Il saggio propone una lettura delle azioni a voto plurimo (art. 2351, 4° comma, c.c.) e della maggiorazione del voto (art. 127-quinquies, TUF), volta ad inquadrare sistematicamente le due fattispecie e ad appurare le rispettive ricadute applicative sul controllo della società (art. 2359 c.c.). Il presupposto di fondo è che si tratti di due diverse forme di moltiplicazione dei voti rispetto al numero delle azioni, fondate sul fatto che le azioni a voto plurimo costituiscono una categoria speciale, e come tale soggetta a regole che impongono ben determinati equilibri tra le categorie di azioni; la maggiorazione del voto invece (che ricalca le c.d. loyalty shares) non riguarda una categoria e si riferisce all’intero corpo votante. L’ipotesi ricostruttiva qui proposta è che: i) anche alle azioni a voto plurimo si applichi il limite di cui all’art. 2351, 2° comma, c.c., e lo si applichi perché a tutela della indefettibilità delle azioni ordinarie, che non possono scendere sotto la metà del capitale sociale; che ii) l’indefettibilità è da intendersi tuttavia ai soli fini del rapporto con le azioni speciali nel voto – e quindi dei processi decisionali della società; che iii) l’emissione delle azioni a voto plurimo non comporta l’aumento del totale dei voti esercitabili, stante la non applicabilità dell’art. 127-quinquies, 8° comma, TUF; che quindi iv) il numero dei voti attribuibili dalle azioni a voto plurimo non potrà complessivamente superare quello dei voti attributi dalle azioni ordinarie; donde v) il controllo di diritto potrà spettare indifferentemente o a chi possiede tutte le “azioni” a voto plurimo più una ordinaria, o a chi possiede tutte le “azioni” ordinarie più una a voto plurimo. Altro è a dirsi invece per le azioni a voto maggiorato, dove al verificarsi della maggiorazione corrisponde necessariamente l’incremento dei voti esercitabili anche ai fini del quorum costitutivo, donde si innalza anche il numero dei voti necessari per controllare la società.
The paper proposes to interpret systematically the multiple voting shares (art. 2351, co. 4, c.c.) and the increased voting (art. 127-quinquies, TUF) as to evaluate the effects of the latter on the discipline of the companies’ control pursuant to art. 2359 of the Italian Civil Code. The assumption is that we are dealing with two different forms of multiple voting if confronted with the total number of shares, because the multiple voting shares constitute a special category of shares which, as such, is based on rules aimed at establishing a balance amongst the different types of shares; increased voting (so-called loyalty shares), instead, does not relate to a specific category of shares but to the voting body as a whole. The present paper purports to demonstrate that: i) the limit established under art. 2351, second paragraph of the Italian civil code can be applied to multiple voting shares, in order to guarantee that the number of ordinary shares do not fall below half of the share capital; ii) such limit is to be referred only to the voting phase, and thus only to the decisional process; iii) the issuance of multiple voting shares does not determine the increasing of the total exercisable votes, because art. 127-quinquies, eight paragraph of the TUF does not apply; as a consequence iv) the number of votes attributable to the multiple voting shares cannot exceed the number of vote attributable to ordinary shares; therefore v) de jure control will be held either by those who own all multiple voting shares plus one ordinary share or those who own all ordinary shares plus one multiple voting share.
Different conclusions can be reached for the increased voting shares, where, to the increasing of votes inevitably corresponds the increasing of the exercisable votes for the purpose of quorum formation; and this leads to the increasing of the number of votes necessary to control the company.
KEYWORDS: Joint-stock company – Classes of shares – Ordinary shares – Special shares – Multiple-voting shares – Increased voting rights – Constituent quorum – Resolution quorum – Exercise votes – The de jure control – The de facto control – Plutocratic principle – Proportional vote – Non-proportional vote – contestability of power.
