed i limiti concretizzati nella c.d. business judgment rule, tant’è che è proprio la fase di pre-crisi (o di crisi) a risultare il banco di prova più adatto a verificare quanto, ed in che limiti, l’organo di controllo possa scendere au fond delle scelte gestorie, fino al punto di sollecitare l’organo amministrativo a porre in essere condotte dirette a scongiurare il tracollo societario. Dal punto di vista del giudizio di responsabilità, l’analisi può essere utile al fine di verificare, in capo all’organo di controllo, la sussistenza di un obbligo di attivazione nel senso sopra detto e le conseguenze della sua [continua ..]


3.1. La vigilanza propriamente detta.

Dal punto di vista oggettivo, la norma cardine dell’agire del collegio sindacale nelle s.p.a. è rappresentata dall’art. 2403 c.c., secondo il quale il controllore vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, sull’adegua­tezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento. Trattasi di una norma che riprende il dettato del­l’art. 149 t.u.f. sui doveri del collegio sindacale delle società quotate [161], e che viene riproposta anche nel documento relativo alle Norme di Comportamento del collegio sindacale predisposto dal Consiglio Nazionale dei Commercialisti e degli Esperti Contabili (di seguito, per brevità, CNDCEC) [162] . Il carattere generale del controllo –non quale mera verifica ex post ma quale opportunità di efficienza [163]– si evince dal lascito della disciplina previgente in tema di scrutinio dell’osservanza della legge e dello statuto, sotto il quale, peraltro, è destinato a ricadere qualsiasi aspetto della vita sociale, seppure in un’ottica strumentale rispetto al dovere di vigilanza sull’attività gestoria [164]. La disciplina, inoltre, trova la sua specificazione in una serie di disposizioni che configurano altrettante prerogative dei soci e delle quali infra si dirà [165]. La legge afferma, inoltre, il ruolo del collegio sindacale quale organo di controllo sull’amministrazione attraverso il richiamo ai principi di corretta amministrazione [166]. La locuzione, che ha offerto linfa al dibattito, mai sopito, circa la natura del controllo sull’amministrazione, viene in soccorso nella tematica in oggetto perché sembra confermare quella visione secondo la quale la vigilanza andrebbe ben oltre un dovere di controllo di legalità formale, restando al di qua di un controllo sulla convenienza, opportunità e rischiosità delle decisioni [167]. Posto che, a mio avviso, la rischiosità delle decisioni dovrebbe essere oggetto di scrutinio da parte dei sindaci, in considerazione degli effetti negativi prodotti sul mercato in generale da una scelta non oculata e completamente irrazionale degli amministratori [168], tra i principi di corretta amministrazione, il cui rispetto è oggetto di riscontro, [continua ..]


3.2. Segue. Poteri e doveri.

L’attività di vigilanza del collegio sindacale si articola in una serie di compiti che costituiscono al tempo stesso poteri e doveri per gli stessi [197]. Il primo, come detto, si sostanzia nel monitoraggio dell’attività sociale: a norma dell’art. 2405 c.c. i sindaci, difatti, possono (e devono) partecipare alle riunioni degli organi sociali allo scopo di acquisire conoscenze in merito ai fatti gestori oggetto del controllo [198]. La scelta di rendere obbligatoria la presenza del collegio, da una parte, discende dal dato di comune esperienza che fa del comitato esecutivo il vero organo propulsore della gestione, all’interno del quale agiscono gli amministratori operativi e maturano le decisioni di maggior rilievo [199]; dall’altra, si segnala anche sul piano di una maggior efficacia del controllo sotto il profilo, per una parte della letteratura non secondario [200], di una sua maggiore tempestività, essendo notorio che, in molti casi, i consigli d’amministrazione vengono informati a posteriori di decisioni assunte, e più o meno compiutamente eseguite, dai delegati: la presenza dei sindaci consentirebbe al collegio di formulare un giudizio postumo sulla correttezza delle scelte amministrative, ma tale conclusione – ed è circostanza che non nutre eccezioni – presenta il rischio di porre i controllori di fronte al fatto compiuto, impedendo ogni azione tesa a prevenire o a limitare possibili conseguenze. Si vede bene come, nella materia di cui ci si occupa, il controllo in questo senso dovrebbe mutare da successivo a preventivo: in luogo di una presenza meramente passiva [201], è stato riconosciuto in campo ai sindaci il potere di interloquire esercitando in senso preventivo il loro dovere di vigilanza, anche mediante l’espressione di dissenso sulla correttezza e sulla legalità delle decisioni che l’organo amministrativo o assembleare dovesse assumere [202]. Altresì, la partecipazione alle riunioni si pone come strumentale all’esercizio dei poteri di reazione che la legge attribuisce all’organo di controllo: si ritiene che la vigilanza dei sindaci sui principi di corretta amministrazione trovi il giusto campo di azione nelle riunioni degli organi sociali, nell’ambito delle quali i controllori assumono informazioni [203]. L’importanza del compito nel contesto delle riunioni [continua ..]


