Il presente studio trae spunto da alcune contrastanti pronunce del Tribunale di Milano relative all’operatività del meccanismo del voto di lista – previsto statutariamente per la nomina dell’organo gestorio – in caso di sostituzione di un solo amministratore.
Dopo una breve ricognizione in chiave storica dei meccanismi di voto assembleare previsti per attribuire alla/e minoranza/e la possibilità di eleggere direttamente un proprio rappresentante in seno al consiglio di amministrazione, l’analisi della problematica verrà sviluppata attraverso la ricostruzione della ratio sottesa al voto di lista attraverso i parametri forniti dai riferimenti normativi. In seguito si analizzeranno le decisioni giurisprudenziali al fine di individuare alcuni criteri ermeneutico-funzionali per la soluzione del quesito controverso. Anticipando quanto si dirà più approfonditamente in seguito, si ritiene che non si possa prescindere dalle disposizioni (e dai criteri applicativi) che regolano l’interpretazione degli statuti societari poiché, nelle società non quotate, il suddetto meccanismo di elezione del consiglio di amministrazione trova la sua fonte in tali atti negoziali (a differenza che nelle società quotate in cui è reso obbligatorio in virtù di disposizioni di legge).
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1. Il voto di lista nella sua genesi storica: esperienze comparate. - 2. La nomina degli organi di amministrazione e controllo nelle società quotate. - 3. La sostituzione di un amministratore nominato dalla minoranza. - 4. Analisi delle pronunce giurisprudenziali. - 5. L’interpretazione dello statuto quale fonte del voto di lista. - 6. Considerazioni conclusive. - NOTE
Il voto di lista nelle società è un meccanismo di voto che può atteggiarsi diversamente a seconda del sistema elettorale cui inerisce. Esistono due modelli per il funzionamento del suddetto meccanismo: (I) il metodo delle liste bloccate, in virtù del quale si prevede che ciascun socio possa presentare all’assemblea una sola lista, contenente un numero di candidati inferiore al numero dei consiglieri da eleggere, prevedendo che, dalla votazione assembleare, risultino eletti tutti i candidati elencati nella lista che ottiene la maggioranza dei voti, e che risultino eletti, fino a concorrenza del numero globale dei consiglieri, i primi candidati della lista che avrà ottenuto il maggior numero di voti dopo la prima [1]; (II) il metodo proporzionale, in virtù del quale si stabilisce che ciascun socio (o un gruppo di soci che rappresenti almeno una determinata percentuale di azioni) possa presentare una lista di candidati individuati secondo una numerazione progressiva. La votazione avviene per liste e successivamente i voti ottenuti da ciascuna lista vengono divisi per il numero progressivo che contraddistingue ciascun candidato della lista. I quozienti così ottenuti sono assegnati progressivamente ai candidati di ciascuna lista, nell’ordine dalla stessa previsto. Sono nominati coloro che ottengono i quozienti più elevati. In via di esemplificazione, il voto di lista è volto ad attribuire alle minoranze assembleari il diritto di proporre delle proprie liste di candidati per l’elezione dei consiglieri di amministrazione e la possibilità – secondo un criterio proporzionale, eventualmente “mitigato” – di nominare propri rappresentanti in deroga al principio maggioritario (sancito in Italia dall’art. 2368 c.c.), favorendone il coinvolgimento nella gestione dell’impresa sociale. Il panorama mondiale è foriero di diversi esempi che testimoniano quanto il tema della partecipazione delle minoranze alla gestione societaria sia stato sentito già da diverso tempo da parte di altri ordinamenti [2]. Negli Stati Uniti, sin dal 1879, è stato previsto il c.d. cumulative voting [3], in virtù del quale ciascun azionista ha a disposizione per eleggere i consiglieri di amministrazione un numero di voti pari al numero delle proprie azioni, moltiplicato per il numero di amministratori da eleggere. Questo [continua ..]
