<p>Il giudizio civile di Cassazione di Ricci Albergotti Gian Franco</p>
Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Società in house e caporalato di Stato (di Dario Capotorto)


Il saggio affronta il tema dell’interposizione illecita di manodopera nel vasto ambito dei rapporti con la pubblica amministrazione, soffermandosi in particolare sull’impiego delle società in house per l’erogazione di servizi labour intensive. L’analisi evidenzia come i presupposti legittimanti il ricorso agli affidamenti diretti (controllo analogo e predominanza delle attività rese per conto del socio pubblico), unite all’assenza di apprezzabili rischi di impresa, si sovrappongano fino a coincidere completamente con gli indici sintomatici del fenomeno interpositorio. Nel lavoro si evidenziano le aporie dei principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa e le carenze dell’apparato sanzionatorio previsto dalla normativa. Ne emerge peraltro un quadro d’insieme disarmonico con il principio di uguaglianza e con una visione moderna dei rapporti tra Stato e cittadini. 

The illegal State hiring in the societies in house

The essay analyses the issue of illicit labour brokering in the vast field of relations with the public administration, focusing in particular on the use of societies in house for the provision of labour-intensive services. The analysis shows how the conditions justifying the use of direct procurement (analogous control and predominance of the activities carried out on behalf of the public partner), combined with the absence of appreciable business risks, overlap to the point of completely coinciding with the indices of the interpositive phenomenon. The work highlights the aporias of the principles elaborated by the administrative jurisprudence and the shortcomings of the sanctions provided for by legislation. The overall picture that emerges is radically disharmonious with the principle of equality and with a modern vision of the relationship between the State and citizens.

Keywords: societies in house labour intensive public procurements – labour brokering business risk illegal hiring.

SOMMARIO:

1. Premessa: la fenomenologia dell’interposizione illecita di manodopera nella pubblica amministrazione - 2. Gli appalti di servizi non genuini - 3. Gli affidamenti in house e l’interposizione di manodopera istituzionalizzata - 3.1. Il rischio economico nelle società in house - 3.2. Il silenzio dell’ANAC e le aporie della giurisprudenza - 4. La tutela dimezzata per il lavoratore e i privilegi per la P.A. - 5. Conclusioni: la concezione dispotica del potere pubblico al cospetto dei precari al servizio della pubblica amministrazione - NOTE


1. Premessa: la fenomenologia dell’interposizione illecita di manodopera nella pubblica amministrazione

L’abuso della capacità di diritto privato e l’impiego di schermi societari per il reclutamento e la gestione di personale da destinare all’espletamento di servizi ancillari alla macchina amministrativa non sono certamente fenomeni nuovi [[1]]. Sono inedite le proporzioni del problema e la raffinatezza degli strumenti elusivi. Sommando il personale delle società pubbliche (stimato tra le trecentomila e le cinquecentomila unità) a quello delle società appaltatrici che erogano servizi labour intensive di dubbia genuinità, si superano gli ottocentomila addetti secondo le stime disponibili [[2]]. Un esercito di lavoratori che, a parità di mansioni, soggiace a un regime economico e contrattuale deteriore rispetto agli omologhi inseriti nei ranghi della pubblica amministrazione. La dottrina ha approfondito il tema dell’interposizione illecita di manodopera concentrando l’analisi sulle ipotesi classiche in cui l’utilizzatore/committente e l’interposto siano, entrambi, formalmente e sostanzialmente privati [[3]]. La riflessione scientifica del tema nella prospettiva pubblicistica sembra ancora acerba con riferimento alle ipotesi in cui si inseriscano enti o società pubbliche nel rapporto trilatero tra lavoratore, soggetto interposto e utilizzatore. La dottrina ha colto ben presto le finalità sottese all’abuso della personalità giudica da parte delle pubbliche amministrazioni [[4]]. Si tratta di obiettivi per molti versi sovrapponibili a quelli che sottintendono il fenomeno interpositorio e che possono raggrupparsi attorno a tre direttrici: – l’aggiramento degli obblighi concorsuali (per consentire scelte ad personam e accelerare le procedure di reclutamento); – l’elusione del blocco delle assunzioni e dei vincoli alla spesa pubblica [[5]] per il personale; – la riduzione dei costi del personale legati al differenziale di costi retributivi e contributivi tra i CCNL del comparto pubblico e i CCNL dei comparti privati, a parità di mansioni e qualifiche. Queste esigenze, certamente immeritevoli di tutela, vengono coltivate con l’im­piego di due strumenti giuridici: l’appalto di servizi (non genuino) e l’affidamento di servizi (senza gara) a società in house. I due strumenti richiedono un’analisi separata. Si partirà dalla casistica [continua ..]