3.3. Chiose sul potere di convocazione dell’assemblea.

Nel manuale d’istru­zioni dell’agire del collegio sindacale è stato inserito anche l’art. 2406 c.c., il cui 1° comma sancisce che, in caso di omissione od ingiustificato ritardo da parte degli amministratori, i sindaci hanno l’obbligo di convocare l’assemblea. Talvolta qualificato come potere di amministrazione attiva, talaltra come controllo sostitutivo di attività [217], il dovere di convocare l’assemblea sorge solo nei casi in cui esista un obbligo in tal senso a carico degli amministratori, ed essi non si attivino tempestivamente, non quando la necessità derivi da un giudizio di mera opportunità, demandato istituzionalmente all’organo amministrativo [218]. Si tratterebbe, secondo una parte della dottrina [219], di un momento reattivo del­l’attività di controllo, posto che, di fronte alla constatata violazione di un obbligo gravante sugli amministratori, la legge trasferisce all’organo di vigilanza il compito di ovviare direttamente all’omissione dei principali obbligati [220]; inoltre, viene letto come sbocco degli accertamenti sindacali conseguenti a denunce di irregolarità provenienti anche da un solo socio o dal collegio direttamente rilevate [221]. Sebbene la norma non rilevi automaticamente, secondo alcuni [222], sul piano civilistico, ed in particolare, in relazione alla responsabilità, la stessa, tuttavia, fornisce una indicazione significativa nella direzione che si è intrapresa nel presente lavoro: se ci fosse la necessità di rendere edotta la volontà assembleare di una situazione che sia tale da compromettere la continuità aziendale, ma non sussistessero i requisiti di una convocazione obbligatoria in capo agli amministratori, risulterebbe possibile bypassare l’inerzia dell’organo di gestione? A mio sommesso avviso, al quesito viene in soccorso il 2° comma dell’art. 2406 c.c., secondo il quale il collegio sindacale, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, può convocare l’assemblea qualora, nell’espleta­men­to del suo incarico, ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgente necessità di provvedere [223]. Al contrario di quanto previsto dal 1° comma, dunque, il potere dei sindaci in questo caso è diretto, e non sostitutivo: il legislatore, [continua ..]


3.4. I controlli nelle s.r.l.

In sintesi, può dirsi che il sistema dei controlli nelle s.r.l. si ricava dalla lettura combinata delle norme di cui all’art. 2476, 2° comma, c.c. e all’art. 2477 c.c.: il primo disciplina i diritti all’informazione ed alla consultazione; il secondo, rubricato “sindaco e revisore legale dei conti”, è idoneo a ricomprendere anche la vigilanza sull’amministrazione [240]. In buona sostanza, la nomina dell’organo di controllo o del revisore è obbligatoria se la società sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato; o controlli una società obbligata alla revisione legale dei conti; o per due esercizi consecutivi abbia superato due dei limiti indicati dal 1° comma dell’art. 2435-bis. In caso contrario, la costituzione dell’organo sindacale, anche a struttura monocratica, o di un revisore contabile, sono facoltative. Ciò nonostante, mi permetterei di segnalare che la possibilità, nel modello legale di s.r.l., di definire il proprio assetto dei controlli [241] al fine di consentire un risparmio per le imprese, sembra viepiù il risultato di pressioni di natura lobbista, non già un’opera di semplificazione e razionalizzazione dei sistemi di controllo, tant’è che, com’è stato correttamente osservato [242], la previsione dei controlli legali non può dipendere dalla natura della società, bensì, piuttosto, dalla dimensione e dalla rilevanza degli interessi meritevoli di tutela. Inoltre, sempre secondo la medesima lettura a cui aderisco nella sua totalità, al soggetto controllato non può essere attribuita la facoltà di scegliere il tipo di controllo a cui essere sottoposto, quando è evidente che i controlli legali siano stati introdotti dal legislatore per tutelare la società ed i numerosi stakeholders aziendali [243]. Siffatta affermazione trova terreno fertile proprio nel campo di indagine che qui interessa: nei periodi di crisi, in considerazione del maggior rischio di comportamenti non corretti, tra i costi dei controlli e le esigenze dei soggetti investiti dal dissesto, l’ago della bilancia dovrebbe pendere viepiù verso l’efficacia dei controlli, e non il contrario, come peraltro è avvenuto. Ciò, e sembra un paradosso, si verifica proprio in un momento storico in cui la crisi imperversa ed i [continua ..]