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1. Premessa - 2. Voto plurimo e voto maggiorato in quanto fattispecie - 3. L’ inquadramento sistematico - 3.1. Le azioni a voto plurimo come categoria speciale - 3.2. (segue) Le azioni soggette alla maggiorazione del voto come azioni «a peso variabile» - 4. Voto plurimo e ricadute sul controllo societario - 4.1. Voto plurimo e autonomia statutaria - 5. Maggiorazione del voto e ricadute sul controllo - 6. Considerazioni sull’attuale configurazione della società per azioni - NOTE
Il dibattito in tema di azioni a voto plurimo e di maggiorazione del voto, che ha accompagnato e seguito l’introduzione legislativa di tali strumenti con la l. 11 agosto 2014, n. 116 (di conversione del c.d. “Decreto competitività 2014”), si è concentrato fino ad oggi più che altro sulla loro opportunità (sull’opportunità – o meno – di “puntellare” il controllo, bloccandone il ricambio, nel caso di adozione di quelle a voto plurimo; sull’opportunità – o meno – di “violare la parità degli azionisti” nel caso di quelle a voto maggiorato [[1]]). La loro introduzione è apparsa infatti inopportuna a quanti temono che tali congegni possano tenere lontani dal mercato quegli investitori che le stesse renderebbero “meno uguali” degli altri, opportune invece a chi vi ravvisa, all’opposto, lo strumento per assicurare il passaggio generazionale dell’impresa o per incentivare la quotazione o comunque l’investimento nelle società azionarie, sull’esempio di Google, Linkedin, Facebook ecc. nell’esperienza americana: il che significa creare azioni a voto plurimo [[2]] destinate a restare nelle mani del socio imprenditore-fondatore a fronte di quelle ordinarie destinate al mercato (si pensi alle società che abbiano un fondatore “visionario” e cui il mercato riconosca indubbie capacità creative e innovative, tali da legittimare un suo ruolo di guida aziendale) [[3]] o creare azioni a voto maggiorato per valorizzare la capacità attrattiva nei confronti degli investitori internazionali e rendere maggiormente agevole la quotazione e la negoziazione delle azioni ordinarie (si pensi agli intenti dichiarati nel caso della FCA) [[4]]. La diversità di vedute, che si spiega evidentemente già solo perché le due visioni rispecchiano le due diverse angolazioni (o prospettive o classi di interessi) dalle quali la vicenda è riguardata, non toglie tuttavia un presupposto di fondo comune ad entrambe: quello di dare per scontato che le azioni a voto plurimo blocchino, appunto, il ricambio del controllo; come dare per scontato che la maggiorazione del voto mantenga il controllo nelle mani di chi già lo possiede, quandanche vendesse una parte delle sue [continua ..]
Come è noto, la possibilità statutaria di prevedere la “Maggiorazione del voto” nelle società quotate (art. 127-quinquies Tuf) e il “Voto plurimo” nelle società non quotate – e talora nelle stesse quotate purché introdotto anteriormente alla quotazione – (art. 127-sexies Tuf) discende dalle innovazioni apportate dalla legge n. 116/2014 di conversione del d.l. n. 91/2014, disciplina che ha novellato anche l’art. 2351, 4° comma, c.c., abrogando il divieto di voto plurimo, e lo stesso comma 3, che consente ora la fissazione di tetti massimi e il voto scalare in qualunque società per azioni, aperta o chiusa che sia. Si tratta di innovazioni importanti, che hanno sicuramente inciso sul sistema, innovandolo, ma che non per questo sembrano averlo “scardinato” o “destrutturato”, come pure si ripete comunemente nel dibattito sull’argomento, avendo soltanto reso meno rigida la corrispondenza tra il numero dei voti e il numero delle azioni in ordine all’allocazione del potere nei processi decisionali oltreché sollecitato l’esigenza di cogliere i nuovi equilibri e i nuovi problemi che può dischiudere il mutato contesto, quale in primis il problema di stabilire chi controlla la società. Ed infatti, se plutocratica o capitalistica poteva dirsi la società per azioni nel diritto post-riforma organica e nel diritto post-direttiva azionisti, non avrei soverchi dubbi che, in fin de’ conti, plutocratica o capitalistica possa dirsi ancora la società per azioni, anche all’indomani delle innovazioni che hanno offerto concrete possibilità di crescita o di incremento del numero dei voti derivanti dalle azioni. Si deve distinguere, comunque, tra maggiorazione del voto e voto plurimo. Quanto alla “maggiorazione” del voto “fino ad un massimo di due voti” che può essere introdotta nelle società quotate, ai sensi dell’art. 127-quinquies Tuf, si tratta di uno strumento che non comporta – ad avviso di chi scrive – alcun passaggio dal voto proporzionale al voto «non proporzionale» e neppure ad un voto «personale», come solitamente si dice [[13]], ma semplicemente l’attribuzione agli azionisti di un voto «più [continua ..]