2. Gli appalti di servizi non genuini

Il 1° comma dell’art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, c.d. Legge Biagi) [[7]] individua due presupposti essenziali che devono ricorrere nell’appalto per differenziarlo dalla mera intermediazione di manodopera: a) l’organizzazione di mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto; b) l’assunzione del rischio di impresa da parte dell’appaltatore. Qualora difetti uno dei due presupposti, l’appalto non può dirsi genuino e si configura una forma di intermediazione di manodopera, ammessa solo nei casi di somministrazione di personale mediante ricorso alle agenzie del lavoro all’uopo autorizzate [[8]] ed in ragione di circostanze contingenti e imprevedibili e comunque transitorie, in difetto delle quali l’impiego della somministrazione deve considerarsi illegittimo e censurabile anche dinnanzi al giudice amministrativo [[9]]. L’accertamento della genuinità di un appalto pubblico di servizi può assumere rilievo sia nel rapporto tra committente e appaltatore, sia nell’ambito dei rapporti con i lavoratori. I due profili, pur se intimamente connessi, ricadono in plessi giurisdizionali distinti. Mentre i profili giuslavoristici rientrano nella cognizione del giudice ordinario, gli aspetti afferenti alla corretta qualificazione del rapporto tra committente pubblico e appaltatore vengono perlopiù attratti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, chiamato a conoscere delle controversie relative all’espletamento delle procedure di evidenza pubblica. Sono invece omogenei i presupposti sostanziali su cui i giudici amministrativi, civili e, talvolta, penali [[10]] devono condurre l’indagine in merito alla sussistenza di una forma di interposizione illecita. La casistica giurisprudenziale in cui si accerta la responsabilità del committente pubblico nella strutturazione del meccanismo interpositorio non è particolarmente ricca, sebbene il settore degli appalti pubblici costituisca “teatro di frequenti abusi in tema di reclutamento della [continua ..]


3. Gli affidamenti in house e l’interposizione di manodopera istituzionalizzata

L’illecito interpositorio si caratterizza da sempre per un accentuato polimorfismo. Nei rapporti con le pubbliche amministrazioni l’illecito può realizzarsi sia ricorrendo all’esternalizzazione, con lo schema committente pubblico (utilizzatore) – appaltatore – maestranze, sia con l’autoproduzione secondo lo schema amministrazione controllante (utilizzatrice) – società in house [[17]] – maestranze. Il primo schema l’abbiamo esaminato nel paragrafo precedente, il secondo merita di essere indagato attentamente in ragione della maggiore raffinatezza dello strumento elusivo e per le diverse aporie che emergono nell’analisi dell’apparato repressivo e sanzionatorio. Analogamente a quanto accade negli appalti pubblici “non genuini” anche il ricorso all’in house providing si presta a essere impiegato come schermo in grado di assicurare ingenti risparmi di spesa all’amministrazione controllante (oltre a garantire una sensibile semplificazione delle procedure di reclutamento). La riduzione dei costi per il personale è legata al differenziale tra i costi aziendali cui va incontro la società in house (con retribuzioni e contribuzioni inferiori e minori tutele) e i costi che l’amministrazione avrebbe dovuto sostenere se avesse assunto le maestranze direttamente alle proprie dipendenze [[18]]. Come pure evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità [[19]], le società in house costituiscono articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici realmente esterni e autonomi. Tale connotazione fa sì che gli organi di tali società, proprio in ragione degli intensi vincoli gerarchici con la p.a. controllante, possano considerarsi avvinti da un rapporto di servizio con la p.a. [[20]] anche ai fini della responsabilità erariale, così come accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico [[21]]. Del resto, qualora si riconoscessero in capo alla società in house autonomi poteri decisionali e/od organizzativi (tipici dell’imprenditore), svincolati dall’etero­direzione e dall’influenza dominante da parte dell’amministrazione, rischierebbero di venir meno gli inderogabili presupposti che devono sussistere per garantire il c.d. “controllo analogo” [[22]]. In altri [continua ..]