Con l’emanazione del d.lgs. n. 58/1998 (t.u.f.), la protezione delle minoranze nelle società quotate ha acquistato un ruolo primario nei piani del legislatore, il quale in quell’occasione ha varato una serie di norme innovative per la definizione della corporate governance [11]. Tra le novità più pregnanti vi era la possibilità per le minoranze di esercitare direttamente l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e la riduzione del quorum necessario per convocare l’assemblea ordinaria (dal 20% del capitale al 10%). Ai fini del presente lavoro, assume rilevanza l’art. 148 t.u.f., 2° comma, che riservava alla minoranza la nomina di un sindaco nei collegi composti da tre membri e la nomina di almeno due sindaci nei collegi composti da più di tre membri [12]. Tale disposto si proponeva chiaramente di tutelare le minoranze, assicurando una maggiore indipendenza e autonomia dei sindaci rispetto al gruppo di controllo [13]; al contempo, però, non era ravvisabile alcun riferimento alle modalità di nomina e solamente l’analisi empirica ci rende noto il notevole ricorso che le società hanno fatto al voto di lista per la nomina del sindaco della minoranza [14]. La previsione normativa, infatti, imponeva alle società quotate di modificare i propri statuti al fine di prevedere la possibilità che un sindaco fosse eletto dai soci di minoranza; è, però, un dato di fatto che nel 2004 solamente 70 società quotate italiane avevano dichiarato di avere sindaci eletti dalle minoranze soprattutto a causa (i) della difficoltà di raggiungere i quorum per la presentazione delle liste di minoranza e (ii) del il disinteresse degli investitori istituzionali naturalmente inclini ad investimenti di breve periodo e in piccole partecipazioni [15]. Preso atto che, nonostante l’espressa previsione del t.u.f., la rappresentanza di sindaci eletti dalla minoranza nelle società italiane quotate era alquanto esigua, la c.d. legge sul risparmio (legge n. 262/2005, modificata dal d.lgs. n. 303/2006) ha previsto espressamente il meccanismo del voto di lista per l’elezione del collegio sindacale, attribuendo alla Consob il potere di definire con regolamento le modalità per garantire ai soci di minoranza la nomina di almeno un sindaco effettivo [16]. La legge sul risparmio, figlia [continua ..]
Ricostruito brevemente l’iter normativo del voto di lista e la funzione ad esso attribuita nel contesto legislativo, appare opportuno affrontare il problema della sostituzione di un amministratore (di minoranza) qualora, per la nomina del consiglio, sia previsto il ricorso al suddetto meccanismo di voto. Quantunque in questa sede ci si occupi dell’ipotesi in cui il voto di lista sia previsto statutariamente nelle società c.d. chiuse, è evidente che assumeranno rilievo interpretativo anche i contributi forniti con riferimento alla previsione normativa dell’art. 147-ter t.u.f. la quale prevede esplicitamente per le società quotate l’obbligo di nomina del consiglio mediante voto di lista, ancorché nulla disponga in caso di sostituzione dell’amministratore di minoranza. Le modalità di sostituzione di un amministratore di minoranza prefigurate dagli interpreti sono sostanzialmente riconducibili a 3 ipotesi: 1) l’amministratore dovrà essere sostituito mediante cooptazione (come previsto dall’art. 2386 c.c.); 2) l’amministratore dovrà essere nominato dalla compagine sociale che lo aveva eletto in precedenza; 3) decadrà l’intero organo che dovrà quindi essere rieletto secondo la procedura del voto di lista. A sostegno di quest’ultima ricostruzione, è stato correttamente osservato che il concetto di minoranza ha carattere “contingente e relazionale” poiché si determina in funzione degli esiti delle singole assemblee [27] e quindi ciò renderebbe necessario eleggere nuovamente l’intero consiglio per preservare il funzionamento del voto di lista. La conclusione cui si giunge non appare, però, concretamente condivisibile in quanto essa non tiene conto degli altissimi costi di agenzia che comporterebbe, in particolare per società quotate su mercati regolamentati (a cui l’Autore si riferisce). Onde evitare tali problemi, il legislatore ha previsto espressamente il meccanismo della cooptazione [28] di cui all’art. 2386, 1° comma, c.c. Obiettivo dell’istituto della cooptazione è, infatti, quello di ricercare un equilibrio tra il mantenere inalterata la composizione del collegio e il “non appesantire la vita sociale con l’imposizione della necessità di convocare immediatamente un’assemblea ogni volta che venga meno un [continua ..]