Questo inquadramento tra le categorie di azioni appare di per sé gravido di ricadute sistematiche, per quanto la novella resti muta con riferimento a tali conseguenze. Esso comporta, innanzitutto, ad avviso di chi scrive, che anche con riferimento a tali azioni speciali ci si debba domandare se, al pari di quanto si verifica per le azioni senza voto o a voto limitato o subordinato, sia da applicare il 2° comma dell’art. 2351 c.c., chiamato a risolvere i conflitti endosocietari tra le diverse categorie di azioni, a norma del quale le azioni speciali “non possono complessivamente superare la metà del capitale”. Si tratta pertanto di verificare se il comma 2 dell’art. 2351 c.c., rubricato “Diritto di voto”, costituisca la norma generale dei rapporti tra tutte le categorie di azioni “con” e “senza” diritto di voto – o, se si preferisce, dei rapporti tra tutte le categorie di azioni – speciali e non – limitatamente al diritto di voto o se, invece, costituisca la norma speciale dei rapporti tra le sole categorie a voto uno, a voto zero ed a voto limitato, ivi espressamente disciplinate. Una verifica, questa, dalla quale non esime, per esempio, la circostanza che le azioni speciali espressamente nominate nel comma 2 attribuiscono ciascuna “un voto” (su singoli argomenti o subordinatamente a determinate condizioni non meramente potestative), mentre le azioni speciali a voto plurimo in parola hanno un peso superiore, atteso che il limite della “metà del capitale” è riferito alla quantità delle azioni appartenenti alla categoria – e non alla quantità dei voti attribuiti alla categoria e soprattutto atteso che tale limite è coerente con un sistema (quello del codice civile italiano) che, come la storia ci ricorda (sin dai tempi delle discussioni sulla riforma del codice di commercio) non volle introdurre il voto plurimo nell’assemblea ordinaria, tant’è che non recepì mai la proposta caldeggiata da Vivante di prevedere soltanto un fattore moltiplicativo del voto (: un numero di voti non “superiore al quintuplo di quelle ordinarie”) [[21]]. Peraltro, lo stesso Vivante propose bensì la soppressione dal Progetto originariamente presentato, ed [continua ..]
La metafora non si applica infatti alla maggiorazione del voto, stante la regola speciale di cui all’art. 127-quinquies, 8° comma, Tuf, che segue logiche speciali, le quali producono la variazione continua del numero totale dei voti esercitabili a mano a mano che la maggiorazione del voto maturi in capo ai rispettivi titolari, e sempre che taluno non vi abbia rinunciato: una variazione continua o fluttuanza dei voti esercitabili, quindi, tale per cui, in ipotesi di maggiorazione del voto sono i voti esercitabili a diventare la metafora del rapporto sociale, e non viceversa. Per questo, altro sono le azioni a voto plurimo, tutt’altro quelle a voto maggiorato [[43]], le quali, lungi dall’essere una categoria, non sono altro che azioni «a peso variabile», nel senso che rendono il peso di ciascun azionista variabile di momento in momento in funzione, non solo della quantità delle sue azioni e del tempo trascorso dall’intestazione delle stesse, quale risultante dall’apposito elenco, ma anche del «peso» di tutte le altre azioni in quel dato momento. Ma questo significa anche che diventa variabile proprio il parametro rispetto al quale le azioni pesano, il quale dipende dal peso del totale delle azioni in un dato momento o, metaforicamente, dal “capitale” al quale rapportare la partecipazione di ciascuno. Ne discende che il nuovo testo dell’art. 120, 1° comma, Tuf, in tema di assetti proprietari ed ai soli fini della comunicazione delle partecipazioni rilevanti, nello stabilire che “Nelle società i cui statuti consentono la maggiorazione del diritto di voto o hanno previsto l’emissione di azioni a voto plurimo, per capitale si intende il numero complessivo dei diritti di voto”, assume una valenza ben diversa per le azioni soggette a maggiorazione del voto e per le azioni a voto plurimo: il numero complessivo dei voti esercitabili varia infatti soltanto nelle società che hanno previsto la maggiorazione del voto, ma non varia nelle società che hanno creato le azioni a voto plurimo, atteso che queste ultime costituiscono una categoria speciale e, come tale, soggetta agli artt. 2368, 1° comma e 2351, 2° comma, c.c., e non all’art. 127-quinquies, 8° comma, Tuf. Di qui, da un [continua ..]