3.1. Il rischio economico nelle società in house

Si è visto come gli affidamenti in house creino tensioni con entrambi i requisiti richiesti dall’art. 29, 1° comma, del d.lgs. n. 276/2003. La necessaria sussistenza di un concreto rischio di impresa in capo alla società datrice di lavoro merita ancora ulteriori approfondimenti. Per valutare la sussistenza di un autentico rischio di impresa in tema di appalto genuino, la giurisprudenza ha proposto un’interpretazione che valorizza il c.d. rischio economico, funzionalmente collegato alla gestione dell’attività appaltata. Si tratta, in particolare, del rischio di non coprire i costi di lavoro (salari) e di capitale (denaro investito, macchinari ed attrezzature, interessi sui finanziamenti, canoni di locazione di macchine e attrezzature) con il ricavato dell’appalto [[27]]. Ebbene, già la struttura societaria delle società in house mette in crisi questo paradigma. Se l’ente controllante è azionista unico della società in house risponde in modo illimitato delle posizioni debitorie assunte dalla società in house, sicché eventuali perdite finiscono per dover necessariamente ripianate dall’azionista unico [[28]], che dispone, per definizione, solo e soltanto di risorse pubbliche. Nelle società in house sottoposte al controllo congiunto di più enti pubblici le eventuali perdite saranno distribuite pro quota (se pur in assenza di un obbligo solidale verso i terzi), ma sempre con risorse erariali; il che induce a dubitare della sussistenza di un rischio di impresa assimilabile a quello di cui si devono far carico gli imprenditori formalmente e sostanzialmente privati. Se a ciò si aggiunge che le società in house, così come si è evidenziato nel paragrafo precedente, beneficiano di una “domanda pubblica garantita”, senza essere esposte al rischio di perdere la propria clientela (e/o perdere le proprie commesse in ragione della pressione competitiva di altre aziende) se ne ricava una fortissima marginalizzazione dei rischi e uno scarso incentivo all’innovazione e alla competitività (con effetti negativi sull’efficienza ed economicità dei servizi resi nel medio e lungo periodo). L’indagine sulla componente aleatoria del rapporto può condursi anche analizzando l’equilibrio economico del singolo affidamento. In questa diversa prospettiva occorre accertare [continua ..]


3.2. Il silenzio dell’ANAC e le aporie della giurisprudenza

Le autorità di regolazione e la giurisprudenza non sembrano aver ancora maturato posizioni coerenti in grado di contrastare efficacemente il proliferare di fenomeni interpositori per il tramite di società in house. Nonostante le specifiche sollecitazioni provenienti da gli stakeholder [[39]], l’A­NAC ha radicalmente trascurato i fenomeni interpositori nell’ultimo intervento di regolazione in tema di società in house [[40]]. Solo la Corte dei Conti sembra aver colto alcuni profili di problematicità nell’ambito delle proprie attività di controllo [[41]]. La giurisprudenza delle Corti superiori ha invece assunto posizioni radicalmente antitetiche. Nella scarna casistica giurisprudenziale in tema di società in house con finalità interpositorie merita una specifica segnalazione l’approccio recentemente seguito dalla Suprema Corte di Cassazione, che partendo dal presupposto secondo cui le società pubbliche non mutano la loro natura di soggetti privati solo perché un organismo di diritto pubblico ne possegga in tutto o in parte le azioni, ha evidenziato come il rapporto tra società e soggetto diritto pubblico resti di assoluta autonomia. Ciò in quanto l’ente pubblico controllante non potrebbe incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società di capitale mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società. Sulla base di questi presupposti si è “escluso che la sussistenza di un appalto in house possa di per sé comportare la unicità di titolarità dell’organizzazione produttiva comune alle due entità” e si è fornita una regola di riparto dell’onere della prova che grava i lavoratori di fornire dimostrazione dell’ingerenza del committente nella organizzazione dell’appalto e della gestione effettiva del rapporto di lavoro in capo alla controllante (oltre alla prova dell’assenza di rischio di impresa in capo alla società in house) [[42]]. Il Consiglio di Stato, invece, in un caso recentissimo ha seguito un ragionamento diametralmente opposto. Ci si riferisce alla pronuncia chiamata a vagliare la [continua ..]