4. Le responsabilità degli organi amministrativi e di controllo nella gestione della crisi d’impresa.

Sebbene sia ancora attuale il fatto che le procedure concorsuali rappresentino il territorio di elezione delle azioni di responsabilità [253], nell’ambito della letteratura generale è rinvenibile anche la voce di chi ritiene che le azioni risarcitorie oggi abbiano acquisito maggiore centralità rispetto al passato, soprattutto nella crisi dell’impresa societaria: sotto questo profilo, si giustificherebbe una riflessione sul progressivo ampliamento della cerchia dei soggetti responsabili, in quanto destinato ad influenzare indirettamente la gestione dell’impresa nella fase di crisi (o prodromica alla crisi), ed a costituire un potenziale correttivo agli interventi restrittivi operati dal legislatore e dalla giurisprudenza in ordine, rispettivamente, ai presupposti delle azioni revocatorie ed alla legittimazione all’esercizio dell’azione per concessione abusiva del credito [254]. La opportunità di una risposta sanzionatoria al fenomeno descritto, poi, si evince soprattutto da una analisi delle varie tecniche di tutela predisposte dagli ordinamenti stranieri. In primo luogo, i paesi di common law, pur non riconoscendosi un vero e proprio obbligo degli amministratori di prevenire o evirare il concretizzarsi dello stato di insolvenza, dimostrano una spiccata sensibilità verso il dovere di agire nell’in­teresse dei creditori in determinate circostanze. In particolare, negli States alcuni precedenti hanno ritenuto che il principio dello shareholder value maximization [255] operi solo nelle ipotesi di società in bonis, dovendo in caso contrario, in vicinity of insolvency, ritenersi sussistente un obbligo degli amministratori di mutazione della direzione dei doveri fiduciari in favore dei creditori [256]: in base a queste premesse è stata invocata negli Stati Uniti la figura della deeping insolvency, fondata sull’in­de­bito prolungamento della vita di una società insolvente, pure a fronte di un incremento dell’esposizione debitoria. In Europa, la Gran Bretagna concede tutela ai creditori nella forma della responsabilità per wrongful trading, di cui sono destinatari gli organi gestori della società là dove, durante l’eventuale insolvent liquidation, risulti che questi fossero consapevoli della insussistenza di alcuna ragionevole prospettiva per la società di evitare una procedura concorsuale, e [continua ..]


4.1. La responsabilità dell’organo gestorio.

Il diverso criterio di valutazione dell’agire dell’organo gestorio, previsto nell’art. 2392 c.c. impatta con decisione nel rinnovato paradigma della responsabilità degli amministratori, i quali, oggi, devono adempiere i doveri loro imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Il riferimento alla natura dell’incarico conduce alle medesime conclusioni affermate nel passato con riguardo alla valutazione dell’obbligo di diligenza: il rinvio alla natura del­l’in­carico implica, infatti, il richiamo all’art. 1176, 2° comma, c.c. [267]. La scelta del legislatore comporta che, nella valutazione della esattezza del­l’adem­pimento, si dovrà tenere conto di diversi caratteri individualizzanti la prestazione, quali la natura e la complessità dell’incarico conferito, le specifiche conoscenze richieste per l’espletamento dell’ufficio in relazione alla tipologia dell’im­presa e i mezzi messi a disposizione dell’amministratore per la sua attività [268]. Maggiori perplessità sono state manifestate in relazione al significato della locuzione “specifiche competenze”: da un lato, è una espressione che parrebbe fare riferimento al settore, più o meno ampio, di competenza demandato al singolo amministratore [269]; secondo altra analisi, l’espressione consentirebbe di riferire la responsabilità anche al grado di competenza quale indice (i.e. perizia) del singolo am­ministratore. Sulla base di questa teorica dicotomia, sarei teso ad aderire a quella che riconosce l’imprescindibilità del parametro della perizia, quanto meno con riferimento agli specifici compiti delegati ai gestori [270]. Va detto che, preliminarmente, a differenza di altri ordinamenti, la normativa italiana non richiede espressamente che l’amministratore sia in possesso del requisito della perizia, e ciò ha reciso la dottrina: alcuni ritengono che la stessa, quale possesso di “adeguata cultura d’impresa” costituisca una componente essenziale della diligenza [271]; altri, al contrario, ritengono che non sussista, per gli amministratori, alcun obbligo in tal senso [272]. La relazione illustrativa, laddove esclude che gli amministratori debbano necessariamente essere periti in [continua ..]