In altri termini, così inquadrate sistematicamente le azioni a voto “plurimo”, il vantaggio di cui gode chi ne dispone sta nel fatto che può raggiungere prima (e cioè con meno azioni) lo stesso «peso» del totale delle azioni ordinarie e, parimenti, chi dispone delle azioni a voto “unico” ha bisogno di un maggiore numero di azioni per raggiungere lo stesso «peso» del totale delle azioni a voto plurimo. Il vantaggio non sta dunque nel privilegio esclusivo di controllare, per i primi, e nella irreversibilità del controllo dei primi a detrimento dei secondi. Questo comporta, ai fini del controllo, che gli uni (azionisti a voto plurimo) o gli altri (azionisti ordinari) disporranno della “maggioranza dei voti esercitabili” – e cioè del controllo di diritto – nel momento in cui saranno titolari o di tutte le azioni a voto plurimo + 1 ordinaria oppure di tutte le azioni ordinarie + 1 a voto “plurimo”. Combinazioni di azioni diverse da queste potranno dare luogo soltanto ad un controllo di fatto, quando si dispone di “voti sufficienti” per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (art. 2359, 1° comma, n. 2, c.c.), la quale è pur sempre derivante dalla grandezza della partecipazione sociale, e quindi dalle azioni, ma i voti dovranno essere sufficienti rispetto ai voti delle azioni normalmente presenti nell’assemblea ordinaria di quella data società. Il che non significa occasionalmente sufficienti ad approvare una data deliberazione, trattandosi sempre della presenza di un potere da provarsi in chiave prognostica, e non già ex post in base al concreto esito della votazione. Questa ricostruzione che vede nel comma 2 dell’art. 2351 c.c. una regola tipica delle azioni ordinarie – in quanto indefettibili – e quindi una regola generale presuppone che, se la ratio di tale limite è stata storicamente quella di fare delle azioni ordinarie le azioni “di comando” (ASQUINI) e comunque di impedire che una sparuta minoranza del rapporto sociale potesse concentrare presso di sé – non solo di fatto, ma anche di diritto – il controllo della [continua ..]
Se si condividono le riflessioni che precedono, in punto di inquadramento sistematico delle azioni a voto plurimo nell’odierno diritto della società per azioni, si tratta di appurare fino a che punto la libertà di creare azioni a voto plurimo possa spingersi nel derogare alle logiche che governano i processi decisionali della società per azioni, quali si ricostruiscono alla luce della disciplina da applicare: una disciplina comprensiva anche delle norme sul controllo societario (artt. 2359-bis/2359-quinquies c.c.), norme che fanno del controllo un potere derivante dalle azioni (recte: dalla grandezza della partecipazione sociale misurata in azioni) e che presuppongono la regola plutocratica di funzionamento dei processi decisionali (art. 2351, 1° comma, c.c.), la quale vede il rapporto tra il 1° comma e il 4° comma dell’art. 2351 c.c. come il rapporto tra una regola ed una sua puntuale eccezione (o, se si preferisce, una delle sue puntuali eccezioni). Un’esigenza questa che sembrerebbe sentita in fondo anche da quella dottrina che di fronte alle nuove aperture alla libertà statutaria preferisce ragionare in negativo, dell’esigenza di “contenimento della sproporzione” possibile tra potere e rischio, sul presupposto che non è affatto inevitabile che tale rapporto possa essere “liberamente e discrezionalmente smentito in misura ulteriore” [[51]]. Non è questa la sede per addentrarsi nel tema dei confini entro i quali, articolando le azioni in una pluralità di categorie, l’autonomia statutaria possa combinare tra loro i vari strumenti, messi a disposizione dei privati per soddisfare i propri interessi, alterando il paradigma legale della società per azioni, quale si ricava vuoi dai limiti espressi, che il codice civile pone con riferimento al diritto di voto, vuoi da quelli inespressi, ma desumibili sul piano sistematico per coerenza con la fattispecie, stante la relatività di questa alla disciplina da applicare. Si può solo accennare alla circostanza che la violazione di tali limiti può condurre all’invalidità delle clausole statutarie dettate in violazione degli stessi, all’incertezza giuridica dell’attività posta in essere dagli organi sociali e in ultima analisi all’incremento del [continua ..]
