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1. La prospettiva del finanziamento delle società sportive tramite il mercato dei capitali - 2. La peculiarità dell'attività d'impresa delle società sportive e problematiche conseguenti - 3. Società sportive e regole dei mercati regolamentati - 4. La corporate governance nelle società sportive - 5. L'attuale stato del dibattito sulle società sportive e la loro quotazione sui mercati regolamentati - 6. Possibili alternative: il MAC - NOTE
Il ricorso al mercato dei capitali per il finanziamento delle società sportive è diventato possibile soltanto nel 1996. Infatti, sebbene già con la legge 23 marzo 1981, n. 81 – che ancora oggi disciplina le società de quibus – i sodalizi sportivi avessero assunto la forma della s.p.a. o della s.r.l., permaneva l’ostacolo del divieto del perseguimento della finalità di lucro; in altri termini, gli utili realizzati non potevano essere distribuiti ai soci, ma dovevano essere destinati alla società stessa per il perseguimento esclusivo dell’attività sportiva (art. 10, 2° comma). La vera riforma del settore, ai fini della quotazione, interviene con il decreto legge 20 settembre 1996, n. 485 [1], che abrogando il precedente divieto della distribuzione degli utili [2], ha consentito anche alle società sportive il perseguimento dello scopo di lucro ed ha ricondotto il loro regime giuridico all’interno della disciplina comune in materia di società [3], rimuovendo così ogni ostacolo per il loro accesso ai mercati regolamentati. Con lo stesso provvedimento normativo, l’oggetto sociale di queste società, pur essendo circoscritto alla sola attività sportiva, veniva esteso anche alle attività connesse o strumentali alla prima. L’obiettivo del legislatore era di consentire a tali società di operare anche in aree diverse ed ulteriori rispetto a quelle strettamente sportive ed agonistiche, così da estendere l’attività d’impresa verso segmenti contigui come quelli della sponsorizzazione degli spettacoli, della vendita dei diritti per le riprese televisive dei loro incontri sportivi e ancora della vendita di spazi pubblicitari e di prodotti e servizi legati al merchandising; in buona sostanza, anche al fine di favorire la raccolta del capitale di rischio tra il pubblico dei risparmiatori, veniva riconosciuta alle società sportive la possibilità di svolgere una serie di attività con una potenziale forte valenza economica capace, almeno in prospettiva, di determinare una diversificazione dei ricavi e dell’attività tradizionalmente limitata al solo business sportivo. Fu proprio la prospettiva di una diversificazione delle attività e dei ricavi a far ritenere che nonostante i molti fattori di criticità (v. infra, § 2) legati [continua ..]
Le società sportive presentano delle peculiarità, strettamente connesse al tipo di attività esercitata, che incidono, oltre che sul funzionamento e l’organizzazione societaria, anche sul particolare atteggiamento da parte degli investitori che si orientano verso queste società, atteggiamento difficilmente spiegabile se non alla luce proprio della specificità dell’attività medesima. È un dato di fatto oggettivo che coloro che investono in queste società sono spesso tifosi interessati più alle sorti dell’attività sportiva che all’andamento del corso dei titoli azionari acquistati sul mercato o, comunque alla rivalutazione dell’investimento fatto. Ne consegue che una delle peculiarità più evidenti, e forse più distorsive, che caratterizza soprattutto le società calcistiche, è la tendenza a far coincidere l’alea tipica dell’andamento dell’attività d’impresa con l’alea dei risultati sportivi della squadra. Ne è evidenza, in primo luogo, la stretta commistione che si è creata tra l’attività sportiva e quella societaria, con la conseguenza che la prima ha finito per assumere un’importanza addirittura maggiore della seconda, nel senso che l’investitore, nel determinarsi ad investire nella società, guarda più alla “forza” sportiva della squadra di calcio ed ai suoi risultati sportivi, che non all’andamento economico della gestione societaria e alle sue prospettive [7]. Non sorprende dunque la ricorrente opinione secondo la quale l’indebolimento della situazione economico-patrimoniale delle società calcistiche sarebbe sempre da imputare all’insuccesso sportivo della squadra; opinione da cui deriva la altrettanto semplicistica, quanto infondata, tesi secondo la quale la sola prospettiva di vincere il campionato sarebbe sufficiente a ricapitalizzare la società [8]. Ulteriori conferme della tendenza ad assoggettare l’organizzazione societaria e le scelte gestionali ai condizionamenti dell’attività sportiva vengono da una serie di prassi seguite da pressoché tutte le società calcistiche, incluse quelle quotate. Tra queste, si segnala in primo luogo quella di fare coincidere le chiusure degli esercizi sociali con la fine dei campionati al 30 [continua ..]