4.2. La responsabilità degli organi di controllo.

L’art. 2407 c.c. definisce i principi e le procedure che regolano la responsabilità dei sindaci di s.p.a. nei confronti della società, dei creditori e dei terzi [315]. Il 1° comma riprende il testo previgente salvo che per la sostituzione, quale parametro di riferimento, della professionalità e della diligenza richieste dalla natura dell’incarico in luogo della diligenza del mandatario. La modifica starebbe a significare che ai sindaci, per adempiere all’obbliga­zio­ne di controllare, quando manchino norme che impongono specifici comportamenti in date situazioni, sia richiesto di assumere quelle iniziative e attuare quelle procedure o prassi professionali, alle quali farebbe ricorso l’avveduto controllore [316]. Secondo alcuni [317], la professionalità e la diligenza richieste dalla natura del­l’in­carico costituiscono un parametro unitario, anche se il testo della norma contrappone le due espressioni: occorrerebbe, quindi, che nell’adempimento concreto ogni sindaco mostri di avere impiegato le nozioni e le applicazioni necessarie al buon esercizio dell’incarico [318]. Secondo altri, invece, per parametrare la diligenza effettivamente dovuta dai sindaci, sarà necessario tenere conto anche della natura del­l’incarico e, dunque, delle dimensioni e delle caratteristiche dell’impresa sociale, della sua articolazione organizzativa e così via [319]. In questa sede, si concorda con quella parte della letteratura che ritiene che l’operato dei sindaci vada parametrato al grado della diligenza imposta dalla natura della prestazione resa che, essendo tecnica e specialistica, dovrà soddisfare ben precisi targets di professionalità [320]. Il ragionamento, difatti, conduce ad una individualizzazione delle fattispecie di responsabilità: la valutazione della condotta inadempiente per omesso controllo e vigilanza deve avvenire caso per caso, in funzione della specifica attività richiesta al sindaco, onde evitare le possibili conseguenze dannose connesse alla mala gestio degli amministratori, non esistendo un comportamento corretto in generale [321]. I profili applicativi della norma continuano a richiamare la classica distinzione tra responsabilità c.d. “esclusiva” e responsabilità “concorrente”, stando a significare, con la prima locuzione, la [continua ..]


5. Le funzioni degli organi societari nelle crisi di impresa: una proposta.

L’indagine sino ad ora condotta ha evidenziato, sebbene compendiato, il riparto di competenze tra i vari organi societari, i poteri, i doveri, i principi che li governano e le relative responsabilità; la stessa è parsa necessaria al fine di verificare se, nel contesto di una crisi, gli stessi vadano declinati in forme nuove e diverse, oppure, al contrario, rimangano ancorati a quelli che connotano una ortodossa attività imprenditoriale. Io sarei più orientato ad aderire alla prima delle due assunzioni, non fosse altro perché è proprio quello della crisi di impresa ad essere il campo elettivo di un agire improntato alla prudenza, tempestività, cautela, equilibrio e ragionevolezza [339]. Nella disciplina relativa alla materia che qui ci occupa, tuttavia, si ode un silenzio assordante, eco dell’agnosticismo del legislatore oltremodo incomprensibile [340]: la legge fallimentare, difatti, si limita ad offrire degli strumenti per affrontare la crisi, ma non aggiunge alcunché alla rappresentazione delle opportunità che il sistema di controlli delineato dalla legge civile predispone affinché la crisi sia affrontata con tempestività [341]. Ciò conferma l’impressione di quanti ritengono difficile l’ostensione anticipata della situazione di crisi al di fuori di un comportamento vincolato [342]. A siffatta lacuna suppliscono, insieme ai contributi della letteratura sul tema, sul piano deontologico, i già citati interventi del Consiglio nazionale dei Commercialisti e degli Esperti Contabili, riguardanti principalmente, le norme di comportamento del Collegio sindacale [343]. L’impresa sintetizza una molteplicità di interessi, i quali assumono valenze diverse in relazione alla prospettiva da cui gli stessi vengono analizzati, e che entrano in conflitto quando sopravviene una situazione di crisi: se l’impresa, pur in crisi, produce ricchezza, una contrapposizione di tali interessi è soltanto potenziale [344], perché gli stessi trovano il loro punto di fuga nella continuazione dell’attività di impresa. Il contrario si verifica quando l’impresa in crisi è priva di going concern positivo, e non è più idonea a produrre ricchezza: in questa ipotesi è necessario operare la scelta (a mio avviso obbligata) della contrattazione della [continua ..]


NOTE