Tanto con riferimento al voto plurimo quanto al voto maggiorato è ricorrente in dottrina l’affermazione secondo la quale, ai fini del controllo, rileverebbero solo i “voti”, e non le unità azionarie che li attribuiscono (cosa che per il vero si dice già da tempo, da quanto, con il d.lgs. n. 127/1991, l’art. 2359 c.c. non fa più riferimento alle “azioni o quote possedute” bensì, direttamente, alla “disponibilità dei voti” derivanti dalle azioni o quote possedute). Si tratta tuttavia di un’affermazione non condivisibile e ciò per ragioni teleologiche, atteso che il controllo (almeno quello di cui all’art. 2359 c.c., cioè “la disponibilità dei voti” che assicura “l’influenza dominante nell’assemblea ordinaria”) funge da presupposto di una disciplina delle partecipazioni reciproche al capitale tra società di capitali (art. 2359-bis ss. c.c.), donde presuppone – oggi come ieri – una situazione stabile, fondata sempre sulla grandezza della partecipazione sociale, seppure alcune azioni, essendo dotate di un potere più che proporzionale, consentano di raggiungere più rapidamente il quorum deliberativo (quelle a voto plurimo) e lo stesso quorum costitutivo (quelle a voto maggiorato), il che consente di affermare che la società per azioni possa dirsi ancora oggi un tipo sociale pensato e tuttora disciplinato per fare derivare il potere dalla grandezza della partecipazione sociale, per quanto evolutosi nel senso di poter rendere il potere più che proporzionale alla grandezza della partecipazione sociale (o anche meno che proporzionale, in caso di adozione del voto scalare ex art. 2351, 3° comma, c.c.). Quanto alle ricadute sul controllo che discendono dall’introduzione della maggiorazione del voto, queste appaiono sicuramente più incisive e più complesse. La circostanza che la maggiorazione del voto non sembri avere, almeno ad avviso di chi scrive, nulla di “soggettivo” (se non il fatto che le azioni oggetto di maggiorazione del voto sono inevitabilmente intestate ad un soggetto) non toglie che il vero problema da affrontare non sia classificatorio o nominalistico, bensì di applicazione della disciplina, e [continua ..]
Se si condividono le osservazioni che precedono, anche le azioni a voto plurimo e la maggiorazione del voto offrono un angolo d’osservazione privilegiato per confermare l’ipotesi ricostruttiva secondo la quale la società per azioni, avendo per oggetto l’esercizio di un’impresa azionaria, è tipicamente votata a crescere, ed a crescere non già in funzione del variare del numero dei soci, bensì del variare del numero delle azioni (art. 2351 c.c.), stante la sua tendenziale attitudine ad aprirsi al mercato del controllo azionario e quindi alla quotazione (art. 2325-bis c.c.). Per dirla con LIBERTINI-MIRONE-SANFILIPPO, la s.p.a. è la forma giuridica di una “impresa in crescita”, nella quale continua ad avere una “permanente vitalità, se pure ridimensionato, il principio capitalistico”, il quale “non può esser abbandonato, né ridotto – malgrado inclinazioni diffuse e crescenti in questo senso – a mera regola residuale, derogabile senza limiti da parte degli statuti societari”, convenendo con chi scrive che “le deroghe di diritto positivo a tale principio devono essere pur sempre considerate come eccezioni al principio di base” [[66]]. Si tratta di un connotato tipologico della società per azioni che tali Autori ricostruiscono alla luce del confronto con la s.r.l., dal quale si evince a contrario che anche la s.p.a. chiusa condivide con quella aperta una almeno virtuale attitudine ad aprirsi al mercato, attitudine esclusa invece per la s.r.l., dove l’autonomia statutaria è amplissima (stante la possibilità di prevedere “libertà di forme”, “diritti speciali e di veto”, “intrasferibilità delle partecipazioni”), laddove nella s.p.a. quand’anche chiusa l’autonomia statutaria potrebbe introdurre, al più, “elementi di possibile personalizzazione dell’organizzazione, ma solo nei limiti previsti dalla legge” [[67]]. Ed infatti, per dirla con SPADA, un ruolo “residuale piuttosto che essenziale” è rivestito nella s.r.l. non solo dall’organizzazione capitalistica (art. 2468, 2° comma; art. 2468, 3° comma, c.c.), ma finanche dall’organizzazione corporativa, che è [continua ..]