Oltre alle anomalie appena ricordate, le società sportive che decidono di ricorrere al mercato dei capitali devono anche scontare l’onere del difficile confronto con la disciplina speciale prevista dalla legge e dai regolamenti applicabili alle società quotate, oltre che l’onere della vigilanza e degli interventi della Consob. In estrema sintesi, anche per le società calcistiche la quotazione comporta (rectius, dovrebbe comportare), oltre ad un drastico cambiamento “culturale”, gravosi oneri di compliance tra i quali (i) l’aumento della quantità e qualità dell’informazione finanziaria, poiché esse sono tenute a redigere e pubblicare, oltre al bilancio annuale, i dati contabili infrannuali trimestrali, a cui si aggiunge la necessità di redigere i propri bilanci in conformità ai nuovi principi contabili internazionali, i c.d. IFRS; (ii) l’aumento degli obblighi di comunicazione al mercato e di trasparenza sui fatti rilevanti ed idonei ad influenzare l’andamento della quotazione dei loro titoli, a cui si contrappone anche il dovere di non rendere pubblici fatti invece non sufficientemente definitivi, quali gli ingaggi di nuovi giocatori in corso di definizione; (iii) l’adozione di modelli di governance ben più rigorosi rispetto a quelli normalmente adottati; (iv) l’assoggettamento all’attività di vigilanza e controllo, oltre che ai poteri ispettivi e di denunzia (anche penale), della Consob, la quale è ripetutamente intervenuta proprio sulle società calcistiche quotate (v. infra, in questo paragrafo); e ancora (v) l’assoggettamento alle regole di funzionamento dei mercati regolamentati, tra le quali, a titolo esemplificativo, quelle in materia di OPA in caso di cessioni a terzi di partecipazioni sociali superiori alle soglie di legge. Inutile dire che le anomalie delle società sportive rendono particolarmente complessa e, talvolta, addirittura irrealizzabile un’adeguata compliance agli obblighi sopra menzionati. Proprio per questa ragione sia la Consob sia Borsa Italiana hanno spesso dovuto esercitare una particolare attenzione su questo tipo di emittenti. Ricordo, come già in sede di autorizzazione alla pubblicazione del prospetto informativo, la Consob, oltre a verificarne la completezza rispetto agli schemi di riferimento, ha richiesto alle quotande società calcistiche che [continua ..]
Un altro elemento critico del (difficile) rapporto delle società calcistiche quotate con i mercati regolamentati è quello della corporate governance. Dalle rilevazioni svolte da Consob emerge una concentrazione di poteri in mano a poche persone “chiave” ed una mancanza di separazione delle funzioni decisionali e di controllo interno alle società, con evidenti conseguenze sul piano tanto dell’effettività dei controlli periodici interni, quanto dell’indipendenza delle scelte gestorie degli amministratori rispetto all’azionista di controllo della società [15]. Sul piano concreto la Consob è dovuta intervenire in un caso in cui il presidente del consiglio di sorveglianza era il legale del presidente del consiglio di gestione, il quale era altresì l’azionista di riferimento della società; il tutto con evidente pregiudizio dei requisiti di indipendenza prescritti dal t.u.f. (come modificato dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262) per gli organi di controllo interni alla società anche nel modello dualistico. Più in generale, sotto il profilo del sistema di amministrazione e controllo prescelti dalla società calcistiche quotate, è utile segnalare che, ad oggi, soltanto la S.S. Lazio s.p.a. ha optato per l’adozione del sistema dualistico; in base a quanto risulta dalla Corporate Governance della Relazione sulla Gestione dell’esercizio chiuso al 30 giugno 2007, il consiglio di gestione ha attribuito al suo presidente (che è ancora l’azionista di riferimento della società) tutti i poteri gestori – ad eccezione soltanto di quelli non delegabili per legge, atteso che lo statuto sociale della società non prevede limitazioni di delega dei poteri gestori ad uno o più componenti del consiglio di gestione – con l’effetto che restano di competenza dell’organo di gestione in forma collegiale soltanto la redazione del bilancio, la predisposizione del piano industriale della società e dell’organigramma societario. Diverse le scelte delle altre due società calcistiche quotate. La A.S. Roma s.p.a. ha mantenuto il sistema di amministrazione e controllo tradizionale ed ha anche aderito al Codice di Autodisciplina del Comitato per la Corporate Governance delle società quotate di Borsa Italiana s.p.a.; da quanto risulta dal documento sulla Corporate [continua ..]