Sul tema la giurisprudenza di merito ha affermato: «allorquando sia statutariamente previsto un meccanismo di voto di lista finalizzato a garantire la rappresentanza della minoranza in seno all’organo amministrativo, va da sé che detto meccanismo debba operare non solo alla scadenza naturale della carica dell’organo amministrativo, ma anche nel caso di sostituzione di un consigliere decaduto» [36]. La massima citata sembra considerare sillogismo deduttivo ciò che in realtà è una semplice abduzione, in quanto la conclusione (i.e. il voto di lista opera anche nel caso di sostituzione di un consigliere decaduto) necessita di conferme esterne per poter essere considerata ragionevolmente certa. La motivazione, però, non fornisce un’adeguata argomentazione [37] (“va da sé”) per risolvere la questione (tutt’altro che pacifica). Anche le altre pronunce conformi sono passibili di censura: i primi giudici che si erano pronunciati sul tema, con un’ordinanza successivamente revocata [38], pur riconoscendo che la clausola statutaria era indubbiamente strutturata al fine di pervenire alla nomina di più membri del consiglio, avevano affermato: «la clausola […] non esclude espressamente la procedura del voto di lista per l’ipotesi di nomina di un solo membro del consiglio di amministrazione», arrivando poi a concludere nel senso di una violazione della previsione statutaria in virtù della disapplicazione del meccanismo de qua. A parere di chi scrive, si tratta di un’inversione logica del ragionamento poiché, secondo tale ricostruzione, il meccanismo del voto di lista opererebbe anche in ipotesi non contemplate dallo statuto in quanto non espressamente escluse. La fallacia di quest’orientamento appare evidente, come confermato anche dal successivo provvedimento di revoca, in quanto esso non sembra tener conto dei criteri che governano l’interpretazione degli statuti societari (v. infra, § 5). Come è stato autorevolmente affermato [39], infatti, posto che la clausola relativa al voto di lista riguarda (salvo espresse previsioni) il caso in cui l’assemblea è chiamata a rinnovare l’intero consiglio, nell’ipotesi di sostituzione di un amministratore la medesima clausola risulta «materialmente inapplicabile per mancanza della situazione alla quale essa [continua ..]
L’analisi della tematica non può prescindere dall’interpretazione della fonte del voto di lista nelle società non quotate (i.e. lo statuto). Sul tema, dottrina [42] e giurisprudenza [43] concordano nel ritenere applicabili le norme sull’interpretazione dei contratti, precisando, però, che essa deve avvenire secondo criteri obiettivi [44]. Quest’ultima considerazione si giustifica per un duplice ordine di ragioni: (i) lo statuto è destinato a disciplinare una serie indeterminata di rapporti, rispetto ai quali avrebbe la funzione di apprestare la struttura organizzativa di riferimento; (ii) la rilevanza anche nei confronti di soggetti terzi dell’attività societaria, con emersione di profili di tutela per tali soggetti [45]. Ne discende che l’interprete, nel processo di ricostruzione ermeneutica di una disposizione statutaria, dovrà avere a mente primariamente quanto statuito dagli artt. 1367 e seguenti c.c. La riforma del diritto societario, sebbene non si sia occupata direttamente di tale profilo, ha sicuramente rimarcato la centralità dello statuto e, di riflesso, le regole di funzionamento della società, rispetto ai profili negoziali rilevanti nel momento genetico, marginalizzando la rilevanza da accordare all’intento negoziale rispetto alle oggettive manifestazioni dell’organizzazione societaria [46]. L’intervento riformatore per di più ha espressamente fornito un forte imprimatur con riferimento al ricorso all’autonomia negoziale per disciplinare gli aspetti relativi al funzionamento della società [47]. Si è così assistito nella prassi ad una stesura di statuti sempre più dettagliati e completi, la cui interpretazione oggettiva rappresenta un coerente bilanciamento degli interessi coinvolti (autonomia statutaria e tutela dei soggetti terzi). Alla luce di quanto sopra, appare corretto attribuire ad una clausola statutaria che prevede semplicemente il voto di lista per la nomina dell’organo amministrativo il significato letterale che la stessa ha, in quanto, se le parti avessero voluto derogare al meccanismo della cooptazione e della successiva approvazione assembleare (secondo il criterio maggioritario) per la sostituzione di un amministratore, avrebbero potuto pacificamente prevederlo. L’interesse sotteso alla previsione è infatti riconducibile [continua ..]
Concludendo, il voto di lista previsto statutariamente è fisiologicamente congegnato per la nomina di una pluralità di amministratori ed è pacifico che in tal caso trovi applicazione secondo le modalità dettate dallo statuto. In ipotesi, però, di sostituzione di un amministratore, ancorché esso sia espressione della compagine di minoranza, non potranno che trovare applicazione, per le ragioni esposte in precedenza, le disposizioni del codice civile in tema di cooptazione. Resta comunque la facoltà per le parti, in occasione della redazione dell’atto negoziale, di derogare a questo meccanismo di sostituzione prevedendo delle clausole apposite che regolino la fattispecie. Anzi, è stato auspicato che la previsione del voto di lista nello statuto sia sempre affiancata dalla previsione di una procedura specifica per l’eventuale sostituzione dei membri cessati, tale da garantire il rispetto dei principi sottesi al voto di lista anche in queste circostanze [53], così come effettivamente previsto dall’art. 34.3 dello Statuto della Tecno S.p.A., il quale, a quanto consta, fa esplicitamente ricorso al meccanismo della cooptazione (!?).