4. La tutela dimezzata per il lavoratore e i privilegi per la P.A.

I privilegi riconosciuti alla p.a. che organizzi forme di intermediazione illecita, con esternalizzazioni non genuine o affidamenti in house a società che non soddisfino i requisiti dell’autonomia gestionale nell’organizzazione del personale e dell’assunzione di un autentico rischio di impresa, emergono anche sul versante delle forme di protezione esperibili per i lavoratori. La c.d. legge Biagi [[45]] prevede che il lavoratore possa agire in giudizio per richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato direttamente con l’utilizzatore, ma questa facoltà è preclusa allorquando quest’ultimo sia una pubblica amministrazione [[46]]. Ciò in ragione dell’espressa esenzione prevista dall’art. 1, 2° comma, del d.lgs. n. 276/2003 ove si prevede che le norme contenute nel predetto decreto non si applichino alle pubbliche amministrazioni e al loro personale e dei noti limiti costituzionali in tema di reclutamento del personale della pubblica amministrazione (art. 97, 4° comma, Cost.). L’obbligo di espletamento di procedure concorsuali per il reclutamento del personale non patisce eccezioni neppure quando la violazione di norme imperative sia ascrivibile alla pubblica amministrazione [[47]]: il lavoratore indebitamente sfruttato dalla pubblica amministrazione per il tramite della società in house o di un appaltato fittizio potrà solo chiedere il risarcimento dei danni per equivalente monetario [[48]] ed esperire la tutela prevista dall’art. 2126 c.c. [[49]], per ottenere il pagamento delle differenze retributive e la ricostruzione della posizione contributiva previdenziale [[50]], ma non potrà mai ottenere la costituzione del rapporto di lavoro alle dirette dipendenze dall’amministrazione utilizzatrice. Ulteriori asimmetrie emergono rispetto al regime propriamente sanzionatorio. Per contrastare il fenomeno dell’intermediazione illecita di manodopera, l’ordi­namento contempla un apparato sanzionatorio che si muove su due direttrici: da un lato è prevista l’irrogazione di sanzioni (amministrative e penali) a carico dei responsabili dell’illecito [[51]]; dall’altro si prevede il rimedio riparatorio a tutela del lavoratore con la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utiliz­zatore con effetto retroattivo dall’inizio [continua ..]


5. Conclusioni: la concezione dispotica del potere pubblico al cospetto dei precari al servizio della pubblica amministrazione

Il caporalato di Stato è dunque un fenomeno esistente, ampio e per certi versi più odioso del caporalato tradizionale, sebbene non sia avvertito con lo stesso grado di allarme sociale e non confluisca in forme di sfruttamento paragonabili a quelle che tuttora si registrano in alcuni settori, come quello agricolo, dove l’influenza della criminalità organizzata produce la sostanziale riduzione in schiavitù delle vittime [[54]]. L’elemento di peculiarità di queste forme meno vistose di sfruttamento è dato dalla persistenza di sacche di impunità di cui beneficiano le amministrazioni. Il complesso quadro normativo fa sì che le amministrazioni non siano soggette all’applicazione di sanzioni amministrative e beneficino di un regime che impedisce ai lavoratori che ne sono vittime di attivare rimedi idonei a ottenere efficaci misure ripristinatorie dei diritti violati, se non in termini puramente indennitari. Il diritto a ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro diretto con l’am­ministrazione utilizzatrice viene sempre e comunque negato, costringendo il lavoratore a restare alle dipendenze dell’intermediario e ciò anche nelle ipotesi in cui l’operazione di intermediazione sia stata integralmente costruita e attuata dall’am­ministrazione utilizzatrice. L’inderogabilità del principio concorsuale finisce quindi per garantire il mantenimento di situazioni di illiceità conclamata, spesso prodotte da scelte attuate con l’abu­so delle capacità di diritto privato di cui dispongono le pubbliche amministrazioni. E in effetti lo schermo del concorso pubblico, inteso come baluardo inderogabile che osta alla conversione dei rapporti di lavoro creati illecitamente a beneficio di amministrazioni pubbliche, consente il mantenimento di molte situazioni di larvato sfruttamento che non lasciano indenne neppure i settori più sensibili dell’apparato amministrativo. Basti pensare al massiccio impiego dei magistrati onorari. La nomina a magistrato onorario, come noto, non dà luogo a un rapporto di servizio, ma solo al riconoscimento di indennità economiche (spesso non proporzionate all’im­pegno necessario per l’espletamento degli incarichi), senza il riconoscimento del trattamento pensionistico, delle indennità di malattia, degli assegni di maternità o di [continua ..]


NOTE