Le anomalie e le criticità delle società calcistiche, con particolare riferimento a quelle che si rivolgono al mercato dei capitali, sono state oggetto di un ampio dibattito che ha coinvolto anche le sedi istituzionali. Da questo dibattito sono emersi tre principali fattori di criticità: (i) la volatilità dei ricavi e degli stessi corsi di borsa dei titoli quotati come conseguenza diretta del successo o dell’insuccesso sportivo registrato dalla squadra; (ii) la rigidità della struttura dei costi che ricorrentemente superano i ricavi (in particolare, i costi degli ingaggi e dei servizi e gli ammortamenti dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori che assorbono pressoché tutti i ricavi generati dalla società); nonché (iii) gli squilibri finanziari e la scarsa patrimonializzazione, aggravata, anziché corretta, dal già citato decreto salvacalcio [18]. A ciò si aggiunge la diffusa considerazione che ancora oggi manca una classe di imprenditori specialisti nell’attività “d’impresa sportiva”, considerato che gli azionisti di riferimento che si improvvisano gestori di questa società sono di norma imprenditori che operano in settori ben diversi e che decidono di investire nella società sportiva principalmente per passione sportiva o al limite per fini promozionali della propria impresa “d’origine” [19], senza però avere significative esperienze nella gestione di imprese sportive. Anche a livello di dibattito parlamentare è stata dedicata particolare attenzione al binomio “società calcistiche e quotazione”, con riferimento, in particolare, alle speculazioni collegate agli annunci di acquisti di atleti al solo scopo di influenzare il mercato delle azioni delle società, nonché ad altri temi, come quello della commistione tra business e sport o ancora quello della “virtualità” del patrimonio di queste società sostanzialmente privo di assets materiali o comunque di “attività” il cui valore economico sia reale e ben determinabile. Tra le indagini conoscitive promosse in sede parlamentare, ricordo quella sul calcio professionistico condotta nel 2004 da parte della VII Commissione della Camera dei Deputati e conclusa con l’approvazione di un documento nel quale veniva suggerita una serie di interventi, tra i [continua ..]
Siamo dunque di fronte ad una tendenza a voler interrompere definitivamente il difficile rapporto tra società calcistiche e mercati di capitali [23] per evitare che le anomalie segnalate continuino a pregiudicare l’interesse dei risparmiatori ad un’adeguata informazione e ad una corretta valutazione dei titoli basata sull’andamento economico-finanziario piuttosto che sui risultati sportivi di queste società o, peggio ancora, sulle attese e le speculazioni dei tifosi. Resta però da chiedersi se non sia il caso di ipotizzare una soluzione che consenta alle società sportive di poter disporre di un canale di reperimento di risorse finanziarie sul mercato, senza però attingere al risparmio dei piccoli risparmiatori che tra l’altro, oltre ad essere le possibili vittime degli effetti distorsivi precedentemente descritti, sono però anche una delle cause – come tifosi e azionisti – delle rilevate anomalie. In tale prospettiva, un’opinione da valutare con la massima attenzione potrebbe essere quella di consentire alle società sportive di accedere ad un mercato non regolamentato, cioè ad un mercato riservato ad investitori particolarmente qualificati, che non richiede il rispetto degli obblighi tipicamente previsti a protezione dei piccoli risparmiatori. Mi riferisco a mercati come il nuovo Mercato Alternativo del Capitale (c.d. “MAC”), che ha avviato la propria attività a decorrere dal mese di settembre 2007 con lo scopo di accogliere le piccole e medie imprese che desiderano raccogliere capitali di terzi senza però doversi assoggettare ai costi e agli oneri organizzativi generati dalle regole e gli obblighi applicabili alle società che intendono quotarsi [24]. Il MAC, invero, presenta il vantaggio per le società di un accesso più semplice e veloce [25], senza imposizione di modifiche alla struttura organizzativa dell’impresa, e meno oneroso dal punto di vista economico; inoltre, non essendo richiesta la redazione e pubblicazione di un prospetto informativo, le quotande società sono sottoposte alla vigilanza della sola Borsa Italiana. A ciò si aggiunga che, non essendo un mercato regolamentato, l’ammissione al MAC non determina l’applicazione del t.u.f. con una significativa riduzione degli oneri di comunicazione al pubblico ridotti ai minimi termini essenziali. Dal punto [continua ..]